Era pronosticabile che
João Salaviza, nato a Lisbona nell’84 e già insignito di Palme e
Orsi, giungesse finalmente ad un lungometraggio di debutto, come era
altrettanto pronosticabile che tale debutto mostrasse una forte
coerenza con quanto l’aveva preceduto (ad eccezione di Stokkur,
2011) ed il trend del regista in questa direzione lo si evince da una
forte continuità tematico-stilistica che parte da Arena
(2009) e arriva fino a Montanha (2015): case, palazzoni,
teppistelli affacciati su distese di cemento, civiltà periferiche,
miseria urbana, famiglie che tirano avanti, figli che vivono la loro
micro-ribellione, e quindi, per certificare di come Salaviza operi
nel solco dei cosiddetti autori, anche per lui abbiamo diversi film
che in realtà sono un unico film, e lo dimostra, a banale esempio,
la presenza di Rafael, nient’altro che il protagonista di… Rafa
(2012). È un realista Salaviza, uno che filma quello che ha intorno,
quello che probabilmente ha sempre visto fin da quando era un
bambino, e giusto per darvi delle coordinate lusitane, siamo nelle
zone di João Canijo con Blood of My Blood (2011) piuttosto
che nelle eccentricità di Miguel Gomes.
E dunque Montanha:
coming of age dalle tinte europee, territoriale, metropolitano, opera
sull’adolescenza che sbanda: se lo si nota non ci sono guide per
David: il padre non esiste, la mamma è un fantasma londinese, il
nonno è morente, la scuola rimane fuori campo (come la polizia in
Rafa), smarrimento e piccole perdizioni quotidiane riempiono
l’esistenza del protagonista al guado tra la pubertà e
l’adultità, un periodo complesso da raccontare in cui Salaviza
interviene il meno possibile con un cinema che cerca di assottigliare
i filtri della finzione, ci riesce non ci riesce: abbastanza, una
regola non scritta vuole che comunque ci debba essere anche un rivolo
sentimentale che tempestivamente si presenta, perciò ecco un carico
affettivo nel pentolone del personaggio-David, esemplare umano nel
divenire di una vita che non regala nulla. Ad essere onesti non vi è
alcunché di mai visto qui, la settima arte pullula di esempi così
ed il merito che possiamo dare a Salaviza è quello di mantenere per
tutta la proiezione un contegno generale con cui possiamo entrare in
confidenza senza strapparci le vesti una volta concluso il tutto.
Perché ad essere ancora
più onesti nella composta messa in scena il disorientamento di David
non arriva ad investire come in principio poteva essere, la gamma di
situazioni melodrammatiche, l’intreccio espositivo e l’analisi
socio-emotiva dei soggetti ripresi, rientrano in una dimensione
vagamente ordinaria, non indecorosa ma nemmeno entusiasmante. Occhi
ben puntati sulle rifiniture estetiche invece, siamo sempre in
un’area realistica, certo, ogni tanto però le riprese notturne ci
fanno penetrare nell’ambra delle notti afose portoghesi dove la
penombra sudaticcia fibrilla il defluire serale dei “piccoli-uomini”
che popolano Montanha, sono momenti da ritagliare, intimi e
caldi, da portare con sé per qualche giorno, per qualche ora.
Dramma sì allora, mimetizzato nella realtà dei giorni che passano,
lavoro tenue e non indimenticabile, gravido fino ad un certo punto,
quello di incontro con altri film similari, come si dice oggidì: bene, ma
non benissimo.
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