lunedì 20 gennaio 2020

Miserere

Non sono esattamente sul pezzo in fatto di cinema greco recente per cui non so dire con accuratezza se tutti i discepoli di Lanthimos hanno, nel corso degli ultimi tempi, seguito le sue orme, in altre parole non so se anche loro hanno tentato o stanno tentando di sondare strade alternative a quelle tracciate dalla nouvelle vague ellenica, di sicuro, però, ce n’è uno di questi allievi che non ha cambiato registro preferendo anzi rincarare la dose. Ebbene sì, Babis Makridis ha fatto un film che è la quintessenza del nuovo, e ormai vecchio perché ha già dieci anni, cinema greco inaugurato dal duo Lanthimos-Tsangari. Prova inconfutabile dell’appartenenza di Oiktos (2018) alla scuderia appena citata è la presenza di Efthymis Filippou nelle vesti di sceneggiatore, la Penna che ha delineato i contorni e la sostanza di tutte le principali opere provenienti dalla Grecia negli ultimi due lustri. Dal canto suo, il regista Makridis, qui solo al secondo film, ne veniva da L (2012), un debutto piuttosto opaco se contestualizzato all’epoca dell’uscita (piena new wave) e, ancor prima, da un insulso cortometraggio intitolato The Last Fakir (2005). Miserere, osservando lo striminzito curriculum, appare già come un lavoro di crescita dove abbiamo un’idea che viene sviluppata e proposta allo spettatore attraverso le peculiari e ben conosciute modalità. Appunto, il metodo: se analizziamo il film nell’ottica del piccolo recinto in cui razzola insieme ai suoi simili, mi sembra che possa considerarsi un oggetto impeccabile, c’è praticamente tutto ciò che ci si aspettava: un macro-tema (il sfaccettato concetto di compassione) e l’annesso discernimento per vie allegoriche, recitazione autistico-robotica che aliena gli interpreti in scena rendendoli avulsi nel contesto in cui vivono e un’immancabile picco parossistico pronto a simboleggiare l’acme teorico dei significati ricercati. Nulla da dire dunque, così inquadrato Miserere non presta il fianco ad ulteriori critiche e potremmo andare a mangiarci una fresca horiatiki sull’isola di Kos con il culo a mollo.

Invece no perché il culo è piantato su una sedia dell’Ikea e fuori un freddo gennaio mi spinge a prelevare Oiktos dalla sua cerchia di amichetti ed esaminarlo per quello che è, ovvero un film del 2018 che viene dal Vecchio Continente. Ordunque, la considerazione fondamentale che sento di esprimere riguarda la grammatica del film, tutto quell’insieme di accorgimenti che in dieci anni di carriera non è cambiato di una virgola e che, onestamente, non può nuovamente essere riproposta senza la minima innovazione. L’assenza di un’evoluzione è un atto che a Makridis non riesco minimamente a perdonare, visto che, a mio avviso, la corrente greca non è riuscita a guadagnarsi gli effettivi gradi di canone autoriale, riproporre ancora una volta uno schema pressoché usurato sa molto di occasione persa, e se ad un’auspicata progressione risponde al contrario una stagnazione metodologica non si può rimanere appagati a fine visione. Perché è sempre una questione di metodo (ri-appunto) e nient’altro, ad esempio la scelta effettuata da Makridis & Filippou di affrontare la complessa faccenda della commiserazione è davvero interessante, c’era, eccome, del potenziale che poteva aprire dibattiti sul vittimismo e sui meccanismi psicologici autoindotti dalle persone per provare ad avere dei riscontri emozionali nell’altro. E tali dibattiti si saranno anche aperti, non lo metto in dubbio, ma il dispiegarsi per mezzo della famigerata codifica lanthimosiana rende l’intero processo molto meno ficcante di quanto sarebbe potuto essere. Si standardizza pur non aderendo ad uno standard comune, tuttavia sempre di un percorso uniformante si tratta per cui diventa normale che il padre arrivi a compiere i gesti efferati del sanguinoso finale. L’esito maggiormente preoccupante dell’intero discorso è che l’eccezionalità di Dogtooth (2009) si è via via esaurita lasciando residui sempre più fiochi nei suoi successivi epigoni, tanto da farmi giungere a codesta conclusione: signore e signori, il Cinema ritengo sia un’altra cosa.

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