domenica 29 ottobre 2017

Nowhere Line: Voices from Manus Island

Non brillerà certo per un elevato valore cinematografico Nowhere Line: Voices from Manus Island (2015), ma comunque, e non è cosa inutile, questo corto ha il merito di farsi cronaca moderna portando alla ribalta, per quanto gli è possibile fare, un dramma che pur consumandosi a migliaia di chilometri dall’Europa ci fa pervenire l’eco pericolosa di un monito, soprattutto per la realtà italiana, dove un caso locale, visti i presupposti pressoché identici, è plausibilmente traslabile nei molti centri di accoglienza per immigrati sparsi nel Paese, perché sì, il lavoro di Lukas Schrank, inglese di nascita ma trasferitosi in Australia da tempo, si occupa di quella tragedia telegiornalisticamente defininita fenomeno dell’immigrazione, e lo fa raccogliendo la testimonianza telefonica di due uomini, Behrouz e Omar, fuggiti dalle loro nazioni di origine (uno è un giornalista iraniano, l’altro mi pare non venga detto) per chiedere asilo in Australia, ma la ferrea politica dello stato oceanico che tende a dislocare i rifugiati clandestini al di fuori del proprio territorio si rivela tutt’altro che accogliente spedendo i due in un centro sull’isola di Manus, Papua Nuova Guinea, in cui le tensioni con la popolazione autoctona finiscono nel sangue.

È un argomento delicato questo che avrebbe bisogno di un impegno e di uno sforzo politico reale e non di una bassa demagogia orientata a strappare qualche voto e a fomentare del cieco razzismo, allo stesso tempo è facile parlare da dietro una tastiera per cui, tornando al film, è sicuro che Schrank sa mantenere una posizione equidistante da un qualunque giudizio/commiserazione sia verso i carnefici che verso le vittime, e affidandosi alle conversazioni registrate (sarebbe interessante capire come sia riuscito a stringere contatti con i “detenuti”) non fa altro che annotare e trasmettere la storicità di fatti sommersi (perlomeno in questa parte del globo). Senza faziosità siamo davanti ad un altro sbriciolamento di quelli che dovrebbero essere i cosiddetti diritti umani. La scelta di un’animazione tra il tri e il bidimensionale rappresenta un segno di distinzione che svia i possibili pantani del live action, non siamo in territori esattamente seminali perché ormai, infatti, molti prodotti animati presentano un’ibridazione fra tecniche moderne ed altre più classiche, ad ogni modo ciò non compromette una visione che sul finale si scolpisce nella frase seguente:

“Io non voglio pregare perché non ho religione, ma le preghiere di chi crede comunque non funzionano. Questo genere di cose sull’isola di Manus non funzionano.”

giovedì 26 ottobre 2017

Certain Women

Ritorna la voce dimessa di Kelly Reichardt e della sua provincia americana alle prese, questa volta, con due novità: la prima è l’allontanamento dalla zona dell’Oregon, infatti Certain Women (2016) è ambientato nel Montana [1], la seconda è l’utilizzo di una struttura narrativa che si rifà ad una specie di coralità, e questo è davvero un mutamento degno di nota poiché se ricordiamo i suoi lavori precedenti la Reichardt non ha mai dato un peso così importante al comparto sceneggiaturiale e men che meno a quello attoriale (c’è Wendy and Lucy [2008], sempre con Michelle Williams, alter ego dell’autrice, che fa giurisprudenza: una donna, un cane, nient’altro), però già con Night Moves (2013) erano stati dati segnali di un cammino che iniziava a divergere più di un poco col passato, meno traiettorie esistenziali ed intimistiche, più focus su questioni sociali e politiche, ecco Certain Women prosegue in parte tale cambiamento prospettico e al contempo presenta di nuovo il tentativo di far penetrare la mdp nell’anima delle persone, sempre con grande tatto e discrezione. L’equilibrio che viene a crearsi non è comunque così stabile, come per ogni film corale che si rispetti anche qui non tutti i tasselli del quadro raggiungono lo stesso livello attrattivo, in più, allargando lo spettro esegetico, trovo un filo tediante dover concentrarci sulle faccende narrative per la valutazione di un’opera, ma qua siamo e qua dobbiamo stare.

Dunque, l’idea della regista è quella di mostrarci tre donne quanto più diverse possibile in rapporto ai tre annessi mondi che le circondano, quello del lavoro, quello della famiglia e quello dell’amore. Premettendo che il minimalismo di Old Joy (2006) è ahinoi solo un ricordo, il primo segmento con Laura Dern nei panni dell’avvocato è decisamente debole e soprattutto impersonale, sembra di vedere un episodio di Law & Order che mai ho veduto ma che immagino così, e fiacchi sono i rimandi “di denuncia” verso una burocrazia difettosa e verso il maschilismo nelle realtà lavorative, problema rilevante è che il prosieguo non contempla alcun decollo ma anzi si esplicita in un ulteriore passaggio titubante dotato di una preoccupante piattezza, il ritratto della tipica coppia in crisi è così insipido così… non trovo nemmeno aggettivi adeguati né vorrei rifugiarmi nelle solite frasi fatte (“sa di già visto”, “pretendiamo di più”), boh, la tensione tra la Williams e il marito (amante della Dern) è flebile e la questione delle pietre da prelevare non fertilizza chissà che (c’è un parallelo, una metafora, nel volere edificare un muro da parte della donna? Se sì, ditemelo, grazie), il tutto ci conduce all’ultima parte che invece raccoglie consensi e che con i dovuti accorgimenti sarebbe potuta essere un film indipendente, beninteso, non c’è nessuna sconvolgente rivelazione filmica, soltanto la semplicità del mettere in scena una solitudine che cerca di non essere più tale (bravissima la meno conosciuta delle attrici sul set: Lily Gladstone), il che dimostra di quanto Kelly Reichardt si trovi più a proprio agio quando gli elementi diegeteci sono ridotti all’osso. Ecco, è sempre così: nell’asciuttezza c’è molta più acqua che altrove.
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[1] Non ho ancora visto né River of Grass (1994) né Ode (1999) né altri corti della regista e dato che la pigrizia mi impedisce di andare a controllare, per me la Reichardt ha sempre girato in Oregon.

lunedì 23 ottobre 2017

Bad Film

Bad Film (2012), ovvero il film perduto e poi ritrovato di Sion Sono, è un’opera mastodontica girata nel lontano 1995 da Sono stesso coadiuvato da un collettivo denominato Tokyo GAGAGA, per la cui realizzazione, come ci ricordano i titoli di coda, vennero scritturate ben duemila (!) persone, i numeri sono da capogiro perché oltre al cospicuo materiale umano anche quello relativo al minutaggio è fuori da ogni concezione per un lavoro narrativo, infatti il risultato finale (due ore e quaranta minuti) è la scrematura di una spaventosa mole di girato che pare navigasse intorno alle centocinquanta (!!) ore complessive, così dopo diciassette anni in soffitta causati da una mancanza di fondi, Sono si è rinchiuso nel suo studio per tagliare e incollare i lacerti di un film che, va subito detto, è esteticamente poverissimo poiché ci si riferisce ad una resa visiva dettata dall’HI 8, un formato che al tempo poteva essere potabile (con quei bordi arrotondati a volte sembra di trovarci al cospetto di un precursore delle GoPro) ma che ora accusa enormemente il passare degli anni, sia per la qualità video che per quella audio. Nella recensione di tal Alec Kubas-Meyer (link), un tizio che a quanto pare ha potuto vedere Bad Film su grande schermo, vengono riportate le seguenti parole: “Seeing Bad Film in a theater feels like a joke. It’s not a movie that should be in a theater; it should be seen on an old VHS tape found in an attic somewhere. It’s footage from 1995, but it seems so much older”. Quindi la seconda pellicola più lunga di Sono dopo Love Exposure (2008) è una pena per i nostri occhi “moderni”, se però si riesce a superare questo scoglio si spalanca un mare irrequieto di pura e profonda arte sononiana.

Da un punto di vista temporale Bad Film si collocherebbe tra The Room (1993) e Keiko desu kedo (1997), due film tra i più sperimentali del giapponese che a onor del vero non hanno granché di cui condividere con l’opera in oggetto, no, l’idea che qui sta alla base troverà uno sviluppo più concreto e professionale soltanto lustri dopo, in parte col già citato Love Exposure, e successivamente con Why Don’t You Play in Hell? (2013) [1] e Tokyo Tribe (2014), alla radice di una tale furia tellurica c’è sempre la necessità di inscenare la violenza, condita da ingredienti diversi (riflessioni meta, l’hip-hop), per mezzo di faide tra bande di delinquenti. Bad Film, ovviamente, non possiede ancora quell’eruttante totalità investente degna del miglior Sono, e, parimenti, non presenta nemmeno quella sfiancante amatorialità degli esordi (vedi A Man’s Flower Road, 1986), ci troviamo allora in una zona intermedia dove grazie ad un qualche miracolo incomprensibile si arriva perfino ad una sottospecie di equilibrio. Chiaro che nelle quasi tre ore di proiezione la mole narrativa è al di là dei normali standard e pertanto è innegabile che tutta la contorsione della trama, ricolma di twist, scorciatoie e ingarbugliamenti (è pur sempre una creatura di Sono!), possa anche spazientire, ma d’altronde Bad Film, nomen omen che racchiude già parecchio, se non tutto [2], non vuole essere una visione comoda, al contrario, il suo farsi pian piano spietato sfrondando lentamente altre componenti categoriali (e ce ne sono: comicità, stranezze [una testa di maiale come amante], sentimentalismi pazzoidi), mette in mostra una crudeltà umana che il regista riacciufferà in futuro con Cold Fish (2010), sebbene qua ci si fermi un paio di step prima dell’acme parossistico, il che, per una volta, non dispiace poi troppo.

Opera anche politica, e con ogni probabilità l’unica ad oggi dell’autore, in Bad Film trova posto una riflessione sociale sulle discriminazioni razziali con focus locale tra la diatriba che vede una gang di giapponesi contrapposta ad una di cinesi per il dominio urbano di una zona di Tokyo. Non vi è profondità in questa riflessione, per cui non aspettative niente di illuminante, però calibrando la tematizzazione al contenitore c’è ritmo e misura, e pur non essendo noi davvero dentro il cuore della questione abitando una vita lontana anni e chilometri da lì, sotto il velo della baracconata la materia si scalda fino all’incandescenza. E non è finita: in parallelo Sono innesta un ulteriore argomento che è quello riguardante l’omosessualità, un assunto che con il procedere del film assume un ruolo sempre più di primo piano e che attraverso modalità che lascio a voi comprovare trova un intreccio convincente con la faccenda gangsteristico-razziale. Al pari di quanto scritto sopra, anche la svolta che pone in risalto storie gay e lesbiche non passerà agli annali per acume intellettuale, ma non era comunque questo lo spazio per uno studio del genere. Vedere Bad Film ha ricordato al sottoscritto perché Sono è (… stato?) un regista rispettabile, perché è un buco nero capace di risucchiare qualunque cosa gli orbiti attorno e trasformarla in un manufatto vivo, non esente da difetti (e nella fattispecie ce ne sono in quantità industriale), ma pieno di cuore e voglia di raccontare. Dieci, cento, mille film cattivi, al bando inutilità come The Land of Hope (2012) o Love & Peace (2015).
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[1] Andando a fondo nella filmografia di Sono, e quindi ripercorrendo di conseguenza anche le orme della sua vita, il film che fu presentato a Venezia nel 2013 si profila come il più autobiografico in assoluto. Impossibile non notare una stretta somiglianza tra il gruppo di scapestrati dell’opera recente e ciò che fu Tokyo GAGAGA.

[2] La seguente citazione di Sono presa da qui racchiude il significato dell’operazione: “At the time, the Japanese film industry was full of films for goodie-goodies, i wanted to something completely against that — a film that is not an A-student film but something that is bad

venerdì 20 ottobre 2017

Montaña en sombra

Come oculatamente rimarcato sul sito di Lois Patiño (link), Montaña en sombra (2012) accentua attraverso un’ottica meditativa la microscopicità dell’uomo dentro la vastità del territorio montuoso, sotto questa luce, che per ossimoro è oscura, il videoartista spagnolo già assistente di Mercedes Álvarez nell’interessante Futures Market (2011) fa un buon lavoro: neanche fosse un novello Mario Giacomelli (lo ricorda sia se si pensa alla meravigliosa serie paesaggistica sia per quella dei Pretini), Patiño disidentifica l’umano che diventa macchiolina antropomorfa nel nitore accecante della neve, e allora formiche-uomo scendono e risalgono la montagna sotto l’algido sguardo di un cinema deificato in cui l’occhio di Patiño si fa satellitare, si fa Google Maps, lui è sopra, osserva dall’alto il brulicare delle persone sovrastate da un infinito che essi non potrebbero cogliere (/che noi non potremmo cogliere), si tratta, oltre alle guglie rocciose, delle ombre che le nuvole proiettano laggiù (/quaggiù), enormi coperte che scivolano e ammantano nel freddo ficcante del crepuscolo. Patiño insomma permette di immedesimarci nella sorgente visiva di “qualcuno” che sta molto in alto, cavolo: non capita spesso di potersi allacciare al nervo ottico di un dio.

E non è tutto: il lavoro del regista diventa ottimo quando ci si concentra sullo studio tecnico-cromatico che viene compiuto, le saturazioni di nero e le ulteriori manipolazioni che ignoro ma che intuisco (ad un certo punto un qualche effetto sulla lente fa sì che il complesso alpino… palpiti) donano un senso ulteriore a quello citato nel paragrafo soprastante, qui è un addentrarsi nel campo sensoriale e allora non si ha quasi più, “semplicemente”, l’inquadramento orografico di uno spazio in rapporto alla fauna umana che vi orbita intorno, l’Ombra e la Luce semantizzano una visione che può portare lo spettatore nell’oltre che caratterizza un certo tipo di settima arte con cui Patiño, nonostante la giovane età, sembra già essere in confidenza. È una faccenda di energie invisibili, di illusioni che eludono la realtà: il suolo si fa lunare, la neve alta marea di petrolio, ciò che è si trasforma attraverso l’esposizione registica e viene elaborato da coloro che assistono, piccoli esseri suggestionabili dotati di ricettori sensibili e sale di proiezione interne, perché, che serva da memorandum, il vero cinema è solo uno: quello che sboccia dentro di noi.

martedì 17 ottobre 2017

Az ember tragédiája

Az ember tragédiája (2011) è un kolossal animato proveniente dall’Ungheria con una lunghissima gestazione alle spalle, il regista Marcell Jankovics, nominato all’Oscar nel ’76 per lo short Sisyphus (1974), ha impiegato ben ventitre anni per portare a compimento la sua opera-mondo, numerose sono state infatti le vicissitudini (riconducibili essenzialmente alla mancanza di denaro, la quale fu lenita nel 2008 dai dollari americani provenienti dal corto sopraccitato inserito in uno spot trasmesso durante il Super Bowl) tanto che lo costrinsero, in alcune occasioni, a presentare il film a pezzi. Tratto da un poema magiaro del 1861 intitolato appunto The Tragedy of Man, fonte, fra l’altro, anche di un film visto da queste parti: The Annunciation (1984), Az ember tragédiája si prefigge un obiettivo smisurato: raccontare la storia dell’umanità partendo dalla Creazione. Ad un’ambizione del genere corrisponde un lavoro fuori dagli standard dell’animazione poiché parliamo di quasi tre ore di proiezione nelle quali le spigolose inflessioni ungheresi dei doppiatori discernono di quella abbagliante complessità che è la vita e di coloro i quali la vivono, compresi i fattori che la sostanziano come l’amore, la libertà, l’uguaglianza, la fede. E per fare ciò Jankovics decide di compiere una maestosa cavalcata tra ere ed ere, il motto è: provare a capire le varie epoche per provare a capire l’uomo. Comprenderete allora che siamo di fronte ad un azzardo, una scommessa che pretende parecchio dallo spettatore in termini di attenzione.

Il canovaccio narrativo è pressoché lo stesso per tutta la durata del film, dopo la cacciata dall’Eden Lucifero tentatore fa da guida [1] attraverso i vari periodi storici ad un Adamo alla costante ricerca della sua Eva. Quanto viene in superficie è una ricorsività della Storia, una reiterazione di fatti e azioni riguardanti gli esseri umani che si ripresenta anche a distanza di secoli, si parla, ovviamente, di questioni disdicevoli come guerre, lotte e stermini, qui Jankovics è abile nel sottolineare una tale dimensione votata al ripetersi tramite svariati accorgimenti visivi che implementano il discorso, così nonostante il passaggio dall’antico Egitto alla Grecia classica, o dalla Rivoluzione francese alla Londra ottocentesca tutto cambia per far sì che nulla cambi realmente. In questo che altro non è se non un gigantesco loop, la narrazione si carica l’onere di una proiezione futura che comincia verso il centoventesimo minuto. Omesso il Secolo breve (ed è strano vista la mole di accadimenti qui sintetizzati in rapide sequenze), siamo trasportati in due lontane zone temporali, la prima è una specie di tecnocrazia dove l’apparenza di una civiltà sottende un’establishment fascista, mentre la seconda, estrema e periferica, è uno scenario post-atomico degno di Dead Man’s Letters (1986) che riporta l’umanità al grado zero. Ebbene, giunti al termine del viaggio è un evidente pessimismo il sentimento che trasuda maggiormente dall’imponente lungometraggio, ovvio che non è rintracciabile alcun elemento innovativo in un racconto che per certi versi non diverge troppo da un bignami scolastico, ma la vena romantica del sottoscritto vuole comunque gratificare sia la costanza dell’autore che il proposito di maneggiare tematiche così ampie da diventare mai come ‘sta volta universali.

Dove invece Jankovics risulta francamente indifendibile è nella realizzazione tecnica del film. Capisco la differenziazione degli stili di disegno in base alle età rappresentate, ma nella globalità questo tipo di animazione bidimensionale è indietro anni luce rispetto all’offerta attuale nel campo di riferimento. Sembra che Jankovics si sia fermato al momento in cui iniziò a concepire il progetto, pertanto l’abito estetico, non dissimile, ad esempio, dalle forme di René Laloux, risulta molto deficitario, il che, se rapportato al complessivo minutaggio, può appesantire la visione svalutandone i contenuti.
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[1] Questo demonio proteiforme che risulta il personaggio più solido di tutto il film assomiglia al “collega” presente in Faust (2011) di Sokurov, stessa cialtroneria, stesso atteggiamento da smargiasso.

domenica 15 ottobre 2017

Vorrei portarti sui luoghi

Così si apre il nuovo, inaspettato, album di Flavio Giurato, ed è un’apertura che diventa estuario in un mare di parole che come al solito ci porta via, parole che costruiscono storie e storie che ritornano nell’acqua in un portentoso circolo narrativo che vede nella materia liquida l’habitat naturale dell’uomo in migrazione, non solo quello della title track ma anche il protagonista del vertiginoso cortocircuito temporale di Ponte Salario (dedico questa canzone e sono sincero/a tutti quelli in coatta trasferta verso un più stabile ristoro/e che stanotte dormono sotto Ponte Salario) o di colui che nell’enigmatica Agua mineral compie la lunga e perigliosa traversata, è come se quel tuffatore che rinasceva ogni volta dall’acqua all’aria si sia moltiplicato in una contemporaneità piena di riflessi che solo Giurato sa trasmetterci con la sua musica.

Lo dice il sottoscritto che conta meno di zero: Le promesse del mondo è davvero un disco assoluto, è un lavoro dotato di uno spessore poetico che invita a continue riletture, proprio che il solo focalizzarsi sulla componente testuale sgomenta per le sorprendenti soluzioni lessicali adottate dal cantautore romano. Se lo si definisce bello o denso o chessò è sempre meno di abbastanza, è, nella complessità dell’ascolto, più di quanto altro potremmo sentire. Io credo che Digos sia un pezzo enorme e non so se qualcuno in Italia abbia mai scritto una cosa del genere, per cui, ancora una volta, grazie infinite signor Giurato. 
 
Qui l’ascolto completo su Rockit.

giovedì 12 ottobre 2017

Bitter Lake

Un pezzo di Burial ci porta dentro Bitter Lake (2015), nella sua essenza frattale e magmatica che trova una perfetta fusione con l’ipnotica litania del misterioso producer britannico. Ad Adam Curtis, giornalista con alle spalle parecchi lavori televisivi, ciò che preme di più è affondare il colpo sulla politica occidentale che ha trovato nell’Afghanistan una specie di nazione-laboratorio dove americani e russi, per motivi e ragioni diverse, hanno tentato di esercitare un proprio potere ricevendo in cambio soltanto delle violentissime ritorsioni. La ricerca di Curtis è sicuramente ammirabile e soprattutto esplicativa per coloro i quali (e il sottoscritto ne fa parte) identificano questo Paese polveroso posizionato da qualche parte in mezzo al continente asiatico con Osama bin Laden e gli attentati dell’11 settembre, in realtà c’è tutta una storia dietro che d’altronde è Storia e che Curtis ci fa il piacere di narrarci con una linearità che arriva a bersaglio. Ciò è sicuramente un pregio del film perché con una vicenda così complessa che parte da un incontro tra Roosvelt e il Re dell’Arabia Saudita sul finire della seconda guerra mondiale presso il Lago Amaro, si arriva fino ai giorni nostri con la brutale jihad dell’ISIS in un percorso che attraversa le epoche e la geografia dove tutto, a sentire la proposta di Bitter Lake, appare collegato da un filo che intreccia denaro, potere, religione, fanatismo, faide tribali e così via. Da una tale notevolissima massa di informazioni il regista trova un metodo espositivo che, come detto, è in grado di raccontare la difficile situazione globale in modo chiaro e convincente, di sicuro, da oggi, chiunque voglia conoscere qualcosa di più sull’Afghanistan non potrà prescindere da un documentario come Bitter Lake.

La comprensibilità dei concetti avvicina il film a quella dimensione che l’ha accolto (fu diffuso online dalla BBC) e per la quale è stato pensato, quindi stiamo parlando di un prodotto più divulgativo che artistico sebbene, ed è obbligatorio rimarcarlo, Bitter Lake sia capace di scavalcare i paletti della tv, perché la sensazione che pian piano si diffonde è quella di trovarci al cospetto di un’opera che oltre ad una mera porzione cronachistica sa lavorare sottilmente anche più in profondità attraverso un montaggio che in taluni frangenti si fa sconnesso e quasi indipendente da ciò che la voce over afferma. Curtis pescando dallo sterminato archivio della BBC costruisce un flusso visivo che probabilmente suggestiona molto di più delle parole illustrative, nell’accostare scene sì pertinenti al tema ma lontane tra loro (anche temporalmente visto che rimbalziamo spesso da un periodo all’altro) si rafforza un senso di visione che sottende un’autorialità da non disdegnare, certo non c’è Cinema qui, ma l’oscillare tra immagini brutali come quelle dell’attentato in presa ultra-diretta a Karzai (credo fosse lui in macchina, non è spiegato), ad altre di repertorio che riguardano sia eventi del passato (la costruzione di alcune dighe da parte di ingegneri americani) che le più recenti attività militari (ad un certo punto sentiamo [ma non vediamo] alcuni soldati statunitensi esaltarsi per le loro gesta belliche), sfaccettano un film che ben si incunea nella sporcizia della guerra preceduta da una cosa ancora più sporca e subdola come la politica internazionale. Quanto detto è reso in maniera “interessante”, si evince nonostante la frammentarietà costituente una discreta solidità di base, e fra le varie istantanee una che rimane in mente è la lezione di arte moderna ad un gruppo di giovani afghane, il loro sguardo incredulo nel vedere l’orinatoio duchampiano su una diapositiva è indubbiamente più attonito rispetto a quello rivolto alle truppe portatrici di democrazia (?), per smuovere le coscienze sono sempre meglio le arti che le armi, peccato che gli esseri umani non l’abbiano mai capito…

lunedì 9 ottobre 2017

Oh Willy...

Comunque, è molto bello avere l’opportunità di ammirare l’estro creativo di persone come Emma De Swaef e Marc James Roels, se pensiamo a quello che i due giovani registi belgi hanno fatto per Oh Willy… (2012) un piccolo moto di ammirazione si erge nei loro confronti, d’altronde è sempre onere di certosina attenzione l’impiego del passo uno nel campo dell’animazione, in più De Swaef e Roels (ma il merito in questo campo è della donna che già si era adoperata in questa tecnica con Zachte Planten [2008] e che fin da piccola ha imparato a lavorare la lana) costruiscono un set usando esclusivamente del feltro o materiali equipollenti, quindi è evidente che dietro il quarto d’ora del corto c’è un laborioso processo inventivo che né uno sguardo seppur attento e men che meno una manciata di righe d’apprezzamento potranno rendergli giustizia. Ad ogni modo la scelta dell’ingrediente che plasma il mondo del protagonista è vincente perché riesce a trasmettere un’accoglienza e un delicato senso di sana artigianilità che convincono, così come a convincere è il character design del paffuto protagonista e degli altri esseri umani (e non) che popolano la scena, inutile dire che da quei bottoncini che corrisponderebbero ai suoi occhi delle frequenze di tenerezza si propagano oltre lo schermo.

Se scartabelliamo l’archivio della memoria in cerca di un lavoro paragonabile ad Oh Willy… potremmo portare ad esempio Madame Tutli-Putli (2007) data la condivisione di una similare tecnica realizzativa (anche se, a onor del vero, il lavoro di Lavis & Szczerbowski aveva inserti di computer grafica) e di un raffrontabile apparato climatico, però il corto belga è diverso, perché è vero che possiede una dolcezza di fondo insindacabile ma è altrettanto vero che si prende la licenza di andare fuori strada per tangere, neanche ci fosse il grande Roald Dahl dietro, una dimensione weird che inizia già durante la premessa (la comunità nudista) e che prosegue con altri segnali non-allineati alla legge del “corto animato” o in generale alle leggi di una narrazione accomodante, se si pensa che tutto parte da un blitz notturno nel bosco per espellere i propri bisogni si comprende la portata stramba dell’opera (e della luciferina carcassa in putrefazione cosa vogliamo dire?), al punto che tale traiettoria assume un’impennata con l’assurda entrata in scena del bigfoot. Ma è proprio in situazioni del genere, così sbilanciate e un po’ ballerine, che gli autori possono essere definiti bravi, ovvero quando al di là di qualsivoglia eccentricità permane a fine visione la pienezza di un senso che qui trova meta ultima e sostanziale nella ricerca materna, nel riallacciamento del cordone ombelicale, ad un ritornare nel grembo, nella pancia della mamma per fuggire dalla realtà: abbandonare la vuota casa ereditata e trasferirsi in un luogo mentale come la grotta dei ricordi (l’ombrellone…) dove poter essere, forse, felici.