mercoledì 29 giugno 2016

Death of a Shadow

Elementi che potrebbero giocare a favore di Dood van een Schaduw (2012):

il meccanismo che sostanzia questo corto è sicuramente ingegnoso, il belga Tom Van Avermaet se l’è studiato bene lo script creando un rovello filmico che pesca in un certo immaginario distopico, più che altro si sente la presenza di un’idea concreta dietro, e un’idea è sempre un buon punto da cui partire (a patto che non diventi l’unico motivo portante dell’opera, ma se ne parlerà nell’ultimo paragrafetto). Gli intenditori che giudicano in base alla trama avranno di che gioire: un set-limbo vita/morte e un tizio mefistofelico che colleziona le ombre di chi sta per trapassare, il tutto lustrato per bene con una confezione che molti registi esordienti possono solo che sognarsi (Van Avermaet afferma che per la realizzazione del progetto ci sono voluti cinque anni e che un contributo importante lo ha fornito il denaro della regione francese della Champagne-Ardenne e indirettamente quello dato da una ditta del Belgio che produce cibo per animali [?] [link]), davvero: la componente tecnico-estetica è in linea con la professionalità del cinema da sala che andate a vedere, recitazione (il protagonista ha lavorato con Audiard e Guadagnino), scenografia (reminescenze di Gilliam), sceneggiatura (protesi di un mind-game preso a caso: Nolan?), insomma non siamo di sicuro nell’amatorialità. Ma capisco anche che a leggere suddetti riferimenti io stesso sarei il primo a parlare di elementi che giocano a sfavore: ma come, in un blog che cerca di guardare oltre si acclamano sbiadite miniature di modelli ritriti? Verissimo. Allora sposto subito l’attenzione su una riflessione che è fiorita durante la proiezione, anche se per il regista non è così importante, anzi potrebbe benissimo essere una classica sovraintepretazione dell'esegeta.

Le due figure principali del film mi hanno suggestionato in termini di parallelo, come se entrambi avessero le potenzialità per incarnare una tendenza che non definisco tanto moderna quanto insita nell’umano, che è quella dell’avidità materiale, della bramosia di possedere sempre di più e che qua si congiunge ad una sorta di macabro voyeurismo, para-necrofilia stilizzata (il visore retrofuturistico non rende Rijckx un pornografo della morte?). È limpido il fatto che Death of a Shadow non abbia minimamente le carte in regola per affrontare dignitosamente tematiche del genere, Van Avermaet è oltremodo impegnato a fare un film più per compiacersi nell’inquadramento normativo che per tentare lo scardinamento ammonente. Sono solo impressioni non si sa quanto legittime…

Elementi che indubitabilmente giocano a sfavore:

il fatto decisivo e senza appello alcuno è: Dood van een Schaduw è stato candidato all’Osca®. Se ne era già parlato sia per Instead of Abracadabra (2008) che per God of Love (2010), ad oggi, chiunque possegga un minimo di sensibilità verso il cinema non può che ritenere strabolitte le grammatiche che sostanziano i lavori orbitanti attorno l’industria dell’Academy. Perché anche il corto sotto esame ha una consistenza originale soltanto nel canovaccio in quanto l’idea portata avanti in tal modo viene come sterilizzata dalle logiche livellanti che imperano nella fruizione di massa, non per niente Van Avermaet viene risucchiato da quell’obbligo che assale molti suoi colleghi di dover raccontare una storia ad ogni costo, e se è una storia che pigia sul sentimentalismo ancora meglio. Così facendo noi non vediamo più un film, ma un’illustrazione, cioè la rappresentazione di un qualcos’altro che ci viene imposta dal regista di turno. Il cinema che intendo io invece lavora al contrario, è quella forma d’arte che attraverso una forza invisibile è capace di proiettare dentro di noi gli embrioni di un’eventuale rappresentazione, la quale una volta introiettata ha la probabilità di germinare, ma solo all’interno, nel profondo, nella sala-cervello. Questo significa esperire il cinema, tutto il resto è Death of a Shadow.

lunedì 27 giugno 2016

La demora

La demora (2012) non è il primo e non sarà di sicuro l’ultimo film a trattare certi argomenti (di recente avete potuto vedere Florida [2015] di Philippe Le Guay) poiché il tema della demenza senile si presta bene a forum in cui un regista può artisticamente esprimersi, e l’uruguaiano Rodrigo Plà si cimenta in materia con un approccio allineato a molti film sudamericani visti negli ultimi anni accomunati da una similare atmosfera (vedi Whisky [2004], Leap Year [2010], Las Acacias [2011], ecc.) e quindi la sottrazione diventa un atto di fede registica dove tutto o quasi è trattenuto, sedato, rabbonito, è il solito contrasto che così si crea: sulla scena dobbiamo confrontarci con un dramma notevole, ma suddetto dramma viene trasmesso senza accenti o intensificazioni di sorta e procedendo sottotraccia questo genere di opere avanzano, al netto di qualche inciampo, verso il cuore delle cose, quel nucleo narrativo che sorregge le storie.

C’è però un grosso problema alla fonte nel film di Plà che riguarda proprio la componente drammatica, difatti una domanda si pone da sola: qual è l’origine dell’elemento tragico? Il punto è dolente perché l’elemento in esame proviene dalla scrittura, ovvero dalla sceneggiatura, a causa della quale il film si ammanta di un meccanismo pieno di forzature in cui il ricorrere alla sospensione dell’incredulità non è abbastanza. Purtroppo in una dimensione finzionale come quella de La demora che si affida esclusivamente ad un metodo di trasmissione canonico fatto di cause ed effetti, il piano della figlia per far sì che il padre venga accettato in una struttura di ricovero bypassando la burocrazia, è di una fragilità lampante oltre che una mera strumentalizzazione per toccare la sensibilità spettatoriale giocando facilissimo: lasciare un vecchietto malato e indifeso sulla panchina di un parco non può che suscitare pietà, ma accendendo l’interruttore critico e soffermandosi sui fatti visti e sui loro presupposti (la difficile situazione esistenziale della donna), è legittimo additare un dispositivo di tal fatta.

Tentando un paragone sbagliato (poiché paragonare è di per sé un metro di giudizio errato) tra La demora e Cavallo Denaro (2014), possiamo constatare un diverso avvicinamento ad una mente in regressione come quella dei due vecchietti protagonisti dei rispettivi film, è chiaro che l’idea di Costa è di un livello superiore perché non si interessa dell’esteriorità, delle conseguenze provocate dalla malattia sulle persone che vi entrano in contatto, ma tenta l’impossibile proiettandosi in un cervello obliato, Plà al contrario mostra appena appena il vedibile della superficie, sta all’intrepido spettatore la scelta di dove voler posare il proprio sguardo.

sabato 25 giugno 2016

La quinta stagione

Aveva visto miliardi di cose inquiete, pronte al cambiamento continuo, aveva visto come dialogavano tra loro severamente senza capo né coda, ognuno per conto proprio; miliardi di relazioni, miliardi di storie, miliardi, ma si riducevano continuamente a una sola, che conteneva tutte le altre: la lotta tra ciò che resiste e ciò che tenta di sconfiggere la resistenza.

(László Krasznahorkai, Melancolia della resistenza; Zandonai 2013)

Dopo tanto peregrinare il ritorno nel vecchio continente di Peter Brosens e Jessica Woodworth giova alla loro idea di cinema. La cinquième saison (2012), rispetto ai due film precedenti Khadak (2006) e Altiplano (2009), ha un respiro nettamente più “europeo” pregno di riferimenti artistici che Manuel Billi ha prontamente riportato nella sua disamina (link) e a cui aggiungerei anche alcuni lavori di Bruno Dumont (per somiglianza di contesto più che di testo), il che non ci pone più davanti a lavori dove emergeva una dissonanza (voluta) tra sguardo occidentale e materia estera che per chi scrive non soddisfaceva in toto la compresenza di talune, incerte, dicotomie (da un lato l’esuberanza estetica dall’altro l’ostinazione di inserire delle tracce eco-ambientaliste sottotestualmente paraboliche). Qui potremmo dire che tutto l’impianto filmico si presenta in modo più asciutto (ma non di certo quell’asciuttezza tipica di un certo cinema autoriale, lo sottolineo) o perlomeno maggiormente incanalato nell’esposizione. Sarà la natura programmatica dell’opera, l’avvertibile ciclicità che conduce ad un declino inesorabile, il senso di Fine partorito da piccoli inquietanti segnali, fatto sta che uno dei pregi che emerge con più vigore è la solidità, quella robustezza propria delle Opere che mancava alle due pellicole passate. Nonostante, comunque, Brosens & Woodworth continuino ad affidarsi ad un velo allegorico pullulante di figurazioni e segni, quello che cambia è che ne La quinta stagione tale abbondanza non produce un disorientamento irreversibile né si ode l’eco di un virtuosismo sterile, ciò che c’è e che vediamo è parte integrante di un percorso senza biglietto di ritorno.

Premettendo che negli ultimi anni il “cinema della Fine” ha avuto manifestazioni molto più alte di questa (citare Tarr è necessario), è indubbia la bravura della coppia registica nell’imbastire formalmente il prodotto sotto esame riuscendo a sedurre l’occhio come sempre più di rado accade nell’arte narrativa, operando sulla geometria naturalistica (la verticalità [degli alberi e di quelle splendide rocce perpendicolari al lago] che sminuisce la bassezza umana) e la profondità paesaggistica senza scivolare nella stucchevolezza, anzi: insaporendo di continuo lo scontro architrave Uomo-Natura, mostrando la dipendenza del primo nei confronti dell’altra (il mondo si adombra, la coscienza anche) fino al crollo ineluttabile della categoria ritenuta superiore. C’è dell’altro ad ogni modo, un coacervo di segnali che non verranno approfonditi (per farlo si rimanda ancora a Billi) dove spicca un’incomunicabilità di fondo tra noi e il resto, tanto che l’episodio del gallo muto è paradigma di un’afasia linguistica dell’uomo nei confronti dell’ambiente sottovalutata eppure terribilmente urgente, si noti che gli unici in grado di comunicare al di là della parola con richiami animaleschi sono i tre ragazzini, in una sintonia, dunque, che gli altri abitanti non hanno. A ben vedere, allora, anche La quinta stagione ha un substrato non privo di una certa morale, il punto fondamentale è che non siamo in presenza di una lezioncina indottrinante, più che denunciare B&W constatano, sollevato il filtro simbolico, rimane il dato di fatto del nostro tempo.

giovedì 23 giugno 2016

Before Dawn

Fuga aurorale con imprevisto.

Paesaggio d’avorio ingrigito, vento che curva le sommità dei fili d’erba, silenzio irreale, l’arrivo di un camion. Con pochissimi fattori a sua disposizione Before Dawn (2005) riesce egregiamente a trasmettere La Situazione all’osservatore, un colpo di clacson illumina meglio che un sole: come nell’epico finale di Songs from the Second Floor (2000) l’emersione umana nel quadro visivo, camuffata al nostro occhio eppure presente fin dall’inizio, sorprende e ci pone su frequenze trepidatorie, questioni di leggero accumulo che l’ungherese Bálint Kenyeres amministra con talento, e non solo per il piano sequenza di cui dirò poco sotto che costituisce l’intero cortometraggio, ma anche e soprattutto per l’accaduto sganciato da qualunque riferimento politico-culturale, il che proietta i dodici minuti di girato in una dimensione ben più ampia del singolo episodio, e, vuoi per l’ambientazione, vuoi per la suddetta e gradita assenza di spiegazioni, il film sa profilarsi come un’istantanea universale del Clandestino, uomo-in-fuga, l’immigrato costretto a convivere con la paura impersonificata da una petulante sirena. Per capire l’efficacia del lavoro di Kenyeres si può usare il metodo della comparazione rapportandolo ad un corto come Silent River (2011) che occupandosi della stessa tematica scivola non poco sulla romanzatura narrativa e nella ricerca indesiderata di acutizzare il dramma.

Menzione necessaria poi alla tecnica usata dal regista che ricorda quella impiegata da Ruben Östlund per Incident by a Bank (2009), uno sfoggio che sulla carta potrebbe apparire virtuosistico ma che nell’impiegarsi delinea prospettive concettuali e teoriche rilevanti; filmare in unico shot nella declinazione data da Kenyeres priva lo spettatore di quell’onniscienza tipica di una sintassi registica “normale”, fornendo un unico e statico punto d’osservazione la conoscenza visiva è regolamentata dalle norme della fisica: possiamo vedere quanto la mdp ci permette di vedere, tutto questo crea uno stato di impotenza in chi guarda poiché impossibilitato a mettere effettivamente le grinfie sulla storia, ne consegue una totale dipendenza nei confronti del demiurgo di turno (Kenyeres) che sovrapponendo il proprio punto di vista col nostro ci incatena lì, tra quelle colline che sembrano attendere da secoli un po’ di luce.

(e lo sguardo terrorizzato di un uomo, la visione di un vetrino al microscopio)

martedì 21 giugno 2016

In the Fog

Seconda e consecutiva incursione di Serhij Volodymyrovyč Loznycja  nel campo della fiction, dopo il cupo My Joy (2010) il documentarista nato in Bielorussia ma cresciuto in Ucraina prosegue un lavoro di immersione storica e relativa ricostruzione; a differenza del film precedente il passato in V tumane (2012) non è più una parentesi all’interno della storia ma diventa, fondamentalmente, La Storia, quella dell’Unione Sovietica nel 1942, del nazismo, dei partigiani. Loznycja pur impostando la propria opera su binari più classici, struttura il racconto attraverso un’alternanza tra la fuga dei tre uomini e le vicende che li hanno portati ad essere nelle condizioni in cui si trovano, tale avvicendamento, segnalato sempre da una dissolvenza in nero, permette alla pellicola di acquisire uno spessore morale che va obbligatoriamente sottolineato; perché questo è un film sulla guerra che accantona i gangli politici per focalizzarsi su delle “inutili” pedine che si muovono sopra ad una scacchiera funerea, viti di un meccanismo che li sovrasta, e dei loro tormenti Loznycja ci fornisce un quadro più che convincente, scolpito nel rimorso, nella vendetta e nella codardia, un labirinto che si tramuta in ginepraio da dove non c’è un’uscita di sicurezza che non sia la morte (Sushenya che ormai ha perso la speranza di essere creduto perfino da sua moglie).

V tumane per vari motivi non è quel tipo di cinema che infiamma il sottoscritto e penso nemmeno voi che state leggendo, anche in relazione a My Joy che era decisamente crudo e votato ad una brutalità non facilmente dimenticabile, In the Fog si offre con meno impeto data la tendenza di affidarsi a lunghe sequenze prive di “azione”, anche dialogica. Il che contrasta con le tematiche affrontate e ne rende automaticamente più difficile la conseguente assimilazione, da una parte gli orrori bellici che a loro volta contengono quelli personali e dall’altra un andamento felpato che trattiene ogni possibile catarsi emotiva, c’è da pazientare un poco ma parallelamente riconoscere che anche questo è comunque un metodo per raggiungere un fine, d’altronde la rappresentazione di un conflitto può anche avvalersi della psicologia e dell’etica se vuole restituire sfumature ulteriori a quelle stampate sui libri di Storia. Ad ogni modo il (finto) torpore del film è scosso da stralci che scuotono (il viso tumefatto di Sushenya nell’interrogatorio, sempre Sushenya costretto a trascinarsi un peso sulle spalle che ha un che di sinistramente simbolico) oltre ad un finale in grado di dire moltissimo pur senza mostrare alcunché, dove un fenomeno meteorologico è figurativamente il sipario che dissolve nel nulla le anime di tre uomini e della loro piccola storia.

venerdì 17 giugno 2016

Porfirio

Pare che sia una storia vera, ossia che un disabile stufo di aspettare invano dei soldi dovuti dallo Stato, abbia tentato di dirottare un aereo con due granate. Vero o no poco ci importa perché quella dell’esordiente Alejandro Landes, nato in Brasile da madre colombiana e padre ecuadoriano, è tutta la storia che c’è prima, Vangelo di un povero cristo condannato alla sedia a rotelle per via di una pistolettata alla schiena (ce lo dice già la locandina, vedete?), venditore di minuti, innamorato della donna che abita con lui (una prostituta?), padre di uno scavezzacollo, cittadino indignato e inerte, in due parole: Porfirio Ramirez.

C’è tutto un mondo dentro Porfirio (2011), film girato in Colombia con danari – anche – europei (presentazione a Cannes), micro-universo tragicomicamente delizioso, anzi: delicato nell’enucleare quello che sulla carta è un dramma umano di proporzioni rattristanti: Porfirio, dignitoso spiantato, alle prese con l’Abbandono, non tanto famigliare perché il giovane figlio fa quel che può (quando ne ha voglia), bensì Istituzionale, lasciato su una brandina nel suo appartamento spoglio in attesa di un qualche emolumento che gli spetterebbe di diritto, e intanto, giornalmente, ingoiare il boccone amaro dell’immobilità, della non-autosufficienza, della necessità di dover dipendere dagli altri anche per i gesti più “semplici” (perfino per defecare c’è bisogno di una “mano”), convivere con l’umiliazione di non poter mai uscire di casa sulle proprie gambe per fare una passeggiata, sognando cose bellissime e lontanissime, fissando il mulinare delle zampe dei cavalli alla tv (controbilanciate beffardamente dall’immediata scena successiva dove un bruco striscia vicino ai piedi del protagonista). Di materiale per inscenare una lacrimevole parabola istruttiva ce n’era pericolosamente tanto ma per fortuna Landes fa quello che era più intelligente fare: usa l’affilata ironia sgravando la tragicità per renderla appetibile, empatica, maggiormente autentica di qualunque altra manifestazione romanzata, perché il pregio capitale di Porfirio sta proprio nella genuinità che irradia (gli attori non sono professionisti), come se Landes non si fosse dovuto inventare niente perché quello che aveva di fronte alla mdp sarebbe accaduto anche a luci spente, naturalmente.

Come per Octubre (2010) siamo al cospetto di un cinema squisitamente intimo, che dà del tu, con il quale è automatico entrare in sintonia, un cinema orgogliosamente anti-hollywoodiano che ci restituisce la bellezza della caducità corporale (cfr. Battaglia nel cielo, 2005), descrivendo con una dolcezza velata ma intuibile il profilo di un eroe che appartiene alla categoria dei perdenti, quella che più ci piace vista la grandezza dell’impresa e l’esiguità di chi la tenta, non si scoraggi però señor Porfirio, anche se non è riuscito ad ottenere i soldi dallo Stato, si è guadagnato la nostra infinita stima.

martedì 14 giugno 2016

Uku ukai

Un gruppo di persone non più giovanissime che si dedica ad attività di fitness: chi fa footing, chi nuota, chi fa ginnastica, chi sghignazza steso sull’erba, chi fa minuscoli esercizietti nel proprio appartamento.

Uku ukai (2006) è un cortometraggio lituano totalmente disinteressato alla narrazione, oggetto non identificato di natura concettuale che il regista Audrius Stonys, uno principalmente dedito al documentario con un’unica incursione attoriale in Three Days (1992) di Bartas, modella seguendo l’ispirazione estetica, quella che si genera dal fascino dell’immagine indipendente, la suggestione visuale che subisce l’osservatore. Incollando in successione una serie di diapositive del genere, si tenta di costruire un’idea (sempre anti-narrativa) della vecchiaia come zona di transito e non soltanto di capolinea, il gruppo di anziani si tiene in forma e se la spassa (anche se quelle risate suonano un po’ forzate) e sembra che tutto vada alla grande. Stonys però prova a creare una dissonanza inserendo nel contesto filmico una vecchina che si sveglia e si addormenta in solitudine anch’essa alle prese con faccende ginniche; la pista si biforca, qualche interrogativo sorge: che cosa sta a significare questa duplice faccia del tenersi in forma? Che gli esercizi in solitaria sono altrettanto efficaci di quelli in compagnia? Che, di contro, l’uomo-anziano può ancora avere momenti di socialità occupandosi del benessere fisico? Impossibile dare una risposta anche perché Stonys è parecchio più interessato a far palpitare l’occhio che qualunque altra porzione anatomica dello spettatore, e in un’occasione ci riesce: la ripresa iperrealista e ravvicinata della pelle umana è veramente degna di nota, poi sbraca senza chiedere scusa: già l’incipit, dopo arriva un cane, una ballerina e un mantra fuori campo dall’indecifrabile funzione.

Ci si perde in questa mezz’oretta di girato, ma non è uno smarrimento estatico, anzi seppur di breve durata il corto riesce ad avere un effetto respingente figlio di un avviluppamento interno che denuncia un’attenzione alla forma troppo occupata a specchiarsi. Quando il narcisismo è la culla della sterilità.

sabato 11 giugno 2016

90 Minutes

La confezione è di livello, Eva Sørhaug, norvegese al secondo lungometraggio, giostra in modo più che accettabile le componenti estetiche del film, dalla fotografia allo studio delle inquadrature 90 minutter (2012) offre un catalogo visivo che non è affatto spiacevole sfogliare ed ecco primi piani stretti e senso di oppressione nonostante gli ambienti siano ben illuminati, il che contribuisce ad alimentare il fattore meglio gestito di tutto il film: l’attesa. La Sørhaug, autrice anche della sceneggiatura, riesce a tenere sulle spine l’attenzione optando con discreta sagacia su un accumulo tensiogeno sottile ed indefinito erogato da situazioni diegetiche di ben poco conto, quisquilie narrative che però riescono a suggerire il di lì a poco manifestarsi di un qualcosa di brutto e cattivo. Esempi: la prima volta che appare l’uomo pelato la regia si concentra nel riprenderlo in attività inessenziali all’interno dell’abitazione, si avverte che nel giro di qualche minuto il quadretto domestico verrà inzuppato di pece; oppure: al ritorno del marito in carriera per la cena coniugale viene dato uno spazio considerevole ai preparativi culinari, anche qui si è colti dall’impressione che da quel tavolo uno dei due non si alzerà più (ce lo ricorda anche quel coltello che minaccioso sfiletta la carne). La tendenza è perciò quella di creare i presupposti necessari per una e più manifestazioni di bruta violenza, presupposti che, attenzione, non hanno alcuna direzione esplicativa, nessun spiegazionismo pesudo-psicologico atto a giustificare il gesto, sono piuttosto premesse “sensoriali”, percezioni di un’incombente tragedia.

Quando però queste tragedie si verificano, l’opera che aveva toccato quote di inquietudine sopra la media, decresce sensibilmente. Provo a spiegare il perché: in un film che tratta il tema della violenza domestica e del femminicidio (si generalizza, non è esattamente ciò che c’è in 90 Minutes) è inevitabile che vengano esposti casi appartenenti alla categoria di riferimento, vi è quindi una percentuale di predizione che risulta impossibile da soffocare, per controbilanciare le suddette conoscenze aprioristiche ci sarebbe bisogno di una metodologia capace di rendere “nuovo” lo scontato, di sorprendere, di toglierci la sicurezza di sapere che non ci sarà un lieto fine. Per chi scrive niente di tutto questo si verifica, la regista appropinquandosi alla conclusione si fa prendere la mano dalla ferocia dei suoi protagonisti e pecca in un eccessivo mostrare, soprattutto nel chiudere la storia della madre seviziata il girato diventa esibizione di calci, pugni, sangue e forbiciate in pieno petto. Il fatto è che una siffatta evidenziazione della crudeltà dei tre uomini (con parziale esclusione di quello più anziano) non è additabile in quanto tale, ovvero non è biasimevole l’efferatezza dell’azione, quello che non va è il volersi affidare esclusivamente a scene di impatto scioccante per coronare il proprio discorso teorico: per rappresentare il Male non sussiste la necessità di metterlo forzatamente in vetrina, la Sørhaug a tale assioma non è riuscita ad arrivare, per delucidazioni la invitiamo a citofonare al sig. Reygadas.

giovedì 9 giugno 2016

Blondie

La mamma compie settant’anni, le tre figlie ritornano nella casa materna per i festeggiamenti.

Non c’è niente da salvare nel film che Jesper Ganslandt ha portato a Venezia ’12, ed è un peccato perché questo regista svedese aveva fatto intravedere cose discrete nelle due opere precedenti (Falkenberg Farewell [2006] e The Ape [2009], soprattutto in quest’ultima, bel thriller dalla struttura ingegnosa), ma ahinoi Blondie (2012) si rivela un enorme passo indietro sotto tutti i punti di vista: per cominciare non si può che sbadigliare di fronte ad un’ennesima ed indesiderata riunione famigliare farcita di sonnolenti cliché: famiglia ricca (un campione non dissimile dai personaggi che popolavano Avalon, 2011) uguale a famiglia disunita, madre assente in passato, figli con problemi nel presente, modella in carriera cocainomane impavida, marito fannullone puntualmente cornificato, l’abbienza che non è sinonimo di felicità, e così via. Partendo da presupposti così incartapecoriti era inevitabile che la storia in sé uscisse fuori piatta, in un’accezione dove si registra una preoccupante mancanza di profondità, la lettura è talmente scontata (oltre che ritrita) da sfiorare l’indignazione; a contribuire negativamente alla monodimensionalità del film ci si mette una caratterizzazione dei ruoli impossibilitata ad avere uno sviluppo, una crescita, le tre sorelle sono manichini imbellettati e posizionati su binari che li conducono in risvolti narrativi di ordinaria fattura, a tal proposito il malore della madre non sorprende neanche un po’, al pari della riappacificazione che ne consegue (artefatta proprio perché scaturisce da una soluzione altamente prevedibile).

Non allieta nemmeno il tono usato da Ganslandt, anche perché non si capisce bene che tono sia, il suo tergiversare tra il ritratto leggero di una borghesia in frantumi e i piccoli drammi (inter)personali che punteggiano le tre donne (con una netta disparità di trattamento: la più giovane è una figurina accessoria, dei patemi che la affliggono poco o niente ci viene detto), non fa prendere nessuna delle due direzioni al film. Anzi, forse l’unico tono uniforme ed esteso dal primo all’ultimo minuto è quello di una messa in scena patinatissima dal sapore glamour, quindi effimero (nonché superficiale), come se ci trovassimo dentro il servizio fotografico di una firma dell’alta moda, e i finti fermo-immagine che scandiscono i capitoli richiamano con forza tale area. È un tentativo di aprirsi al pubblico meno esigente quello di Ganslandt (sarà un caso, ma l’attrice che impersona Elin, Carolina Gynning, è un personaggio televisivo piuttosto noto in Svezia avendo vinto il Grande Fratello anni fa), avvalendosi di un metodo che naviga troppo nel comune, affondando poi nella materia del racconto, esile manualetto di tormenti già visti in abbondanza. Qualche anno fa si era paventata la possibilità che Ganslandt dirigesse un film con Robert Pattinson protagonista, la cosa sembra andata a scemare ma potrebbe essere significativa in merito alla direzione che lo svedese voleva o vuole imboccare…

mercoledì 8 giugno 2016

The Calm

È piuttosto interessante questo cortometraggio peruviano presentato nella sezione apposita di Berlino ’11 da un debuttante di nome Fernando Vílchez Rodríguez, perché La calma (2011) lavora molto e abbastanza bene nel reparto sensoriale, evitata la didascalia ci sono le immagini e i significati che emanano: teoricamente il film dovrebbe raccontarci di un violento terremoto che colpì la città di Pisco nel 2007, ma di informazioni sul sisma non ne riceviamo, anzi l’inizio è estraneo e astratto, scandito da una storiella che non lesina una certa inquietudine (ecco il sopraccitato impegno nel campo percettivo), inquadrato perfino in un piano simbolico dove il cadavere in putrefazione di una foca (o qualcosa di simile) mangiucchiato dai cani evoca della roba brutta trascorsa da un non troppo lontano tot di tempo. La conoscenza che facciamo col terremoto è brutale: immagini di repertorio nell’immediata post-catastrofe (altro elemento che gioca a favore del regista, sfaccettature e incatalogabilità), delirio e grida tra la polvere e le macerie, una testa che spunta dai detriti. Si avverte nel pseudo-prologo che il cataclisma ha avuto effetti di portata traumatizzante, non vengono esibiti, ci sono solo insetti frenetici che brulicano nel cranio della bestia spiaggiata.

La calma a cui allude il titolo, ovvero il dopo, ovvero il corpo dell’opera, è una “rappresentazione” di quello che è rimasto; le premesse, forse, promettevano un’intensità che nel prosieguo non si riesce propriamente a ravvisare, Vílchez Rodríguez “si perde un po’” nel rapporto tra l’incorporeità del protagonista – che è sullo schermo principalmente sottoforma dei pensieri esplicitati in forma scritta – e l’ingombrante corporeità dello sfasciume che lo circonda condito dal frastuono delle operose ruspe. Cioè, non mi pare ci sia un vero e proprio laccio/causa-effetto tra lo stato di devastazione della città e le intenzioni di fuga del tipo, o meglio, sulla carta le potenzialità ci sono, nei fatti meno, però va bene uguale: oltre la non precisa coesione è comunque gradita l’instillazione epifanica che rimanda in altri spazi e tempi, probabilmente La Vera Calma è quella lì, la sensazione (appunto) di serenità che scaturisce dalla visione della casa della madre con i nipotini, lontano dalla costa, dalla disgrazia e via dicendo. Finale aperto e visivamente rabbioso, interpretazioni cercasi, ma non disperatamente.

lunedì 6 giugno 2016

Reindeerspotting: Escape from Santaland

Un po’ di informazioni su Reindeerspotting - pako Joulumaasta (2010): Joonas Neuvonen, il regista, fino al momento in cui non ha preso la videocamera in mano e ha iniziato ad immortalare l’amico Jani intento a iniettarsi del Subutex a più non posso, di regista in quanto tale non aveva niente; studente di fotografia, nato a Rovaniemi e poi vissuto in svariate capitali del mondo, una volta tornato nel territorio lappone ha deciso di ritrarre la realtà di alcuni giovani tossicodipendenti (dei quali Neuvonen stesso faceva all’incirca parte) alle prese con i problemi che tutti i tossici del globo devono risolvere per tirare avanti, con l’aggiunta non sottovalutabile della location, ovvero la città di Babbo Natale, e quindi: dipendenza, astinenza, delinquenza (che porta ad incontri spiacevoli con la legge), alienazione e così via. Il punto è che Neuvonen una volta partito non aveva un’idea precisa del progetto il quale oscillava nella sua mente tra un qualcosa di molto breve (tipo mini-clip da caricare on-line) a un qualcosa di più seriale, giunto però alla fine delle riprese si è accorto che la mole di materiale era così massiccia da poterne tirare fuori un film, allora insieme al montatore Sadri Cetinkaya si è messo a tagliare e incollare in un procedimento che ha richiesto ben cinque anni di lavoro. Passaggio a Locarno, dove si è portato a casa un premio, ed inizio di una “notorietà” che probabilmente renderà il documentario uno di quegli oggettini sub-culturali da non perdere.

A differenza di un Swansea Love Story (2009), il film di Neuvonen ha una forza ancora più rattristante perché non si deve curare di dover penetrare all’interno della cerchia lisergica, non ha bisogno di andare a scovare storie disumane da raccontare, e questo perché ne fa parte in primissima persona, l’occhio-cinema è parte integrante dei meccanismi deleteri riproposti poi sullo schermo (il regista ha dichiarato a Roberto Rippa di aver girato sotto l’effetto di stupefacenti: link), ergo non c’è niente di più doloroso che un documento-verità di tal fatta poiché nella discesa verso l’abisso di Jani assistere all’indulgenza dell’amico (Neuvonen) che invece di bloccare quella mano che incunea la siringa nella vena fotografa più e più volte tale gesto, divenendo testimonianza che raccoglie l’entusiasmo per un po’ di roba raccattata con poco sforzo o i lampi di lucidità trasognante, ci carica di una morale dal quale non possiamo esimerci: non serve additare l’abuso di sostanze esposto senza filtri, non c’è pornografia qui che non si possa rintracciare altrove, piuttosto lo spunto che il documentario in maniera inconsapevole offre è quello di una rete sociale incapace di contravvenire alle criticità del protagonista dove né le istituzioni (il carcere invece che un programma serio di disintossicazione) né la famiglia (totalmente assente) e men che meno gli amici (sulla medesima barca alla deriva) evitano lo sprofondare di Jani nelle sabbie mobili dell’assuefazione. Altrettanto inconsapevolmente (perché nessuno poteva sapere come sarebbe andato il viaggio oltre i confini finlandesi) la storia così montata suggerisce una visione scoraggiante della persona-Jani, nelle vesti di tossico (le uniche che può indossare) non ha modo di potersi sentire altro, la sua vita calibrata al raggiungimento dell’ennesimo trip sarà uguale a prescindere dalla collocazione geografica.

Note amare a margine: Jani Raappana si è impiccato nel 2010 in Cambogia dove si era recato proprio con Neuvonen, mentre quest’ultimo è stato condannato nel gennaio del 2013 a due anni e mezzo di reclusione per traffico di droga.

domenica 5 giugno 2016

Altiplano

Dalla steppa della Mongolia alle Ande del Perù passando per il Belgio: l’infaticabile duo Brosens-Woodworth rimbraccia la macchina da presa dall’altra parte del globo e subito troviamo una forte continuità con Khadak (2006): in Altiplano (2009) la coppia alla regia esplora di nuovo il folklore del luogo regalandoci cartoline di valido impatto visivo, allo stesso tempo fa scontrare la tradizione con l’innovazione mostrando gli squilibri che questa collisione partorisce (l’epidemia di cecità frutto – forse – delle attività minerarie), i due non si astengono poi dall’innervare la vicenda con un’altra storia sentimentale striata di epico eroismo (Ignacio che muore per una prova d’amore) e intrecciata a quella di un’ulteriore coppia che ne diventa la relativa copia carbone. Intatte, anche se leggermente meno in preda a scalmanate vibrazioni, le finestre surreali, screziature auree molto vicine alla videoarte che, senza dubbio, lasciano un’impronta e che elevano tutto un resto per nulla esente da difetti che tra poco vedremo. Di novità che cosa c’è? È evidente una sofisticatura tramica che si rispecchia nel tentativo di dare una dimensione psicologica con flessioni morali alla componente drammatica del film, il ruolo della fotografa e quello della promessa sposa sembrano orientati verso un percorso di autocoscienza non così dissimile dove si amalgamano senso di colpa e volontà di riscatto (d’altronde il suicidio è la presa di posizione più radicale possibile), una strada binaria che nel finale troverà l’immancabile convergenza.

A fronte di cotanto materiale, rintracciabile suppergiù anche in Khadak, il cinema di Brosens e Woodworth continua a non soddisfarmi. È vero che qui rispetto all’opera precedente vi è una maggiore solidità del racconto, ma è anche vero, purtroppo, che tale racconto verte su argomenti di scarsa presa, da manualetto bignamesco: né il discorso relativo al sacrificio dell’innocente a causa della cupidigia umana, né il conseguente amore tranciato, men che meno le vessazioni sui deboli sanno trasformarsi in aria fresca per i nostri polmoni, vieppiù che l’ostentazione di una continua ricerca del metafisico con imbottiture simboliche (la Vergine che si disintegra) e trovate enigmatiche belle ma tanto compiaciute (i tipi mascherati), lasciano Altiplano in un limbo che da una parte tende ad una grammatica mainstream con tutta l’esosità che può comportare (la scena della rivolta nei confronti dei minatori l’ho trovata goffissima), mentre dall’altra galoppa sulle praterie di un’autorialità prettamente estetica che comunque, sebbene parecchio egocentrica, si fa(rà) ricordare. In breve, i primi due film di Peter Brosens e Jessica Woodworth hanno qualità tali da saper cibare adeguatamente l’occhio, oltre a quello però la ciccia è veramente poca, e confusa.

venerdì 3 giugno 2016

The Tsunami and the Cherry Blossom

Prolifica documentarista londinese, nonché premiata e messa in lizza per premi prestigiosi (qui l’Oscar), Lucy Walker sembra trovarsi a suo agio in territori quanto mai vicini al concetto di Apocalisse; nel 2010 (Waste Land) si inerpicava su per i rilievi di spazzatura dentro l’immensa discarica di Jardim Gramacho, appena un anno dopo la ritroviamo con The Tsunami and the Cherry Blossom sulle tracce del post-terremoto che disastrò il nord del Giappone nel marzo del 2011.

Di anomala durata (quaranta minuti), il documentario si biforca come già il titolo suggerisce: la parte che tratta il maremoto e i devastanti effetti da esso prodotti non brilla per intraprendenza, se ne sta docile docile riproponendo filmati amatoriali che sono sì ammutolenti (nel prologo l’avanzata dell’acqua umilia la realtà sradicando case e qualunque altro manufatto partorito da mente umana) ma che abbiamo potuto vedere nei telegiornali la sera stessa dell’infausto evento, anche le testimonianze che la Walker monta in serie sono un prevedibile riassunto di quanto dei sopravvissuti ad una tragedia a random direbbero. Non che le loro parole debbano essere svilite perché accomunabili a quelle di altre persone a loro volta scampate ad una catastrofe, starebbe al regista di turno rendere tali asserzioni più invitanti e meno ipotizzabili. Con la porzione relativa ai fiori di ciliegio (che in realtà era l’obiettivo principale della Walker la quale aveva progettato il viaggio in terra nipponica per fare un film specifico sull’argomento [1]), si tenta la carta della finestra culturale che vorrebbe illustrare la devozione dei giapponesi verso i fiori di questo albero, e nel suo piccolo ci riesce pure visto che a sentire l’opinione degli autoctoni i ciliegi fioriti sono magici (non si fa fatica ad accettarlo vista la radiosa magnificenza che emanano) e hanno un potere che pare andare oltre l’apparenza per tracimare nel simbolico.

Nell’accostare questi due topic la Walker non è stata in grado di fornire una coesione convincente all’opera, il concetto che vedrebbe la rinascita floreale come una Rinascita tout court è di un’immediatezza che rischia di provocare sbadigli, un’imboccatura ai danni dello spettatore che non trova soddisfazione nemmeno nell’impostazione risaputa della Natura bifronte che violenta recide e subitaneamente amorevole rigenera. Le carrellate sugli arbusti ingemmati sono “belle” immagini da cartolina dove comunque si accusa un certo tono enfatico non gradito (le musiche sono di Moby) che contribuisce a plastificare un’operazione che, per ragione di quelli che non esito a definire difetti, non stupisce se sia stata considerata una delle migliori nella sua categoria da parte dell’Academy.
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[1] Beh, il fatto che da un’idea filmica ne sia poi sorta un’altra a causa del terremoto, ricorda quello che è avvenuto per Himizu (2011) di Sion Sono.

mercoledì 1 giugno 2016

Utsushimi

Di fronte ad un’opera così inclassificabile come Utsushimi (2000) l’umile recensore in prima battuta non può far altro che sondare i recinti dentro i quali Sion Sono ha edificato il suo film, e quindi ecco la dicitura che subito si profila: “documentario”, che, forse non dovrei neanche sottolinearlo, non è nemmeno per un istante un documentario per antonomasia, diciamo che piuttosto si avvale di certi criteri della categoria per esporre taluni passaggi; poi c’è “commedia sentimentale”, talmente basica, puerile, assurda ed eccessiva, da apparire, come nella più classica tradizione sononiana, molto più vera e sincera della maggior parte delle rom-com in circolazione; infine c’è l’ingranaggio metatestuale, che si riallaccia agli intenti documentaristici, dove il regista giapponese sembra orientato a voler scardinare la finzione attraverso una de-strutturazione (qualcosa verrà riacciuffato con Into a Dream [2005] per giungere all’apice Why Don’t You Play in Hell?, 2013) che svela i marchingegni della macchina: il dietro le quinte della sceneggiatura, la ripresa degli operatori e dei microfoni a giraffa nell’inquadratura.

Da una tale fusione non poteva che nascere un film proteiforme e tentacolare, ostinato e destinato a distinguersi (al di fuori e al di dentro della filmografia di Sono), artigianale per certi versi (livello estetico comunque basso), anche sperimentale (non quanto Keiko desu kedo, 1997), ma soprattutto straripante, nelle sue smaccate imperfezioni e limitatezze, però sì, debordante, investente, e ciò rincuora visto che agli inizi del secolo Sono era un perfetto sconosciuto, evidentemente il Signore del Caos aveva già un’idea di cinema abbastanza precisa ruotante attorno ad alcuni capisaldi poi sviscerati in lungo e in largo, non è un caso se all’inizio di Utsushimi Sono ci presenta la sua famiglia (madre-padre-sorella) come a voler stringere un patto confidenziale con noi, un darci del tu che apre le porte ad un mix di tematiche (/ossessioni) da prendere e portare a casa. La forza biografica che Sono riesce ad imprimere nei suoi personaggi non viene meno neanche qui, il lui e la lei di questo film sono i tipici soggetti sballottati tra la pudicizia e la carnalità, tra l’Amore e il Sesso, estremi che ci riconducono al titolo e al nucleo originario: il corpo, contenitore in perenne divenire (la trasformazione è un altro marchio di fabbrica dell’autore), moto incessante (si ama correndo, e viceversa), cavo e pronto a compenetrarsi (il rapporto sessuale a bordo del carretto è qualcosa di epico).

In questo marasma audio(colonne sonore slogate: Guantanamera)-visi (pene e vagina XL)- narrativo, Sono inforca un’altra strada che potrebbe essere quella riguardante una riflessione sullo stato dell’artista che maneggia il summenzionato Corpo, dal fotografo allo stilista, dall’insegnante di danza al regista, le pedine mosse dal folle giapponese disegnano una cartina geografica dai confini nulli, tutto si fonde, si ammassa in un piacevolissimo tripudio orgiastico (i danzatori e le modelle ammucchiate) che sembra la traslazione puntuale della natura del film stesso. Il flusso di informazioni – che comprende riferimenti alla sub-cultura del paese (Hachikō e un odore di pink-film con annessi upskirt) – è massiccio e per niente incanalato, è cinema imbizzarrito quello di Sono, un esemplare di vitalità artistica che non ha pari: se non riuscite a domarlo, lasciatevi travolgere.