Da Twentynine Palms
(2003) a Jauja (2014) passando per chissà quant’altri film
che bellamente ignoro, il cinema si è sovente trovato a suo agio in
zone desertiche, forse perché è in luoghi del genere che il binario
dell’uomo, sempre così solo!, e quello dello spazio, sempre così
vasto!, arrivano a sfiorarsi in scintille che spesso hanno
illuminato. Con Surire (2015) si aggiunge un altro titolo alla
categoria “umanità nel deserto”, anche se, va detto, ci troviamo
in un’area più documentaristica rispetto alle due pellicole
sopramenzionate, il lavoro compiuto dal duo semisconosciuto (almeno
dal sottoscritto) Iván Osnovikoff e Bettina Perut si colloca
geograficamente sul Salar de Surire, un deserto di sale bianco
ubicato nel Cile settentrionale al confine con la Bolivia, mentre
cinematograficamente stende sullo schermo una triplice concatenata
veduta: il ritratto autoctono di alcuni villici che parlano una
lingua dimenticata e abitano in capanne alla fine del mondo, lo
stallo naturale di un paesaggio coperto dal silenzio (è un dettaglio
che colpisce: il silenzio esteso ed imperforabile), gli unici segni
di un’attività “moderna” come quei camion-micro machines che
ogni tanto scompaiono ed appaiano nel biancore del panorama. I primi
due aspetti sono comunque quelli che più caratterizzano l’opera,
l’accenno alle estrazioni di sale e al via vai dei tir è giusto un
contorno che si apprende soltanto da un punto di vista esclusivamente
visivo.
Quindi focalizzazione
sugli esseri umani in un habitat di struggente bellezza ma non troppo
funzionale in quanto a vivibilità, e allora vediamo (anzi: leggiamo)
le rughe di questi vecchietti come gli anelli degli alberi e possiamo
immaginare, grazie al cinema, della traiettoria che la loro esistenza
ha preso fin dall’inizio, non una vita facile si noterebbe, sebbene
in fondo ci si può chiedere: chi è l’uomo occidentale e quali titoli possiede per giudicare la vita altrui?
Surire si chiude non credo a caso sull’immagine di alcuni
turisti che non paiono minimamente connessi con l’ambiente, alcuni
sfrecciano in bicicletta altri si preparano a fare un tuffo in un
laghetto, però la loro vita sarà così facile…
Al di là di sterili
elucubrazioni esistenzial-relativistiche, parlando di facilità non
si può non citare quanto alla fine sia stato agevole per Osnovikoff
e Perut girare Surire, e non mi riferisco alle trafile
burocratiche o a quelle economico-tecnico-logistiche che
indubbiamente avranno impegnato tutto il team produttivo, quanto al
fatto che lungometraggi così si autosostentano da soli, hanno
soltanto bisogno di quella consona professionalità che fornisca loro
una degna cornice e poi per il resto esistono tranquillamente da sé,
il loro tasso di fascinazione che esprime un esotismo magnetico è lì
dalla notte dei tempi e lì rimarrà, con o senza dei piedi vicini
alla calcificazione che calpestano il suolo riarso. Voglio dire, in
sostanza, che nel pieno rispetto dell’attività registica qui ci
sono molte istantanee suggestive la cui grazia è al massimo
registrata dal cinema e riproposta di riflesso allo spettatore, il
che è accettabile, soprattutto se fatto con una certa attitudine
contemplativa, però… eh, posso continuare a sparlare ad oltranza
ma il fatto è che Surire sembra una versione un po’ meno
laccata del cinema di Brosens & Woodworth, molto stile, non
abbastanza cuore.
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