venerdì 3 giugno 2016

The Tsunami and the Cherry Blossom

Prolifica documentarista londinese, nonché premiata e messa in lizza per premi prestigiosi (qui l’Oscar), Lucy Walker sembra trovarsi a suo agio in territori quanto mai vicini al concetto di Apocalisse; nel 2010 (Waste Land) si inerpicava su per i rilievi di spazzatura dentro l’immensa discarica di Jardim Gramacho, appena un anno dopo la ritroviamo con The Tsunami and the Cherry Blossom sulle tracce del post-terremoto che disastrò il nord del Giappone nel marzo del 2011.

Di anomala durata (quaranta minuti), il documentario si biforca come già il titolo suggerisce: la parte che tratta il maremoto e i devastanti effetti da esso prodotti non brilla per intraprendenza, se ne sta docile docile riproponendo filmati amatoriali che sono sì ammutolenti (nel prologo l’avanzata dell’acqua umilia la realtà sradicando case e qualunque altro manufatto partorito da mente umana) ma che abbiamo potuto vedere nei telegiornali la sera stessa dell’infausto evento, anche le testimonianze che la Walker monta in serie sono un prevedibile riassunto di quanto dei sopravvissuti ad una tragedia a random direbbero. Non che le loro parole debbano essere svilite perché accomunabili a quelle di altre persone a loro volta scampate ad una catastrofe, starebbe al regista di turno rendere tali asserzioni più invitanti e meno ipotizzabili. Con la porzione relativa ai fiori di ciliegio (che in realtà era l’obiettivo principale della Walker la quale aveva progettato il viaggio in terra nipponica per fare un film specifico sull’argomento [1]), si tenta la carta della finestra culturale che vorrebbe illustrare la devozione dei giapponesi verso i fiori di questo albero, e nel suo piccolo ci riesce pure visto che a sentire l’opinione degli autoctoni i ciliegi fioriti sono magici (non si fa fatica ad accettarlo vista la radiosa magnificenza che emanano) e hanno un potere che pare andare oltre l’apparenza per tracimare nel simbolico.

Nell’accostare questi due topic la Walker non è stata in grado di fornire una coesione convincente all’opera, il concetto che vedrebbe la rinascita floreale come una Rinascita tout court è di un’immediatezza che rischia di provocare sbadigli, un’imboccatura ai danni dello spettatore che non trova soddisfazione nemmeno nell’impostazione risaputa della Natura bifronte che violenta recide e subitaneamente amorevole rigenera. Le carrellate sugli arbusti ingemmati sono “belle” immagini da cartolina dove comunque si accusa un certo tono enfatico non gradito (le musiche sono di Moby) che contribuisce a plastificare un’operazione che, per ragione di quelli che non esito a definire difetti, non stupisce se sia stata considerata una delle migliori nella sua categoria da parte dell’Academy.
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[1] Beh, il fatto che da un’idea filmica ne sia poi sorta un’altra a causa del terremoto, ricorda quello che è avvenuto per Himizu (2011) di Sion Sono.

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