venerdì 3 gennaio 2020

Parasite

L’avranno pensato e scritto in molti, ma Gisaengchung (2019) non è altro che la rielaborazione concettuale di un altro film di Bong Joon-ho, un film che con quello sotto esame non ha nulla da condividere da un punto di vista meramente categoriale. Ovviamente mi riferisco a Snowpiercer (2013) e altrettanto ovviamente viene facile rintracciare il medesimo substrato che li accomuna: la possibile ascesa di un ceto sociale inferiore che tenta di spodestarne uno superiore. Quello che cambia tra le due pellicole è il movimento imposto dal regista sudcoreano, se nell’opera del 2013 lo spostamento era in orizzontale attraverso il passaggio da un vagone del treno all’altro, per la Palma d’Oro ’19 il tragitto è verticale, dai bassifondi della città alla collina elitaria della lussuosa villetta. Scontato dire, inoltre, che cambiano un sacco di altre cose, anzi cambia proprio tutto l’approccio di Bong che lasciatosi alle spalle una sterile spettacolarizzazione (va ricordato anche il per nulla riuscito Okja [2017], non perché particolarmente votato all’esibizione simil-stelle e strisce ma perché privo di profondità e quindi percepito come fuffa messa in bella mostra) sembra essersi deciso a risintonizzarsi sulle frequenze degli esordi con un intelligente uso del registro comico che allevia le potenziali scontatezze della prima ora, quella in cui l’umile ma ingegnosa famiglia prende possesso della casa. Il susseguirsi degli stratagemmi che permettono le sostituzioni del personale alle dipendenze del signor Park sono concepite giusto per farci intendere quanto siano stupidi i ricchi in raffronto alla scaltrezza dei poveri, però ogni trovata inscenata da Bong regge perché è divertente, perché nell’impeccabile confezione generale si avverte una concertazione di pregio che muove con la giusta leggerezza le pedine in gioco.

Non va sottovalutato il fatto di riuscire ad essere gradevoli senza ricorrere a facili sguaiataggini, tuttavia era nell’aria che Parasite, una volta illustrato il compimento del piano di conquista da parte dei Kim, si aprisse ad altre piste, non solo tramiche. E così accade. Con l’introduzione del bunker sotterraneo la storia ci guadagna sotto molti punti di vista: in primis acquisisce nuova linfa che si tramuta in spinta narrativa, quando l’ex governante suona al citofono il film ricomincia e lo fa alterandosi un poco, cercando ulteriori stimoli in generi più cupi (dal dramma fino, se vogliamo, all’horror), senza comunque smarrire il tono ironico che lo contraddistingue e arrivando ad una micidiale vetta sarcastica con le minacce inflitte via smartphone (poi forse si esagera con il perculamento ai danni di Kim Jong-un). Nel complesso piace che l’impalcatura di Bong non presti il fianco a pericolosi cedimenti, la progressione degli eventi non la si definirà inarrestabile ma il tracollo a cui assistiamo ha un ritmo apprezzabilissimo con approdo nella scena madre della festa di compleanno. Qui Bong lascia da parte la logica della sceneggiatura, nel senso, la scelta del padre di pugnalare il suo opposto (si noti come le due famiglie siano per composizione esattamente speculari) non avrebbe ragion d’essere, Kim Ki-taek poteva infierire sul marito della domestica oppure tentare di mettere in salvo la figlia morente, invece il suo raptus è la summa del pensiero che il regista ha voluto dare al film, parrebbe che, in sostanza, nel processo di ascesa non sia contemplabile una coesistenza tra le due caste, per prendere il posto di quella più abbiente è indispensabile che quest’ultima venga eliminata.

Ma Bong è in gran spolvero e nell’impianto ad orologeria da lui imbastito non permette che vi sia un finale liberatorio, se in apparenza l’uccisione dell’Uomo Borghese possiede una valenza rappresentativa di ribaltamento sociale, nella pratica, e la questione in tal senso si fa davvero soddisfacente, non cambia niente. L’Uomo Povero non migliora la sua posizione né quella dei suoi simili, il sistema è bloccato, nonostante tutto il trambusto nessuno sale e nessuno scende, e soprattutto è ciclico raddensandosi nell’emblema della ripetizione, le figure cambiano ma c’è sempre chi sta sopra (che sia una possidente famiglia coreana o una tedesca nulla cambia) e chi sta sotto (in uno scantinato, vivacchiando, soffrendo, separato). Intorno aleggia il fantasma dell’utopia, del futuro (impraticabile) materializzato nella lodevole e conclusiva scena epistolare.
Se parlando di Okja speravo in un ritorno a oggetti più “umani” citando l’esordio Cane che abbaia non morde (2000), eccomi inaspettatamente accontentato con Parasite, che non sarà certo un film piccolo e intimo ma che è, a mio parere, il miglior Bong Joon-ho dai tempi di Memorie di un assassino (2003).

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