Di produzione e direzione
completamente americane (alla regia ci sono due donne dall’esiguo
curriculum filmico, Anne Bogart ed Holly Morris), The Babushkas of
Chernobyl (2015) si occupa di renderci edotti sulla condizione di
alcune vecchiette ritornate a vivere nei pericolosissimi dintorni
dell’infausta esplosione avvenuta nel 1986, prima di preoccuparvi
inutilmente sulla salute delle suddette vi anticipo che è tutto ok,
le babushke del titolo (ovvero le attempate signore protagoniste [1])
stanno molto bene nonostante il terreno che calpestano, l’aria che
respirano e l’acqua che bevono non siano esattamente “salutari”,
e il documentario in sostanza è sintetizzato in tale concetto, è
una storia illustrata che delinea un paradosso esistenziale: in un
luogo avvelenato, mortifero, cimiteriale, delle persone continuano
serenamente la propria vita, tanto che, come sottolinea un militare,
statisticamente sono maggiori i decessi di chi non è più tornato
nella dead zone rispetto a coloro i quali hanno deciso di
rimpatriare. C’è, o ci sarebbe, della poesia, ma il taglio scelto
dalle due registe è frenato da un mood non abbastanza autoriale per
poter toccare quell’intensità che potenzialmente avrebbe, di
sicuro, per il mio intendere cinematografico, avrei eliminato le
parti esplicative con i vari esperti del settore poiché così
facendo la dimensione a cui il lavoro si avvicina è più televisiva
che artistica, ma va bene uguale, nessuno urlerà allo scandalo.
Rimangono i ritratti di
questi tenaci donnoni infoulardati (ne avevamo visti di simili in un
film folle di molto tempo fa: 4, 2004), della loro vita
semplice e perfino felice nonostante siano pressoché sole al mondo
(i mariti sono tutti morti), e ciò che meraviglia è la noncuranza nei confronti delle radiazioni nocive che aleggiano
intorno, un’indifferenza che le rende ai nostri occhi delle donne
simbolo di una prode resistenza verso un nemico invisibile, però,
nonostante le buone intenzione, Bogart & Morris potevano dare di
più allo spettatore, in fondo parliamo di un film molto didattico la
cui composizione non riesce a restituire totalmente il senso di
umanità che invece custodisce, ed essendo un prodotto pendente verso
l’esplicativo anche il materiale antropologico viene esposto
sottoforma di depliant quando, al contrario, si poteva puntare su
registri ibridati per cogliere nel reale tutto quell’incredibile
slancio narrativo che si annida al suo interno. Comunque, The
Babushkas of Chernobyl ha un grande pregio, quello di mostrarci
la stolidità di alcuni ragazzi che emulando le gesta di un
videogioco e riprendendosi con una GoPro (le immagini originali
vengono alternate al resto dell’opera) si sono introdotti
nottetempo nelle aree interdette a chiunque sollevando una domanda
davvero semplice: ma perché?
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[1] Come non ricordare la
babushka più famosa al mondo proprio perché totalmente sconosciuta?
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