giovedì 30 settembre 2021

Luna Vieja

Questo mondo che allaccia distanze incolmabili con un click, che mette a disposizione attraverso l’onnipresente invisibilità dell’etere oggetti che molto probabilmente non avremmo mai incontrato, mi ha recapitato sullo stesso schermo dove proprio adesso sto scrivendo queste righe un cortometraggio del 2013 proveniente da Porto Rico girato da una ragazza di nome Raisa Bonnet. Porto Rico: è la prima volta che un film battente questa bandiera entra qui dentro, ed è la prima volta che i miei occhi si posano su dei paesaggi, su degli esseri umani, portoricani, il che potrà sembrarvi poco, o al massimo potrà apparirvi come romanticismo cinefilo da quattro soldi, però mi pare che questa accessibilità che abbiamo conosciuto con l’avvento della Rete è un dono che diamo un po’ troppo spesso per scontato. Ma chi se ne importa di uno sconosciuto corto che arriva dai Caraibi!!, be’, non ho chissà quali argomenti per controbattere anche perché Luna Vieja è un proverbialissimo “niente di che”, un lavoro modesto, acerbo, che in cuor suo vorrebbe avere delle mire al di là della mera narrazione esplicitata ma che non riesce ad elevarsi dal campo delle velleità, un film autoctono che ricercando una parvenza di realismo non spicca nel calderone dei suoi simili, eppure Porto Rico ragazzi, ritorno lì perché è lì che per undici minuti abbiamo la possibilità di stare, su un’isola verdeggiante in compagnia di una vecchietta magra magra, e sentiamo uno spagnolo danzante, una musica, un vento, e, a dirla tutta, la sola opportunità di poterlo visionare vale più del prodotto in sé, e per il sottoscritto va bene così.

Ah, poi se interessa Luna Vieja illustra un quadro incestuoso (non ho capito se l’uomo è il padre biologico o il patrigno di Mina) che, visti i tempi ristretti, enuclea il potere paterno con dettagli che, prima di essere colti da noi, vengono carpiti dalla nonnina, tipo il soffermarsi sulla svestizione del tizio compiuta dalla ragazza o quando sempre lui insiste nel farsi una cavalcata da soli, un doppio senso che non si rivelerà affatto sottile, sicché l’anziana vedova, prima che il gallo si svegli (altro gioco di parole), prende la nipote per regalarle, si spera, una vita migliore. Bon, tutto qua, astenersi rabdomanti di cinefollie o cacciatori di pepite d’oro.

lunedì 27 settembre 2021

Birds (or How to Be One)

Dopo due prove lanthimostyle di cui non sentivamo la mancanza come L (2012) e Miserere (2018), Babis Makridis con Birds (or How to Be One) (2020) sposta finalmente il suo cinema dalle secche di un’onda greca ormai ridotta a innocuo spruzzo, ma, è meglio frenare immediatamente l’entusiasmo, la transizione non è totale e quindi, comunque, si percepisce un substrato derivante dalle manifestazioni elleniche del decennio scorso, non tanto per l’impostazione, quanto per l’eccentricità che avvolge il tutto, va da sé che per il sottoscritto, alla fine, ciò che rimane maggiormente in fatto di somiglianze con la vague di riferimento sono i difetti, e non certo i pregi. La traccia di partenza è la commedia Gli uccelli di Aristofane dove, per sintetizzare, due uomini si mettono in testa di costruire una città nel cielo, in Birds la vicenda è per sommi capi traslata in un prontuario costituito da diversi step mirato alla mutazione dell’essere umano in volatile. Il registro utilizzato da Makridis è ibrido e mescola un taglio documentaristico con finestre stravaganti che constano di casting o robe simili, interviste a personaggi bizzarri, tizi o tizie che si esprimono in modo autistico (un retaggio del passato che evidentemente non si vuole perdere) e performance teatrali che potrebbero definirsi come sperimentali ma lascio ad altri magari più esperti il giudizio. Il risultato? Un minestrone dove ad esclusione di una delle prime scene con il divertente birdwatching nel parco pubblico che pareva far promettere bene, la confusione spadroneggia e pur mettendoci la massima dedizione si affaccia il pericoloso dubbio che scorticata via la patina sghemba non ci sia altro che un vuoto coperto da una foglia di fico artistoide.

Non è una faccenda solo razionale legata al capire, siamo nel 2021, la comprensione logica può anche andare a ramengo, e di questo Makridis ne è consapevole, talmente consapevole che purtroppo ce lo spiattella sullo schermo con una sequenza superflua nella quale uno dei soggetti ricorrenti si mette nei panni di uno spettatore chiedendosi a sua volta cosa accidenti stia guardando. No, è accettabile al giorno d’oggi rimanere invischiati nelle pastoie di un’opera che non si concede, che è refrattaria, che non ammette inclusione, ed anzi, spesso è perfino auspicabile!, il patto che però si stringe col regista di turno è che perlomeno vi siano degli elementi in grado di compensare lo squilibrio. Tali elementi sono variegati, possono riguardare l’invisibile, ovvero un fascio di energia che si sente, che coagula la frammentarietà messa in campo, o possono essere concreti come una tematica o un argomento generale che ogni tanto affiora per garantire un salvagente. Per Birds non sono riuscito a trovare niente di simile, al massimo pare di rapportarci con un prolungato esercizio di stile (ma di che stile stiamo parlando? Boh...), un’espressione cinematografica che è interessata a raccontarci null’altro che non sia il metodo espositivo che la caratterizza, il che troverà l’assenso di qualcuno, in fondo ci sono delle “immagini”, ma quel qualcuno non posso essere io. Forse ho maturato un pregiudizio troppo arcigno verso la cricca di Lanthimos, o forse il lavoro di Makridis è da rivedere, se non da rifondare in toto.

giovedì 23 settembre 2021

Saint George

Mi è parso un film leggermente diverso dai due precedenti di Marco Martins, chiaro che São Jorge (2016) ha un alto tasso di paternità e coerenza nei confronti del suo regista però se ritorniamo ad Alice (2005) o a How to Draw a Perfect Circle (2009) ecco che in questi due lungometraggi si può trovare una cosa che nell’opera del 2016 non c’è o è sedata di non poco: la tensione, nel debutto una tensione praticamente da thriller, nel titolo successivo una trazione incestuosa smuoveva la faccenda, qui la situazione si presenta più lineare, più subordinata ad una scrittura che non crea particolari aspettative. La paternità succitata si rivela comunque nella già conosciuta capacità che ha Martins di ritrarre in modo vero e concreto il paesaggio metropolitano (viene sempre in mente Salaviza, è possibile una reciproca influenza), il regista portoghese è uno dei tanti auscultatori della realtà che popolano l’odierno cinema autoriale, la garanzia che Martins ci ha dato finora è quella di uno che sa fare il proprio mestiere senza voler puntare troppo in alto, la concretezza è l’obiettivo principale ed in buona sostanza è ciò a cui si arriva anche in Saint George, un plauso in più lo si fa alla scelta dell’attore protagonista, uno di quelli che si direbbero presi dalla strada (magari lo è, ma Nuno Lopes ha comunque una lunga carriera alle spalle) e che catapultati nel set cinematografico sortiscono una favorevole impressione, un uomo dall’aspetto rude con però un buon cuore (sarà dovuto a ciò la santificazione del titolo?).

Soprassedendo alla continuità artistica di Martins, il film si espande da un nucleo prelevato direttamente dal 2011, anno in cui la crisi economica raggiunse il suo apice in Portogallo. Senza doverci raffrontare – ahimè – con qualcosa in grado di sorprenderci/toccarci/emozionarci, assistiamo ad una reazione a catena che partendo dalla chiusura di una fabbrica colpisce tanti piccoli satelliti che le orbitavano attorno, da premesse del genere i drammi che si innescano riguardano il compenetrarsi di diverse sfere, da quelle economico-sociali a quelle famigliari-sentimentali ed il quadro così composto non lascia traspirare troppa speranza per il futuro (anche se il finale è a suo modo una piccola breccia di speranza), l’angoscia del caso viene trasmessa da Martins con il solito contegno portato avanti dall’inizio alla fine senza particolari scossoni (appena sopra la media il fuori campo dello chef suicida), con lui ritengo possa sempre valere la seguente regola: poteva andarci meglio, sì, ma poteva anche andarci peggio.

domenica 19 settembre 2021

Hold me (Ca Caw Ca Caw)

La storia, che è d’amore, e quindi di dipendenza, di recinzione, di assenza, di monotonia, tra un pennuto ed un omino glabro ci perviene per mezzo di un’animazione disturbata già ravvisata in esemplari passati, o che passeranno, da questi parti: When the Day Breaks (1999) – che è un po’ il capostipite –, Benjamin’s Flowers (2012), Däwit (2015), Among the Black Waves (2016), ma, come dico spesso, non ci basterà una vita intera per scoprire tutte le possibili gemme oscure che si annidano in questo campo artistico, per cui, mettendoci l’anima in pace, dobbiamo considerare Hold me (Ca Caw Ca Caw) (2016) un altro oggettino non identificabile che pulsa come un bubbone nel tratto disordinato della sua regista (Renee Zhan, che chissà chi è, dove vive, cosa fa, ma che, nei crediti finali, ringrazia una “certa” Athina Tsangari), nel carboncino che delinea i fondali dell’abitazione e nelle chine tremolanti che configurano i due protagonisti, la coppia disamorata e prigioniera di se stessa. D’altronde che qualcosa non quadrasse emerge fin da subito: perché un goffo volatile volteggia nel salotto di un appartamento sgangherato? I segnali di un rapporto poco sano si leggono nell’anomalo apparato imbastito dalla Zhan, tipo quando l’uomo viene imboccato esattamente come si fa con i pulcini o quando assistiamo al tentativo di fuga da parte dell’uccello.

C’era la necessità di inserire un elemento capace di spezzare l’insalubre equilibrio illustrato, quale migliore occasione se non la scelta di introdurre una mina vagante in grado di attirare su di sé il vero sentimento: un figlio, dentro un uovo ovviamente. In realtà l’ometto non sembra nemmeno soffrire troppo di gelosia, il gesto che compie, tanto devastante per l’animale, è vissuto dall’umano con indifferenza, lui aveva solo fame. Constatata la tragedia il corto entra in fibrillazione: al grigio e nero si aggiunge un altro tono, il gialloarancione del tuorlo che dilaga in ogni direzione, sul luogo del delitto, in un lago onirico dove forse il pennuto comprende la bassezza del suo partner (eccolo lì, con uno di quei vermi cicciotti che girano per casa attaccato al pene), in un sole miniaturizzato dentro il forno. E così, tra stranezze e perversioni sessuali (anche piuttosto esplicite), ci arriva dritta dritta la cronaca di un suicidio con tanto di minuziosa preparazione, coronamento di una visione curiosa solo ad una distratta occhiata, ma cupa e realmente atra nella sua essenza.

venerdì 17 settembre 2021

Old Is the New

È una produzione piccola piccola questo Old Is the New (2012) girata da due fratelli svizzeri di nome Dario e Mirko Bischofberger in un paesino del Salento, qui, nei territori tanto cari a Edoardo Winspeare fatti di tradizione, cultura, accoglienza, tamburelli, ulivi, vento, pietre bianche, anziani sulle sedie, dialetti vivi, feste locali e masserie decidono di introdurre Jessye, una giovane ragazza cinese arrivata in Italia per conto di un’agenzia turistica con lo scopo di trovare nuovi potenziali luoghi vacanzieri per i suoi connazionali. Lo affermo fin da subito, il film ha i tipici limiti di chi è costretto ad arrangiarsi come può senza avere dei budget sostanziosi da cui attingere, sicché, se il vostro occhio è esclusivamente orientato a lavori d’alto professionismo, allora questa non è roba che fa per voi, agli altri dico invece che se si ha la costanza di aggirare lo scoglio di una manifattura non da serie A, è possibile scovare un’idea che puntella l’opera ed anche delle riflessioni che da essa scaturiscono, il che, in fondo, non è male per un lavoro che sulla carta non riuscirebbe a guadagnarsi neanche due centesimi di credibilità.

L’area di manovra è quella capillarmente conosciuta del documentario che oscilla tra una ricerca del reale ed il suo inconciliabile opposto. I due elementi che formano l’impasto dicotomico non funzionano allo stesso modo, tutte le parti in cui si affaccia lo spauracchio della sceneggiatura, del copione, della recitazione, sono debolissime, gli attori improvvisati non risultano adeguati a sostenere dei dialoghi di fronte alla mdp (le apparizioni del seppur simpatico Rocco sono a dir poco arrugginite, il culmine – verso il basso – è la scenetta nel bar Manhattan con l’approccio alla vicina di tavolino) ed il risultato generale quando Old Is the New vuole essere un film-film è proprio modesto. Come accennavo prima però i fratelli Bischofberger cercano comunque di fare del loro meglio nel campo delle intenzioni e, se seguiamo l’ossimoro del titolo, capiamo a ciò che erano interessati, ovvero di offrire allo spettatore un ritaglio, una micro-cartina, un fazzoletto di contemporaneità inserendo un elemento estraneo all’interno di un contesto quasi arcaico, inalterato da lungo tempo. Il nuovo, sotto le spoglie di una curiosa cinesina, penetra nel vecchio, la crasi comporta delle conseguenze inevitabili: le due istanze fanno conoscenza reciproca, si piacciono, si seducono a vicenda. Jessye è un simbolo di alterità che scuote l’immobilismo del paese, non è un terremoto ma, come dicono i protagonisti, il mondo è mutato e, ad esempio, il bar Lux ha bisogno di una ristrutturazione.

Quindi abbiamo un delicato scontro/incontro che apre a qualche timida ponderazione oltre i confini della pellicola stessa. Non che il respiro sia universale e garantisca chissà quali illuminazioni, però si evade quel tanto che basta dalla storia inscenata per far trapelare qualche spiffero capace di mettere in moto il nostro cervello, o perlomeno quello del sottoscritto a cui non è dispiaciuta la sincerità che sottende il tutto, come non sono da deprezzare delle mini intuizioni, non a caso lontane dalla fiction, come le interviste architettate ai vari paesani che ci raccontano degli strascichi lasciati dalla dipartita di Jessye, oppure, andando proprio nel dettaglio, l’evocativa carrellata di primi piani che mischia gente locale ad altra di origine asiatica. Il finale riporta apparentemente la situazione ad un suo equilibrio perché sulle note di Modugno sia Jessye, alfiere di una lingua parlata da miliardi di persone, sia Roberto, l’ultimo ad esprimersi in griko, scompaiono nel nulla. Niente è cambiato allora? Per Franco, Salvatore, Antonio e Maria Assunta è plausibile che, al contrario, molto sia cambiato perché un appuntamento ravvicinato con ciò che è diverso, che è nuovo, non lascia mai come si era prima.

mercoledì 15 settembre 2021

No, you're never gonna feel complete

Nient’altro che questo.

giovedì 9 settembre 2021

Diamantino - Il calciatore più forte del mondo

Escludendo Palácios de Pena (2011) che peraltro non raggiungeva un’ora complessiva di girato, il debutto nel lungometraggio per Gabriel Abrantes arriva solo nel 2018 con Diamantino, sempre con l’aiuto del sodale Daniel Schmidt, il che suona un po’ strano perché il nome di Abrantes gira da tanti anni nei circuiti cinefili ma ciò si è dovuto ad una cospicua produzione di corti che sono passati in molti Festival in giro per il globo, suona meno strano, invece, il film sotto esame che detto tra noi strano lo è eccome, tuttavia se inserito nel curriculum del portoghese allora direi che si è in linea con quanto l’ha preceduto, anzi, visto il maggior minutaggio a disposizione Diamantino è un bel pentolone eccentrico che ha come base la riproduzione apocrifa di un Cristiano Ronaldo, i registi modellano a loro divertimento un calciatore-idolo, un asso del football, che però ci riserva una sorpresa: è un bambinone, un personaggio disneyano dal cuore immacolato (e ancora una volta viene spontaneo ricordare il legame tra il cinema lusitano contemporaneo e la fiaba), e il dotare di tali caratteristiche il protagonista è una mossa disorientante che rovescia le aspettative tanto da farci subito prendere atto di un aspetto: l’opera non è un ritratto satirico di Ronaldo e men che meno è la parodia di un campione, è, al contrario, la messa in scena parossistica di ciò che lo circonda. A partire dalla famiglia, con due sorelle arpie (anch’esse, ovviamente, disneyane) che pensano a sfruttare il fratello per ingrassare i loro conti segreti a Panama, arrivando ad un’intera nazione e al progetto iper-sovranista di staccarsi dall’Unione Europea usando Diamantino come un Balilla clonabile. Quindi non l’ipotizzabile figura di uno sportivo miliardario, che ha tutto, ogni tipo di lusso, ogni donna, ogni capriccio, però vuoto di sensibilità, di emozioni, di valori, ma, all’opposto, una realtà esterna che è un mare di squali pronti ad azzannare il povero e ignaro fuoriclasse.

Per portare avanti questo gioco che viaggia sul binario dell’incomprensione (spassosi i travisamenti sulle parole da parte di Diamantino), Abrantes si rifà ad un immaginario che ha coltivato nei lavori precedenti, da The Hunchback (2016) e The Artificial Humors (2016) pesca un uso della computer grafica che ha un nonsoche di gradita artigianalità (vogliamo parlare dei cagnolini extralarge che scorazzano per il campo? Un tenero, tenerissimo trip) dal quale deriva un’atmosfera che, di nuovo, ha un nonsoche di futuristico, quella tipologia di fantascienza che pensa ad un mondo non troppo lontano dal nostro, e qui, in una trama che accoglie una varietà di registri, c’è anche spazio per un accenno di spionaggio con Aisha che nel finale fa irruzione nell’antro dei cattivi in costume da bagno neanche fosse una Bond girl. In uno zibaldone del genere gli autori riescono a non risultare posticci nemmeno inserendo la questione dei migranti, anzi è a loro utile per innervare l’umanità del fantasista di un amore verso i più deboli, una necessità che troverà catarsi con l’adozione del figlio. La traccia sentimentale che pian piano emerge nella storia è forse l’ingrediente che meno mi è piaciuto perché è costretto a muoversi in un corridoio che ha una sola direzione, nel senso che è facile prevedere lo svolgimento dei fatti che accadranno per via del palese coinvolgimento di Aisha, è comunque una macchia di poco conto che sparisce nella brillantezza dell’insieme.

Ritornando a Diamantino vorrei spendere ancora qualche parola sul ribaltamento che ne è stato dato. Sia che lo si consideri il fantoccio di CR7 (al di là della somiglianza fisica è innegabile per una serie di gustosi dettagli che si lasciano allo spettatore) o una qualunque altra stella del calcio mondiale, il percorso emotivo-formativo pensato per lui diventa addirittura trasformativo, in un mandato di lesa maestà verso il Re del Football, verso una macchina dalle fibre muscolari in perenne tensione oculatamente esibite sui remunerativi social network, Abrantes & Schmidt scagliano il loro dardo provocatorio: in una società che fa assurgere a divinità un uomo che in fondo fa solo il suo mestiere, che ne esalta la virilità, la bellezza da divo, il piacere dello sfarzo, la tentacolarità commerciale, quest’uomo si ritira, da se stesso, dal suo corpo che diventa androgino, dal reale (l’epilogo non è del resto un sogno?), per essere finalmente libero e felice. D’altronde ogni favola che si rispetti ha una morale, solo che, essendo Diamantino un film intelligente, non ha la pretesa di impartire alcunché, c’è, sta a noi leggerci dentro.

Cari Gabriel e Daniel, mi avete fatto passare bene un’ora e trentasette minuti, vi mando la mia sincera gratitudine.

domenica 5 settembre 2021

Pussy

Una ragazza è sola a casa ed in completo relax vorrebbe dedicarsi a se stessa e al suo piacere, ma uno strambo inconveniente è dietro l’angolo...

Piccolo, ma che dico!, microscopico cortometraggio animato firmato da una giovane polacca di nome Renata Gąsiorowska dal titolo Cipka (2016) che ha ricordato al sottoscritto Dust Kid (2009), soprattutto nella semplicità realizzativa, poche linee, sfondo bianco, figure basiche, qualche accento estroso, ma anche nell’atmosfera che si vuole perseguire: domestica, o, per meglio dire, intima, davvero intima, del resto la masturbazione è un atto personale e non è probabilmente un caso se l’unico altro personaggio del film, una sorta di procione voyeur, viene malamente allontanato dalla vagina mutata in mostro dentato. Ecco, la suddetta mutazione deriva poi dall’elemento centrale del lavoro, un’inaspettata indipendenza dell’organo sessuale femminile che non solo scorrazza per la casa ma che prende in mano la situazione: dopo una timida sollecitazione la vulva mobile inizia a fare sul serio conducendo la protagonista ad un’estasi che la Gąsiorowska sottolinea attraverso una trasformazione estetica, fuori l’ordinaria bidimensionalità casalinga, dentro forme che fluiscono colorate e astratte fino a raggiungere l’acme orgasmico e poi, finalmente, la pace. Si tratta, in stretta sintesi, di una celebrazione del godimento muliebre sancita dall’emancipazione della sua fonte. Inutile? Be’, diciamo non certo indispensabile ma comunque divertente.

venerdì 3 settembre 2021

Workingman’s Death

Documentarista e non solo (c’è a quanto pare dell’altro oltre Workingman’s Death [2005] e Whores’ Glory [2011), Michael Glawogger, deceduto nel 2014 in Liberia a causa della malaria, ci propone con questo film un reportage di inizio millennio sul concetto di lavoro manuale applicato in condizioni al limite dell’umano, però mi sento subito di dire che non si tratta di un titolo che vuole denunciare specifici ambiti professionali sparsi in giro per il mondo, l’obiettivo di Glawogger è più alto, rientra probabilmente in una riflessione dalla portata economico-filosofica che si riflette nella struttura stessa del film. L’inizio ci trasporta appunto nelle laide miniere del Donbass, un esempio che potremmo definire originario di “manovalanza” (i minatori e Glawogger stesso citano non senza ironia il buon vecchio Stachanov) ed il tutto finisce in una acciaieria dismessa in Germania riconvertita in polo artistico, alla luce di ciò è evidente che ci sia un percorso, forse trasformativo, forse no, l’impressione di chi scrive è che nemmeno il regista ha saputo definirne i contorni, ma di certo abbiamo un tragitto che partendo da una bellissima citazione di Faulkner rimbalza da una parte all’altra del globo quintuplicandosi in una visione etnografica, l’assalto è a tratti lodevole e la materia ripresa (in senso letterale: lo zolfo giallognolo, le interiora delle mucche scannate) deborda dallo schermo per la nostra gaiezza cinefila.

Affermerò una banalità: il segmento indonesiano e quello nigeriano sono di gran lunga le porzioni che hanno l’impatto più rimarchevole su di noi. È inevitabile del resto, in entrambi i casi Glawogger scova ambientazioni ed esseri umani all’interno di esse che non possono non attrarre la nostra attenzione, in più l’austriaco sembra trovare una fluidità nelle riprese e una ragione d’essere (di essere lì, di essere dentro quei posti per davvero e non come un ospite posticcio) tali da farci sgranare gli occhi, inutile sottolineare quanto sia “bello” seguire i lavoratori asiatici sulle vertiginose pendici del vulcano (a proposito: divertente il contrasto tra i turisti che si sollazzano vicino ai trasportatori di zolfo) oppure quanto sia tremendo venire catapultati dentro l’infernale mattanza di Port Harcourt, è una roba potente, sul serio, che merita di essere vis(su)ta, è una delle istantanee reali che più si potrebbero avvicinare all’idea di oltretomba: sangue, sgozzamenti, pneumatici, fumi luciferini, la puzza immonda, gli animali, i bambini. Grazie, Michael.

Il discorso cala un po’ a mio modo di vedere con i due segmenti successivi, molto banalmente: ciò che viene mostrato in Pakistan e Cina non ha la medesima forza attrattiva di quanto preceduto, è proprio una faccenda epidermica, di magnetismo estetico, le navi arrugginite del Belucistan o le fabbriche di Angang non provocano le medesime collisioni, ciò non toglie che comunque vi sia della coerenza dal punto di vista concettuale. Come concludere allora la disamina su Workingman’s Death? Sicuramente evidenziandone i pregi riconducibili ad una certa solidità generale che si rispecchia in una alta consapevolezza del proprio mestiere, ci sono sprazzi di bellezza e, ovviamente, anche qualche ruggine (perché utilizzare le musiche?), più che altro l’elaborazione dell’opera a distanza di sedici anni acuisce uno sgravio di energia rispetto all’origine, come se nel lasso di tempo Internet e i network televisivi riconvertiti in piattaforme streaming abbiano triturato la cifra fondante delle immagini e i loro significati soggiacenti (se presenti), tradotto: facciamo sempre più fatica a sorprenderci, a emozionarci, a innamorarci.