Elementi che potrebbero
giocare a favore di Dood van een Schaduw (2012):
il meccanismo che
sostanzia questo corto è sicuramente ingegnoso, il belga Tom
Van Avermaet se l’è studiato bene lo script creando un
rovello filmico che pesca in un certo immaginario distopico, più
che altro si sente la presenza di un’idea concreta dietro, e
un’idea è sempre un buon punto da cui partire (a patto che
non diventi l’unico motivo portante dell’opera, ma se ne parlerà
nell’ultimo paragrafetto). Gli intenditori che giudicano in base
alla trama avranno di che gioire: un set-limbo vita/morte e un tizio
mefistofelico che colleziona le ombre di chi sta per trapassare, il
tutto lustrato per bene con una confezione che molti registi
esordienti possono solo che sognarsi (Van Avermaet afferma che per la
realizzazione del progetto ci sono voluti cinque anni e che un
contributo importante lo ha fornito il denaro della regione francese
della Champagne-Ardenne e indirettamente quello dato da una ditta del
Belgio che produce cibo per animali [?] [link]), davvero: la
componente tecnico-estetica è in linea con la professionalità
del cinema da sala che andate a vedere, recitazione (il protagonista
ha lavorato con Audiard e Guadagnino), scenografia (reminescenze di
Gilliam), sceneggiatura (protesi di un mind-game preso a caso:
Nolan?), insomma non siamo di sicuro nell’amatorialità. Ma
capisco anche che a leggere suddetti riferimenti io stesso sarei
il primo a parlare di elementi che giocano a sfavore: ma come, in un
blog che cerca di guardare oltre si acclamano sbiadite miniature di
modelli ritriti? Verissimo. Allora sposto subito l’attenzione su
una riflessione che è fiorita durante la proiezione, anche se
per il regista non è così importante, anzi
potrebbe benissimo essere una classica sovraintepretazione dell'esegeta.
Le due figure principali
del film mi hanno suggestionato in termini di parallelo, come se
entrambi avessero le potenzialità per incarnare una tendenza
che non definisco tanto moderna quanto insita nell’umano, che è
quella dell’avidità materiale, della bramosia di possedere
sempre di più e che qua si congiunge ad una sorta di macabro
voyeurismo, para-necrofilia stilizzata (il visore retrofuturistico non rende Rijckx un pornografo
della morte?). È limpido il fatto
che Death of a Shadow non abbia minimamente le carte in regola
per affrontare dignitosamente tematiche del genere, Van Avermaet è
oltremodo impegnato a fare un film più per compiacersi
nell’inquadramento normativo che per tentare lo scardinamento
ammonente. Sono solo impressioni non si sa quanto legittime…
Elementi che
indubitabilmente giocano a sfavore:
il fatto decisivo e senza
appello alcuno è: Dood van een Schaduw è stato
candidato all’Osca®. Se ne era già parlato sia per
Instead of Abracadabra (2008) che per God of Love
(2010), ad oggi, chiunque possegga un minimo di sensibilità
verso il cinema non può che ritenere strabolitte le
grammatiche che sostanziano i lavori orbitanti attorno l’industria
dell’Academy. Perché anche il corto sotto esame ha una
consistenza originale soltanto nel canovaccio in quanto l’idea
portata avanti in tal modo viene come sterilizzata dalle logiche
livellanti che imperano nella fruizione di massa, non per niente Van
Avermaet viene risucchiato da quell’obbligo che assale molti suoi
colleghi di dover raccontare una storia ad ogni costo, e se è
una storia che pigia sul sentimentalismo ancora meglio. Così
facendo noi non vediamo più un film, ma un’illustrazione,
cioè la rappresentazione di un qualcos’altro che ci viene
imposta dal regista di turno. Il cinema che intendo io invece lavora
al contrario, è quella forma d’arte che attraverso una forza invisibile è
capace di proiettare dentro di noi gli embrioni di un’eventuale
rappresentazione, la quale una volta introiettata ha la probabilità
di germinare, ma solo all’interno, nel profondo, nella
sala-cervello. Questo significa esperire il cinema, tutto il resto è
Death of a Shadow.