Non si finisce mai di
scoprire nel cinema, e così, dal nulla, emerge un tale Adolfo
Arrieta che nel corso della sua sommersa carriera ha più volte
modificato il proprio nome in calce ai film girati, i quali, a quanto
si legge in giro, hanno certificato di come Arrieta non sia mai stato
un personaggio dal curriculum “facile”, padre di una produzione
che ha avuto un picco tra tra il ’72 e l’89 e che poi, complice
l’avanzare dell’età, si è sempre più diradata almeno fino al
recente Belle dormant - Bella addormentata (2016) che arriva a distanza di
venticinque anni da Merlín (1991), nel mezzo una depressione
artistica e alcuni oggetti non identificati in cui si iscrive a pieno
titolo Vacanza permanente (2006), vero e proprio ufo che
lascia interdetti: a parlarne male, che sarebbe la cosa più
immediata da fare, c’è il rischio di dimenticarsi che ogni film di
un’artista è la continuazione di quello precedente e pertanto,
essendo il sottoscritto a completo digiuno nei confronti di Arrieta,
sparare a zero potrebbe significare non avere rispetto di una veduta
autoriale più ampia che si è protratta nel tempo, parimenti
parlarne bene è un atto per niente facile perché pur avvertendo la
presenza di un qualcosa dietro al flusso delle immagini, tradurre
tale sensazione in parole congrue va al di là delle mie capacità
interpretative.
Dopo essermi rifugiato in
questa antitesi, credo che dentro Vacanza permanente si possa
rintracciare dell’altro che non sia la sterilità di un atto
artistoide. Probabilmente c’entra anche la biografia di Arrieta che
prima del film aveva passato un brutto periodo personale, da qui il
titolo, volutamente in italiano poiché parte delle riprese si sono
svolte in Italia, che parrebbe darci una mano sul piano della
comprensione; se si nota il rimbalzare apparentemente disomogeneo del
regista avremmo con qualche sforzo, lo ammetto, anche un filo
conduttore che va a situarsi nei momenti leggeri che la vita
contempla, infatti il lavoro di Arrieta è modellato su un
susseguirsi di parentesi amene riguardanti istantanee di persone che
chiacchierano, che bevono ad un bar, che ballano in un locale, che si
telefonano, è una specie di elogio del tempo libero, strano e ben
poco costruttivo, che non dà di certo del tu allo spettatore, perché
comunque la sua natura, plasmata in un digitale d’antan (l’unica
copia rinvenibile in rete è un rippaggio di Fuori Orario), è un
continuo sfuggire attraverso sembianze proteiformi che vanno dal film
di montaggio (molte le sequenze di altre opere insertate nella
proiezione, e se si tratti di roba appartenente al madrileno non lo
possiamo sapere), al film casalingo (ritornano degli stralci
domestici in cui Arrieta compare in carne [solo i piedi] e… materia
grigia [un cervello, di plastica, come soprammobile]). Visione
difficile dunque, al confine con l’arroganza para-intelletuale,
cosa vuota ma con riserva, non si finisce mai di scoprire nel cinema,
e ciò conforta sempre, e poi, anche se nulla c’azzecca,
inaspettatamente il buio e un accendino riportano a Face
(2009) di Tsai Ming-liang, è proprio vero allora che ogni film, e
vale anche quando le menti che l’hanno creato sono diverse, è la
continuazione di quello che l’ha preceduto.
credo di aver visto qualcosa di Adolfo Arrieta, tanto tempo fa, ricerco qualche corto in rete.
RispondiEliminabuone visioni!
Ciao Ismaele, quanto tempo. Anche se i tempi, ormai, sono cambiati.
RispondiEliminati leggo sempre, però:)
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