L’avranno
pensato e scritto in molti, ma Gisaengchung
(2019) non è altro che la rielaborazione concettuale di un altro
film di Bong
Joon-ho, un film che con quello sotto esame non ha nulla da
condividere da un punto di vista meramente categoriale. Ovviamente mi
riferisco a Snowpiercer
(2013)
e altrettanto ovviamente viene facile rintracciare il medesimo
substrato che li accomuna: la possibile ascesa di un ceto sociale
inferiore che tenta di spodestarne uno superiore. Quello che cambia
tra le due pellicole è il movimento imposto dal regista sudcoreano,
se nell’opera del 2013 lo spostamento era in orizzontale attraverso
il passaggio da un vagone del treno all’altro, per la Palma d’Oro
’19 il tragitto è verticale, dai bassifondi della città alla
collina elitaria della lussuosa villetta. Scontato dire, inoltre, che
cambiano un sacco di altre cose, anzi cambia proprio tutto
l’approccio di Bong che lasciatosi alle spalle una sterile
spettacolarizzazione (va ricordato anche il per nulla riuscito Okja
[2017], non perché particolarmente votato all’esibizione
simil-stelle e strisce ma perché privo di profondità e quindi
percepito come fuffa messa in bella mostra) sembra essersi deciso a
risintonizzarsi sulle frequenze degli esordi con un intelligente uso
del registro comico che allevia le potenziali scontatezze della prima
ora, quella in cui l’umile ma ingegnosa famiglia prende possesso
della casa. Il susseguirsi degli stratagemmi che permettono le
sostituzioni del personale alle dipendenze del signor Park sono
concepite giusto per farci intendere quanto siano stupidi i ricchi in
raffronto alla scaltrezza dei poveri, però ogni trovata inscenata da
Bong regge perché è divertente,
perché nell’impeccabile confezione generale si avverte una
concertazione di pregio che muove con la giusta leggerezza le pedine
in gioco.
Non
va sottovalutato il fatto di riuscire ad essere gradevoli senza
ricorrere a facili sguaiataggini, tuttavia era nell’aria che
Parasite,
una volta illustrato il compimento del piano di conquista da parte
dei Kim, si aprisse ad altre piste, non solo tramiche. E così
accade. Con l’introduzione del bunker sotterraneo la storia ci
guadagna sotto molti punti di vista: in primis acquisisce nuova linfa
che si tramuta in spinta narrativa, quando l’ex governante suona al
citofono il film ricomincia e lo fa alterandosi un poco, cercando
ulteriori stimoli in generi più cupi (dal dramma fino, se vogliamo,
all’horror), senza comunque smarrire il tono ironico che lo
contraddistingue e arrivando ad una micidiale vetta sarcastica con le
minacce inflitte via smartphone (poi forse si esagera con il
perculamento ai danni di Kim Jong-un). Nel complesso piace che
l’impalcatura di Bong non presti il fianco a pericolosi cedimenti,
la progressione degli eventi non la si definirà inarrestabile ma il
tracollo a cui assistiamo ha un ritmo apprezzabilissimo con approdo
nella scena madre della festa di compleanno. Qui Bong lascia da parte
la logica della sceneggiatura, nel senso, la scelta del padre di
pugnalare il suo opposto (si noti come le due famiglie siano per
composizione esattamente speculari) non avrebbe
ragion d’essere, Kim Ki-taek poteva infierire sul marito della
domestica oppure tentare di mettere in salvo la figlia morente,
invece il suo raptus è la summa del pensiero che il regista ha
voluto dare al film, parrebbe che, in sostanza, nel processo di
ascesa non sia contemplabile una coesistenza tra le due caste, per
prendere il posto di quella più abbiente è indispensabile che
quest’ultima venga eliminata.
Ma
Bong è in gran spolvero e nell’impianto ad orologeria da lui
imbastito non permette che vi sia un finale liberatorio, se in
apparenza l’uccisione dell’Uomo Borghese possiede una valenza
rappresentativa di ribaltamento sociale, nella pratica, e la
questione in tal senso si fa davvero soddisfacente, non cambia
niente. L’Uomo Povero non migliora la sua posizione né quella dei
suoi simili, il sistema è bloccato, nonostante tutto il trambusto
nessuno sale e nessuno scende, e soprattutto è ciclico raddensandosi
nell’emblema della ripetizione, le figure cambiano ma c’è sempre
chi sta sopra (che sia una possidente famiglia coreana o una tedesca
nulla cambia) e chi sta sotto (in uno scantinato, vivacchiando,
soffrendo, separato). Intorno aleggia il fantasma dell’utopia, del
futuro (impraticabile) materializzato nella lodevole e conclusiva
scena epistolare.
Se
parlando di Okja
speravo in un ritorno a oggetti più “umani” citando l’esordio
Cane che abbaia non morde (2000),
eccomi inaspettatamente accontentato con Parasite,
che non sarà certo un film piccolo e intimo ma che è, a mio parere,
il miglior Bong Joon-ho
dai tempi di Memorie di un assassino (2003).
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