Più finzione che realtà
rispetto a Non è ancora domani (La pivellina) (2009), eppure
non si tratta di normale “finzione finzione”, è, piuttosto, un
atto che depura il cinema da quei codici che lo rendono un manuale
algoritmico, ma non del tutto!, un canovaccio, anche se flebile, è
ben presente così come la tensione verso una risoluzione finale,
omessa, evviva, e al contempo intuibile. La coppia Tizza Covi und
Rainer Frimmel giunge a Der Glanz des Tages (2012) in queste
condizioni artistiche, siamo in un campo battuto oltremodo da altri
colleghi che negli ultimi anni ci hanno fornito numerose
declinazioni similari, come se il documentario fosse ormai un genere esploso
in derive che hanno soppiantato la messa in scena, ne consegue che lo
stage può essere ogni giorno la vita che si vive e basta
mettere una videocamera sulle tracce di qualcuno che un film ha la
capacità di fiorire dal nulla: uno zio residente in Italia va a
trovare il nipote attore ad Amburgo, i due registi danno il la alla
loro sinfonia minima(l) senza ulteriori spiegazioni ed anche il
prosieguo ci fa intendere più che illustrare, il che è bene, o per
andare di litote, non è poi così male: un impianto semplice che si
percepisce tale poiché scevro di una marcata composizione ma che non
è una semplificazione, una riduzione, una miniatura, anzi, forse è
grazie al suo procedere in sordina che quanto appare lineare e vero
sa affrontare a viso aperto e senza onanismi autoriali grandezze che
formano e deformano l’esistenza.
L’ovvio preambolo è
che, insomma, Film non è in codeste lande che io posso incontrarti,
e dopo la virgola The Shine of Day (ammettiamolo: è proprio
un bel titolo) sembra essere attratto, e di rimando noi con lui, da
certe funi consanguinee che mozzate e riannodate paiono condannate ad un destino gramo, si staglia, allora, un concetto di
famiglia mutuato da La pivellina dove tre satelliti maschili
(Walter, Philipp ed il moldavo) ruotano intorno ad un pianeta vuoto
che nemmeno riconosco più ma di cui serbano ancora profumi e dolci
ricordi, ognuno in fondo cerca soltanto una prossimità verso un
affetto lontano (dei tre l’unico ad apparire più emancipato –
almeno in apparenza – da questo sentimento nostalgico è Philipp,
lo si intende dal dialogo chiave con lo zio sotto la neve) e tutto
ciò Covi e Frimmel ce lo suggeriscono fievolmente attraverso il loro
ordito reale punteggiato da piccole intensificazioni. L’intreccio
ci porta poi ad uno scioglimento che, nuovamente al pari de La
pivellina, tratteggia un maquillage famigliare dove i
canonici ruoli genitoriali si fanno da parte per dare spazio ad una
fratellanza e ad un’umanità che potrebbe essere una valida lezione
per chi erge muri sui propri confini, e qui nel finale fa un po’
capolino quel discorso di una rappresentazione resa più netta
(la partenza di Walter verso la Moldavia non risulta sbrigativa?) a
scapito del registro maggiormente utilizzato. Ci sarebbe poi da
sottolineare che l’inesauribile tema realtà vs. finzione è un
altro topic che l’opera affronta per mezzo di Philipp e del suo
mestiere che lo fa vivere costantemente su un palco anche quando è a
casa, non ci sono i margini per un grande svisceramento, però della
roba da afferrare, unita a quanto detto in precedenza, rimane
riscontrabile a visione ultimata.
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