lunedì 2 dicembre 2019

Montanha

Era pronosticabile che João Salaviza, nato a Lisbona nell’84 e già insignito di Palme e Orsi, giungesse finalmente ad un lungometraggio di debutto, come era altrettanto pronosticabile che tale debutto mostrasse una forte coerenza con quanto l’aveva preceduto (ad eccezione di Stokkur, 2011) ed il trend del regista in questa direzione lo si evince da una forte continuità tematico-stilistica che parte da Arena (2009) e arriva fino a Montanha (2015): case, palazzoni, teppistelli affacciati su distese di cemento, civiltà periferiche, miseria urbana, famiglie che tirano avanti, figli che vivono la loro micro-ribellione, e quindi, per certificare di come Salaviza operi nel solco dei cosiddetti autori, anche per lui abbiamo diversi film che in realtà sono un unico film, e lo dimostra, a banale esempio, la presenza di Rafael, nient’altro che il protagonista di… Rafa (2012). È un realista Salaviza, uno che filma quello che ha intorno, quello che probabilmente ha sempre visto fin da quando era un bambino, e giusto per darvi delle coordinate lusitane, siamo nelle zone di João Canijo con Blood of My Blood (2011) piuttosto che nelle eccentricità di Miguel Gomes.

E dunque Montanha: coming of age dalle tinte europee, territoriale, metropolitano, opera sull’adolescenza che sbanda: se lo si nota non ci sono guide per David: il padre non esiste, la mamma è un fantasma londinese, il nonno è morente, la scuola rimane fuori campo (come la polizia in Rafa), smarrimento e piccole perdizioni quotidiane riempiono l’esistenza del protagonista al guado tra la pubertà e l’adultità, un periodo complesso da raccontare in cui Salaviza interviene il meno possibile con un cinema che cerca di assottigliare i filtri della finzione, ci riesce non ci riesce: abbastanza, una regola non scritta vuole che comunque ci debba essere anche un rivolo sentimentale che tempestivamente si presenta, perciò ecco un carico affettivo nel pentolone del personaggio-David, esemplare umano nel divenire di una vita che non regala nulla. Ad essere onesti non vi è alcunché di mai visto qui, la settima arte pullula di esempi così ed il merito che possiamo dare a Salaviza è quello di mantenere per tutta la proiezione un contegno generale con cui possiamo entrare in confidenza senza strapparci le vesti una volta concluso il tutto.

Perché ad essere ancora più onesti nella composta messa in scena il disorientamento di David non arriva ad investire come in principio poteva essere, la gamma di situazioni melodrammatiche, l’intreccio espositivo e l’analisi socio-emotiva dei soggetti ripresi, rientrano in una dimensione vagamente ordinaria, non indecorosa ma nemmeno entusiasmante. Occhi ben puntati sulle rifiniture estetiche invece, siamo sempre in un’area realistica, certo, ogni tanto però le riprese notturne ci fanno penetrare nell’ambra delle notti afose portoghesi dove la penombra sudaticcia fibrilla il defluire serale dei “piccoli-uomini” che popolano Montanha, sono momenti da ritagliare, intimi e caldi, da portare con sé per qualche giorno, per qualche ora. Dramma sì allora, mimetizzato nella realtà dei giorni che passano, lavoro tenue e non indimenticabile, gravido fino ad un certo punto, quello di incontro con altri film similari, come si dice oggidì: bene, ma non benissimo.

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