Non ci si attendeva
niente di diverso per Arena (2009), cortometraggio che viene
riconosciuto come debutto da parte di João Salaviza anche se IMDb
segnala altri due shorts precedenti, ad ogni modo il lavoro
che valse una Palma in quel di Cannes al giovane portoghese si
presenta come un titolo propedeutico a tracciare una linea autoriale
che successivamente si modellerà in altri esemplari oltremodo simili
tra loro, quindi già in Arena possiamo entrare in contatto
con un quartiere disagiato pressoché identico a quello immortalato
in Rafa (2012) o in Montanha (2015), e se l’ambiente
è lo stesso anche gli esseri umani che lo popolano sono fin da
adesso gli ultimi gradini della scala sociale, e facendo fede ad un
proprio dogma anti-spiegazionista il regista prova (riuscendoci
anche) ad immergere chi guarda nella realtà diegetica snellendo la
narrazione fino a mostrare il duro osso delle cose che accadono con
naturalezza, o perlomeno così ci appare.
Grazie a ciò non è più
nemmeno tanto importante che cosa Arena racconti perché il
suo spaccato di vita è solo una piccola faccia di un prisma
derelitto costituito da ulteriori situazioni che brancolano nella
medesima miseria, storie celate che eppure stanno lì, emergono in
dettagli che a loro volta figliano altre minuzie e perciò ancora
storie, di ragazzi agli arresti domiciliari, di ragazzini che fanno i
delinquentelli, e dunque di genitori assenti, di istituzioni
desaparecidos, di mancanze affettive, di latitanze legislative. Ecco,
nel confine e nei limiti di un quarto d’ora Salaviza si preoccupa
di recapitarci il mix di elementi sopraccitato con un andamento
uniforme a cui non si rimprovera niente, alla fine questo sotterraneo
sentimento di scoramento confluisce nel corpo di Mauro che in una
lodevole scena si lascia cadere stremato a terra dopo aver
contemplato il torrido cielo sopra la città, come se improvvisamente
i problemi di una vita sbagliata (rinchiudere un pivello in un
bagagliaio… bah, ne vale la pena?) lo avessero folgorato e subito
tramortito.
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