venerdì 6 dicembre 2019

The Shine of Day

Più finzione che realtà rispetto a Non è ancora domani (La pivellina) (2009), eppure non si tratta di normale “finzione finzione”, è, piuttosto, un atto che depura il cinema da quei codici che lo rendono un manuale algoritmico, ma non del tutto!, un canovaccio, anche se flebile, è ben presente così come la tensione verso una risoluzione finale, omessa, evviva, e al contempo intuibile. La coppia Tizza Covi und Rainer Frimmel giunge a Der Glanz des Tages (2012) in queste condizioni artistiche, siamo in un campo battuto oltremodo da altri colleghi che negli ultimi anni ci hanno fornito numerose declinazioni similari, come se il documentario fosse ormai un genere esploso in derive che hanno soppiantato la messa in scena, ne consegue che lo stage può essere ogni giorno la vita che si vive e basta mettere una videocamera sulle tracce di qualcuno che un film ha la capacità di fiorire dal nulla: uno zio residente in Italia va a trovare il nipote attore ad Amburgo, i due registi danno il la alla loro sinfonia minima(l) senza ulteriori spiegazioni ed anche il prosieguo ci fa intendere più che illustrare, il che è bene, o per andare di litote, non è poi così male: un impianto semplice che si percepisce tale poiché scevro di una marcata composizione ma che non è una semplificazione, una riduzione, una miniatura, anzi, forse è grazie al suo procedere in sordina che quanto appare lineare e vero sa affrontare a viso aperto e senza onanismi autoriali grandezze che formano e deformano l’esistenza.

L’ovvio preambolo è che, insomma, Film non è in codeste lande che io posso incontrarti, e dopo la virgola The Shine of Day (ammettiamolo: è proprio un bel titolo) sembra essere attratto, e di rimando noi con lui, da certe funi consanguinee che mozzate e riannodate paiono condannate ad un destino gramo, si staglia, allora, un concetto di famiglia mutuato da La pivellina dove tre satelliti maschili (Walter, Philipp ed il moldavo) ruotano intorno ad un pianeta vuoto che nemmeno riconosco più ma di cui serbano ancora profumi e dolci ricordi, ognuno in fondo cerca soltanto una prossimità verso un affetto lontano (dei tre l’unico ad apparire più emancipato – almeno in apparenza – da questo sentimento nostalgico è Philipp, lo si intende dal dialogo chiave con lo zio sotto la neve) e tutto ciò Covi e Frimmel ce lo suggeriscono fievolmente attraverso il loro ordito reale punteggiato da piccole intensificazioni. L’intreccio ci porta poi ad uno scioglimento che, nuovamente al pari de La pivellina, tratteggia un maquillage famigliare dove i canonici ruoli genitoriali si fanno da parte per dare spazio ad una fratellanza e ad un’umanità che potrebbe essere una valida lezione per chi erge muri sui propri confini, e qui nel finale fa un po’ capolino quel discorso di una rappresentazione resa più netta (la partenza di Walter verso la Moldavia non risulta sbrigativa?) a scapito del registro maggiormente utilizzato. Ci sarebbe poi da sottolineare che l’inesauribile tema realtà vs. finzione è un altro topic che l’opera affronta per mezzo di Philipp e del suo mestiere che lo fa vivere costantemente su un palco anche quando è a casa, non ci sono i margini per un grande svisceramento, però della roba da afferrare, unita a quanto detto in precedenza, rimane riscontrabile a visione ultimata.

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