Ah, poi se interessa Luna Vieja illustra un quadro incestuoso (non ho capito se l’uomo è il padre biologico o il patrigno di Mina) che, visti i tempi ristretti, enuclea il potere paterno con dettagli che, prima di essere colti da noi, vengono carpiti dalla nonnina, tipo il soffermarsi sulla svestizione del tizio compiuta dalla ragazza o quando sempre lui insiste nel farsi una cavalcata da soli, un doppio senso che non si rivelerà affatto sottile, sicché l’anziana vedova, prima che il gallo si svegli (altro gioco di parole), prende la nipote per regalarle, si spera, una vita migliore. Bon, tutto qua, astenersi rabdomanti di cinefollie o cacciatori di pepite d’oro.
giovedì 30 settembre 2021
Luna Vieja
lunedì 27 settembre 2021
Birds (or How to Be One)
Non è una faccenda solo razionale legata al capire, siamo nel 2021, la comprensione logica può anche andare a ramengo, e di questo Makridis ne è consapevole, talmente consapevole che purtroppo ce lo spiattella sullo schermo con una sequenza superflua nella quale uno dei soggetti ricorrenti si mette nei panni di uno spettatore chiedendosi a sua volta cosa accidenti stia guardando. No, è accettabile al giorno d’oggi rimanere invischiati nelle pastoie di un’opera che non si concede, che è refrattaria, che non ammette inclusione, ed anzi, spesso è perfino auspicabile!, il patto che però si stringe col regista di turno è che perlomeno vi siano degli elementi in grado di compensare lo squilibrio. Tali elementi sono variegati, possono riguardare l’invisibile, ovvero un fascio di energia che si sente, che coagula la frammentarietà messa in campo, o possono essere concreti come una tematica o un argomento generale che ogni tanto affiora per garantire un salvagente. Per Birds non sono riuscito a trovare niente di simile, al massimo pare di rapportarci con un prolungato esercizio di stile (ma di che stile stiamo parlando? Boh...), un’espressione cinematografica che è interessata a raccontarci null’altro che non sia il metodo espositivo che la caratterizza, il che troverà l’assenso di qualcuno, in fondo ci sono delle “immagini”, ma quel qualcuno non posso essere io. Forse ho maturato un pregiudizio troppo arcigno verso la cricca di Lanthimos, o forse il lavoro di Makridis è da rivedere, se non da rifondare in toto.
giovedì 23 settembre 2021
Saint George
Soprassedendo alla continuità artistica di Martins, il film si espande da un nucleo prelevato direttamente dal 2011, anno in cui la crisi economica raggiunse il suo apice in Portogallo. Senza doverci raffrontare – ahimè – con qualcosa in grado di sorprenderci/toccarci/emozionarci, assistiamo ad una reazione a catena che partendo dalla chiusura di una fabbrica colpisce tanti piccoli satelliti che le orbitavano attorno, da premesse del genere i drammi che si innescano riguardano il compenetrarsi di diverse sfere, da quelle economico-sociali a quelle famigliari-sentimentali ed il quadro così composto non lascia traspirare troppa speranza per il futuro (anche se il finale è a suo modo una piccola breccia di speranza), l’angoscia del caso viene trasmessa da Martins con il solito contegno portato avanti dall’inizio alla fine senza particolari scossoni (appena sopra la media il fuori campo dello chef suicida), con lui ritengo possa sempre valere la seguente regola: poteva andarci meglio, sì, ma poteva anche andarci peggio.
domenica 19 settembre 2021
Hold me (Ca Caw Ca Caw)
C’era la necessità di inserire un elemento capace di spezzare l’insalubre equilibrio illustrato, quale migliore occasione se non la scelta di introdurre una mina vagante in grado di attirare su di sé il vero sentimento: un figlio, dentro un uovo ovviamente. In realtà l’ometto non sembra nemmeno soffrire troppo di gelosia, il gesto che compie, tanto devastante per l’animale, è vissuto dall’umano con indifferenza, lui aveva solo fame. Constatata la tragedia il corto entra in fibrillazione: al grigio e nero si aggiunge un altro tono, il gialloarancione del tuorlo che dilaga in ogni direzione, sul luogo del delitto, in un lago onirico dove forse il pennuto comprende la bassezza del suo partner (eccolo lì, con uno di quei vermi cicciotti che girano per casa attaccato al pene), in un sole miniaturizzato dentro il forno. E così, tra stranezze e perversioni sessuali (anche piuttosto esplicite), ci arriva dritta dritta la cronaca di un suicidio con tanto di minuziosa preparazione, coronamento di una visione curiosa solo ad una distratta occhiata, ma cupa e realmente atra nella sua essenza.
venerdì 17 settembre 2021
Old Is the New
L’area di manovra è quella capillarmente conosciuta del documentario che oscilla tra una ricerca del reale ed il suo inconciliabile opposto. I due elementi che formano l’impasto dicotomico non funzionano allo stesso modo, tutte le parti in cui si affaccia lo spauracchio della sceneggiatura, del copione, della recitazione, sono debolissime, gli attori improvvisati non risultano adeguati a sostenere dei dialoghi di fronte alla mdp (le apparizioni del seppur simpatico Rocco sono a dir poco arrugginite, il culmine – verso il basso – è la scenetta nel bar Manhattan con l’approccio alla vicina di tavolino) ed il risultato generale quando Old Is the New vuole essere un film-film è proprio modesto. Come accennavo prima però i fratelli Bischofberger cercano comunque di fare del loro meglio nel campo delle intenzioni e, se seguiamo l’ossimoro del titolo, capiamo a ciò che erano interessati, ovvero di offrire allo spettatore un ritaglio, una micro-cartina, un fazzoletto di contemporaneità inserendo un elemento estraneo all’interno di un contesto quasi arcaico, inalterato da lungo tempo. Il nuovo, sotto le spoglie di una curiosa cinesina, penetra nel vecchio, la crasi comporta delle conseguenze inevitabili: le due istanze fanno conoscenza reciproca, si piacciono, si seducono a vicenda. Jessye è un simbolo di alterità che scuote l’immobilismo del paese, non è un terremoto ma, come dicono i protagonisti, il mondo è mutato e, ad esempio, il bar Lux ha bisogno di una ristrutturazione.
Quindi abbiamo un delicato scontro/incontro che apre a qualche timida ponderazione oltre i confini della pellicola stessa. Non che il respiro sia universale e garantisca chissà quali illuminazioni, però si evade quel tanto che basta dalla storia inscenata per far trapelare qualche spiffero capace di mettere in moto il nostro cervello, o perlomeno quello del sottoscritto a cui non è dispiaciuta la sincerità che sottende il tutto, come non sono da deprezzare delle mini intuizioni, non a caso lontane dalla fiction, come le interviste architettate ai vari paesani che ci raccontano degli strascichi lasciati dalla dipartita di Jessye, oppure, andando proprio nel dettaglio, l’evocativa carrellata di primi piani che mischia gente locale ad altra di origine asiatica. Il finale riporta apparentemente la situazione ad un suo equilibrio perché sulle note di Modugno sia Jessye, alfiere di una lingua parlata da miliardi di persone, sia Roberto, l’ultimo ad esprimersi in griko, scompaiono nel nulla. Niente è cambiato allora? Per Franco, Salvatore, Antonio e Maria Assunta è plausibile che, al contrario, molto sia cambiato perché un appuntamento ravvicinato con ciò che è diverso, che è nuovo, non lascia mai come si era prima.
mercoledì 15 settembre 2021
giovedì 9 settembre 2021
Diamantino - Il calciatore più forte del mondo
Per portare avanti questo gioco che viaggia sul binario dell’incomprensione (spassosi i travisamenti sulle parole da parte di Diamantino), Abrantes si rifà ad un immaginario che ha coltivato nei lavori precedenti, da The Hunchback (2016) e The Artificial Humors (2016) pesca un uso della computer grafica che ha un nonsoche di gradita artigianalità (vogliamo parlare dei cagnolini extralarge che scorazzano per il campo? Un tenero, tenerissimo trip) dal quale deriva un’atmosfera che, di nuovo, ha un nonsoche di futuristico, quella tipologia di fantascienza che pensa ad un mondo non troppo lontano dal nostro, e qui, in una trama che accoglie una varietà di registri, c’è anche spazio per un accenno di spionaggio con Aisha che nel finale fa irruzione nell’antro dei cattivi in costume da bagno neanche fosse una Bond girl. In uno zibaldone del genere gli autori riescono a non risultare posticci nemmeno inserendo la questione dei migranti, anzi è a loro utile per innervare l’umanità del fantasista di un amore verso i più deboli, una necessità che troverà catarsi con l’adozione del figlio. La traccia sentimentale che pian piano emerge nella storia è forse l’ingrediente che meno mi è piaciuto perché è costretto a muoversi in un corridoio che ha una sola direzione, nel senso che è facile prevedere lo svolgimento dei fatti che accadranno per via del palese coinvolgimento di Aisha, è comunque una macchia di poco conto che sparisce nella brillantezza dell’insieme.
Ritornando a Diamantino vorrei spendere ancora qualche parola sul ribaltamento che ne è stato dato. Sia che lo si consideri il fantoccio di CR7 (al di là della somiglianza fisica è innegabile per una serie di gustosi dettagli che si lasciano allo spettatore) o una qualunque altra stella del calcio mondiale, il percorso emotivo-formativo pensato per lui diventa addirittura trasformativo, in un mandato di lesa maestà verso il Re del Football, verso una macchina dalle fibre muscolari in perenne tensione oculatamente esibite sui remunerativi social network, Abrantes & Schmidt scagliano il loro dardo provocatorio: in una società che fa assurgere a divinità un uomo che in fondo fa solo il suo mestiere, che ne esalta la virilità, la bellezza da divo, il piacere dello sfarzo, la tentacolarità commerciale, quest’uomo si ritira, da se stesso, dal suo corpo che diventa androgino, dal reale (l’epilogo non è del resto un sogno?), per essere finalmente libero e felice. D’altronde ogni favola che si rispetti ha una morale, solo che, essendo Diamantino un film intelligente, non ha la pretesa di impartire alcunché, c’è, sta a noi leggerci dentro.
Cari Gabriel e Daniel, mi avete fatto passare bene un’ora e trentasette minuti, vi mando la mia sincera gratitudine.
domenica 5 settembre 2021
Pussy
Piccolo, ma che dico!, microscopico cortometraggio animato firmato da una giovane polacca di nome Renata Gąsiorowska dal titolo Cipka (2016) che ha ricordato al sottoscritto Dust Kid (2009), soprattutto nella semplicità realizzativa, poche linee, sfondo bianco, figure basiche, qualche accento estroso, ma anche nell’atmosfera che si vuole perseguire: domestica, o, per meglio dire, intima, davvero intima, del resto la masturbazione è un atto personale e non è probabilmente un caso se l’unico altro personaggio del film, una sorta di procione voyeur, viene malamente allontanato dalla vagina mutata in mostro dentato. Ecco, la suddetta mutazione deriva poi dall’elemento centrale del lavoro, un’inaspettata indipendenza dell’organo sessuale femminile che non solo scorrazza per la casa ma che prende in mano la situazione: dopo una timida sollecitazione la vulva mobile inizia a fare sul serio conducendo la protagonista ad un’estasi che la Gąsiorowska sottolinea attraverso una trasformazione estetica, fuori l’ordinaria bidimensionalità casalinga, dentro forme che fluiscono colorate e astratte fino a raggiungere l’acme orgasmico e poi, finalmente, la pace. Si tratta, in stretta sintesi, di una celebrazione del godimento muliebre sancita dall’emancipazione della sua fonte. Inutile? Be’, diciamo non certo indispensabile ma comunque divertente.
venerdì 3 settembre 2021
Workingman’s Death
Affermerò una banalità: il segmento indonesiano e quello nigeriano sono di gran lunga le porzioni che hanno l’impatto più rimarchevole su di noi. È inevitabile del resto, in entrambi i casi Glawogger scova ambientazioni ed esseri umani all’interno di esse che non possono non attrarre la nostra attenzione, in più l’austriaco sembra trovare una fluidità nelle riprese e una ragione d’essere (di essere lì, di essere dentro quei posti per davvero e non come un ospite posticcio) tali da farci sgranare gli occhi, inutile sottolineare quanto sia “bello” seguire i lavoratori asiatici sulle vertiginose pendici del vulcano (a proposito: divertente il contrasto tra i turisti che si sollazzano vicino ai trasportatori di zolfo) oppure quanto sia tremendo venire catapultati dentro l’infernale mattanza di Port Harcourt, è una roba potente, sul serio, che merita di essere vis(su)ta, è una delle istantanee reali che più si potrebbero avvicinare all’idea di oltretomba: sangue, sgozzamenti, pneumatici, fumi luciferini, la puzza immonda, gli animali, i bambini. Grazie, Michael.
Il discorso cala un po’ a mio modo di vedere con i due segmenti successivi, molto banalmente: ciò che viene mostrato in Pakistan e Cina non ha la medesima forza attrattiva di quanto preceduto, è proprio una faccenda epidermica, di magnetismo estetico, le navi arrugginite del Belucistan o le fabbriche di Angang non provocano le medesime collisioni, ciò non toglie che comunque vi sia della coerenza dal punto di vista concettuale. Come concludere allora la disamina su Workingman’s Death? Sicuramente evidenziandone i pregi riconducibili ad una certa solidità generale che si rispecchia in una alta consapevolezza del proprio mestiere, ci sono sprazzi di bellezza e, ovviamente, anche qualche ruggine (perché utilizzare le musiche?), più che altro l’elaborazione dell’opera a distanza di sedici anni acuisce uno sgravio di energia rispetto all’origine, come se nel lasso di tempo Internet e i network televisivi riconvertiti in piattaforme streaming abbiano triturato la cifra fondante delle immagini e i loro significati soggiacenti (se presenti), tradotto: facciamo sempre più fatica a sorprenderci, a emozionarci, a innamorarci.