lunedì 30 dicembre 2019

The Little Drummer Girl

Perché?
Sarà ragionevolmente questa la domanda che avrà ghermito lo spettatore cinefilo una volta giunto all’episodio conclusivo di The Little Drummer Girl (2018), perché Park Chan-wook ha accettato di dirigere un progetto del genere? Al di là delle questioni monetarie o di implementazione della propria fama, è possibile ipotizzare che al regista sudcoreano abbia fatto gola la possibilità di girare un film scorrazzando in lungo e in largo per l’Europa (che tanto in America c’era già passato: Stoker, 2013): dall’Inghilterra alla Grecia passando per la Germania con tappa nel Medio Oriente, la serie prodotta dalla BBC non si fa mancar nulla, sebbene essa stessa produca, involontariamente, una forte mancanza verso l’esterno, verso chi guarda: manca di appeal questa storia che più classicheggiante non può essere, cioè: è una storia di spionaggio e questo è ciò che viene propinato, quindi, tornando a Park e accettata la sua scelta di mettersi al timone della nave, si rimane un po’ delusi di quanto il risultato finale sia un prodotto normalizzato da delle grammatiche che non definirei televisive (ormai il confine è stato divelto, la tv seriale compete – e spesso vince – col cinema da botteghino), bensì occidentali, ma in un senso tradizionale, consuete, almeno al nostro occhio. Se pensiamo ad altri due autori come Lynch e Refn che di recente grazie alla forma episodica hanno potuto dare sfogo a maratone in cui è venuto fuori tutto il loro estro, qui con La tamburina accade il contrario, c’è spersonalizzazione, assoggettamento a bolsi ingranaggi narrativi e qualche ovvietà.

In alcuni recensioni ho letto di inequivocabili segnali che rimanderebbero alla paternità di Park, mah, sinceramente fatico a ravvisare continuità o ripresa di elementi personali appartenenti al regista, ad essere larghi qualche dettaglio o sfumatura ci può anche assere ma sono cose di poco conto che di certo non rinvigoriscono una poetica o un’idea trasmigrata (all’incirca) di film in film. Per carità, non si vuole considerare Park uno sperimentatore né un regista seminale, sul discorso delle aspettative quanto ci si augurava era solo un’opera ben confezionata smossa da un’aria frizzantina (vedi Mademoiselle, 2016), ma l’aria invece è piuttosto ferma, e lo è nonostante in superficie si presenti oltremodo movimentata. Del resto stiamo trattando una spy-story e quindi le contorsioni tramiche sono il pane quotidiano dalla prima alla sesta puntata. Il fatto è che più le faccende si contorcono e più la loro resa si fa costruita e innaturale. Io il libro non l’ho letto così come non ho mai letto nemmeno una riga scritta da le Carré, però “leggendone” la trasposizione sullo schermo si evince solo e soltanto un asservimento al canone del genere di riferimento, che è prettamente letterario e costituito da un intreccio che si ostina a voler essere logico pur seminando artificiosità a manetta. Dài, è una storia che non regge, improbabile come può essere James Bond ma, ovviamente, senza avere la medesima struttura extrafilmica alla spalle. Forse adottando un’ottica spionistica le maglie critiche dovrebbero allargarsi, tuttavia della suddetta ottica non mi importa niente, al sottoscritto importa che il manufatto audiovisivo abbia natura altra e priva di una leggibilità univoca, nel senso: Charlie viene assoldata dal Mossad per introdursi sotto mentite spoglie in una cellula terroristica palestinese, che c’è di più?

Ah già, la riflessione sull’attorialità. In sostanza c’è un meta-pensiero che attraversa la serie e che è impersonificato dalla figura di Charlie/Florence Pugh. Soprassiedo sulle modalità di reclutamento della ragazza, forzatissime e inverosimili al pari del percorso di introduzione nel clan arabo pensato per lei, e registro la scelta di porre la recitazione, e quindi la finzione, come strumento di indagine nella storia narrata, e quindi nella e della realtà (-del-film). Il processo di immedesimazione dell’attrice/spia fa sì che la sua discesa nella cosca terroristica si appai al mestiere che fa nella vita vera, è un’attrice, per cui sa fingere, o meglio, sa far credere a chi la guarda che lei può essere Giovanna d’Arco o una ribelle londinese dalla parte dei palestinesi. È un assunto che non si scrolla di dosso la frigida teoria che lo sottende, il concetto di una finzione che piano piano si fa realtà non si innesta mai con piena autenticità nell’impianto del racconto, non ce la fa nemmeno usando le palette dei sentimenti con il ricircolo amoroso che fluisce in un triangolo (o quadrilatero?) un po’ immaginario e un po’ no (sarebbe stato molto più incisivo se alla fine Charlie si fosse davvero fatta invadere dalla finzione [scappando via con Khalil] tradendo la realtà [Gadi e la cricca ebraica]). E allora? Anzi: e Park? Che faceva mentre riprendeva questo teatrino pieno di pupazzetti impelagati in vicende dimenticabili? Boh, se lo vedo glielo chiedo.

A sproposito di attori, si è mai detto quanto in una serie tv si ha la possibilità di apprezzare (o il contrario) le qualità di un interprete visto il numero di ore a disposizione? Sicuramente si sarà detto e stradetto, e mi viene da ribadirlo dopo aver visto un Michael Shannon in superforma che, nemmeno troppo velatamente nella prospettiva meta, è il Park Chan-wook diegetico che dirige le pedine sulla scacchiera. Attenzione anche a Florence Pugh, il futuro potrebbe appartenerle.

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