Due anni
dopo.
Ho deciso di
comprare la casa dove sono stato in affitto con lei. Tutti mi hanno
detto ma come, perché vai a vivere in un posto che ha segnato la
fine di una lunga storia, e a tutti ho risposto che ormai è passato
un bel po’ di tempo e che il proprietario mi ha fatto un ottimo prezzo.
Prima dei
vestiti e delle stoviglie ho portato i libri, alcuni, come Dieci
dicembre, La
cognizione del dolore e I
dispiaceri del vero poliziotto erano
già stati lì, nello stesso posto, sulla mensola in ardesia di
fronte al letto. È confortante alzarmi al mattino e vederli tutti
ritti sulle loro costine colorate, un arcobaleno orizzontale ricolmo
di parole.
Quando preparo la cena e aspetto che l’acqua bolla appoggio il
mento sui pugni e seduto al tavolo chiudo gli occhi. Non voglio
ricordare nulla eppure sento nella stanza affianco delle mani che
pescano le mollette per stendere dal cestino in plastica, l’anta di legno dell’armadio che scorre, la pressione di un peso
sulle molle del divano, un cubicolo apribile pieno di trucchi riposto
nello scaffale, una voce che parla al telefono in giardino. Non
voglio ricordare niente, devo buttare la pasta.
La luce azzurrina del pc illumina le mie serate. Ho letto su Internet
che in Danimarca ci sono dei posti in cui la gente va a fottersi i
cani. Bordelli con animali. O a farsi fottere dai cani, se ne hanno
voglia. Sul mobile del salotto, proprio là sopra, c’era una nostra
foto dove io avevo il braccio ingessato. Fuori dalla finestra intravedo uno spicchio di città
illuminata. A Mosul, invece, pare che i cani, abituati ormai ad
azzannare i cadaveri abbandonati per strada, siano diventati dei
mostri che attaccano ferocemente l’uomo per mangiarselo. Dormo
profondamente e faccio incubi tremendi.
In primavera la parietaria cresce selvaggia tra le minuscole fessure
del muro che delimita il giardino, in inverno secca ed il vento la
spianta fino a trascinarla in un angolo vicino allo sgabuzzino, poi
la pioggia battente compatta tutto. Quando mi accingo a ripulire e
alzo quella lastra di palta è come se scoperchiassi un cranio in cui
si annidano colonie di lombrichi.
Un’emersione improvvisa: ci eravamo lasciati da poche settimane e
io ero tornato dai miei. A lavoro mi avevano offerto di passare una
settimana a Dublino per incontrare certi clienti, accettai e con il
primo pomeriggio libero decisi di camminare fino alla baia della
città. Lasciai in St Stephen’s Green il vociare delle scolaresche
e dei turisti per seguire una lunga strada trafficata che tagliava a
metà una bella zona moderna con alti grattacieli e palazzi
scintillanti, il cielo era azzurro ed anche io dentro mi sentivo
azzurro, ma fragile e solo, e a mano a mano che procedevo su una
cartina stropicciata le case invecchiavano, perdevano piani, le
vetrine dei charity shop esibivano robaccia sottratta alla pace
eterna di qualche polverosa soffitta, passeggiando sfioravo ragazze
incinte esageratamente abbronzate che spingevano carrozzine di
seconda mano, poi, superato un piccolo parco, le abitazioni divennero
ancora più piccole, monofamigliari, oltre le tendine qualcuno
guardava una partita di calcio gaelico mentre dei bambini fuori dalla
porta si rincorrevano dicendo cose incomprensibili. Nonostante i
processi di riurbanizzazione si capiva che quelle, un tempo, erano
case di pescatori, e infatti il mare si scorgeva all’orizzonte in
una linea di spuma bianca lontana, sotto i miei piedi lo sfrigolio
della sabbia iniziava a sostituirsi all’asfalto, presi
l’imboccatura che conduceva alla spiaggia per ritrovarmi su una
distesa ocra che sembrava sconfinata, il mare continuava ad essere una
riga bianca fusa col cielo: non avevo mai visto da vicino la bassa
marea. Mi sedetti proprio dove qualche ora dopo l’acqua avrebbe
ricoperto tutto e pensai a te che eri a migliaia di chilometri di
distanza.
Trovo spesso rifugio nel calore del termosifone. Mi siedo su un
micro-pouff arancione con sopra stampato uno smile sorridente e
appoggio la schiena sulla ghisa del calorifero. La fronte trova posto
nell’incavo delle ginocchia unite e le braccia incrociate
proteggono il mio stomaco. Sto così per ore fino a quando la notte
si fa densa e dal pavimento del salotto emerge un imponente fuso che
ruotando su se stesso arrotola un filo di lana nera proveniente dal
soffitto.
Al piano di sotto abita ancora il Comandante. Una volta sono entrato
in un suo sogno: lui era al timone di una nave mercantile che aveva
appena salpato da Singapore e io un giovane marinaio che lo ascoltava
rapito mentre raccontava di alcune sirene che aveva visto al largo
delle Azzorre. Una, diceva, assomigliava a mia moglie.
La muffa ha invaso la camera da letto, sulla parete sud, quella che
dà sull’esterno, una sottile peluria verdastra ne ha ricoperto
l’intera superficie, avvicinandomi ho notato che le macchie in
realtà sono delle complesse forme geometriche al cui interno si
muovono microscopici esserini impegnati a fare chissà cosa, è
possibile che il mio occhio, banalmente marrone, sia per loro un sole
abbacinante.
È successo ieri sera, mentre dormivo. Ho avuto paura. È iniziato
con un leggero picchiettio, credevo ci fosse qualcuno nella stanza
invece il rumore giungeva dai libri sulla mensola d’ardesia, da uno
in particolare, il più alto e spesso: ho avuto davvero paura. Una
corona di luce ne circondava i bordi mentre il tomo continuava a
tremare come se fosse percorso da scariche elettriche, allora ho
sfilato via
2666 ed ogni cosa intorno a me, la casetta, i muri
giallini, l’armadio Ikea, il divano rosso con gli scarabocchi dei
bambini che c’erano stati prima di noi, le sedie in legno
pieghevoli, i piatti comprati in un mercatino dell’usato, le
catenelle dell’uncinetto, gli addobbi natalizi stipati in un sacco
dentro lo sgabuzzino, le due tazzine viola pagate pochi euro, il
soffione della doccia che aveva visto innumerevoli volte i nostri corpi
nudi, Io, Tu, ogni cosa si è smaterializzata nello splendore
dell’oblio.
Perché tu sei, tu sei dentro di me
e poi tu sei molto più forte di me
"TU SEI LALO"
La prima cosa che ho sentito è stato il pelo dei miei fratellini
ricoperto dalla calda materia organica che ci aveva cullato per due
mesi, poi è arrivata la ruvida lingua della mamma a ripulirmi la
schiena e la coda, infine il latte dalla morbida mammella che tutti
succhiavamo avidamente come se fosse la nostra unica ragione di vita.
Solo dopo un paio di settimane ho capito che ero nato in un magazzino
abbandonato ricolmo di sacchi di patate i cui germogli stavano
iniziando a bucare l’ordito di iuta, c’era solo una finestrella
crociata lassù in alto da dove ogni tanto un fascio di luce si
proiettava sul pavimento polveroso rivelando un universo di
micro-pianeti in sospensione. Dissi il mio primo bau quando
finalmente uscii insieme alla mamma e ai miei fratelli fuori dal
deposito, intorno a me vedevo solo lunghe gambe glabre che si
muovevano di qui e di là, carretti ricolmi di pesci ancora vivi,
polipi ammucchiati dentro secchi di pittura, metri e metri di
sfilacciate reti arancioni intrise di salino, galleggianti pronti a
sfidare la rabbia delle onde scavalcandole con noncuranza, e io
muovevo le zampe in mezzo ad un mondo che mi sembrava un bellissimo
destino, pieno di avventure e corse a perdifiato, almeno fino a
quando qualcuno che trascinava l’elica arrugginita di un motore non mi
diede un calcione sul fianco facendomi molto male e allora gli dissi
proprio così: “bau”. Ben presto capii che loro, i pescatori, non
erano tutti uguali, alcuni, quando tornavano al tramonto dalle loro
battute di pesca, lanciavano dalla barca dei grossi naselli
luccicanti che azzannavamo al volo sul ciglio della banchina ululanti
e festanti, il sapore salato del pesce e la polpa fredda che si
disgregava sotto i denti è un ricordo che mi trasporta indietro nel
tempo, in una bolla di pura felicità dove comunque lo spazio è
occupato inevitabilmente da lei. Non so dire, adesso, come iniziò,
so solo che un giorno mentre gironzolavo per il villaggio una voce
mi chiamò, ed io, che non avevo mai avuto un guinzaglio, avvertii al
contatto delle sue mani che mi lisciavano il pelo di volerne uno, ma
invisibile, di una materia che no, non credo si possa spiegare se non
sentendosela dentro, e lei che continuava delicata a dedicarsi a me
disse che mi chiamavo Lalo e io non ebbi dubbi sul fatto che quello
era sempre stato il mio nome, anche se non l’avevo mai saputo.
Tutte le mattine mi presentavo alla sua porta con il cuore pronto a
battere per ogni corsa ed ogni rincorsa tra le stradine bagnate del
centro, a rotta di collo dribblando cassette di frutta e signore dai
culoni tondi con la cena nei sacchetti destinata ai mariti affamati,
non c’era tempo per respirare se non quando arrivavamo sulla
sommità di una collinetta da dove potevamo scorgere il promontorio
che si inabissava nell’acqua, lì mi addormentavo tra le sue
braccia dondolato da un respiro regolare che era brezza, che era
respiro e di nuovo brezza, e più volte ho sognato di essere un
pescatore alto e bello con la pelle temprata dal sole e gli occhi
marroni che ritornava a casa prima della sera, in una casetta dai
muri giallini, dove lei mi aspettava con un vestito a fiori. Poi
ritornando al magazzino e accoccolandomi sul mio sacco di patate
preferito chiedevo a me stesso perché? Perché io? Perché noi? Che
cos’era questa capacità di potere percepire cosa lei provava nello
stesso istante in cui lo provavo io? Come era possibile che al mondo
esistevano delle prossimità così indispensabili di cui nessuno, né
la mamma né i miei fratelli, mi aveva mai raccontato? In quel
periodo i germogli che stavano nascendo dai tuberi mettevano già le
prime foglioline verdi, avevo pace nel sonno, due braccia pronte ad
accogliermi ed un nome che era solo mio e suo, non avevo
bisogno di altro.
Arrivarono di notte perché facevano parte di essa. Per la prima
volta la porta del magazzino si spalancò emettendo un clangore di
catene arrugginite e ossa tritate, sulla soglia la sagoma nera era a
capo di una lunga fila, i loro bastoni, nel silenzio del villaggio,
schioccavano sui palmi delle mani aperte, drizzammo le orecchie, la
mamma mostrò i denti ringhiando, fecero il primo passo e poi fu solo
sangue: non serviva mordere, erano più forti, e non serviva nemmeno
guaire perché non avevano pietà, le bastonate tagliavano il buio
scaricandosi sulle nostre spine dorsali, la polvere che saliva dal
pavimento ci annebbiava la vista, una luna tonda era sulla stessa
traiettoria della finestra crociata, da lì potevo vedere quattro
spicchi luminosi nel cielo nero mentre tutto ciò che rimaneva della
mia vita stava finenendo nella rabbia delle ombre senza corpo. Quando venni
avvolto da qualcosa che sembrava uno dei sacchi delle patate ma più
liscio e freddo venni sollevato dal suolo e trasportato
all’esterno, ero di nuovo nella pancia della mamma? Poco dopo fui
liberato in un angusto spazio oscuro, tanfo di escrementi, vicino a
me c’erano altri due dallo sguardo rassegnato, chiesi loro che cosa
stava succedendo, dove ci trovavamo, e uno dei due disse che la carne
degli esseri umani, sebbene un po’ dura da masticare, aveva un
ottimo sapore, e allora domandai più a me stesso che a loro cos’era
un essere umano, nessuno rispose e un rumore meccanico fece vibrare
il vano in cui mi trovavo, qualcosa si mosse: eravamo noi, allora
capii che in quel preciso momento finiva un’esistenza e ne
cominciava un’altra, che non ci sarebbe più stata nessuna alba
arancione né il profumo della salsedine portato dalla tramontana,
basta panorami dalla collina, stop alle folli corse nel mercato
inseguiti dai pescivendoli, addio alle lotte furibonde con i gatti
smilzi che vivevano tra gli scogli, e soprattutto addio a lei, a
quello che eravamo insieme e che non avrebbe mai conosciuto un futuro. Mentre
ci spostavamo verso chissà dove e i miei compagni dormivano
nervosamente rantolando bestemmie e improperi, vidi comparire al centro del rettangolo in ferro uno strano oggetto, alto, affilato,
quasi indistinguibile nel buio, che girando su stesso attorcigliava
un filo nero pendente dal tettuccio.
Il viaggio durò mesi, forse anni, ci furono molte tappe intermedie
ed ogni volta che qualcuno moriva durante il tragitto veniva subito
rimpiazzato da qualcun altro, e visto che ormai ero uno dei più
longevi dicevo sempre ai nuovi arrivati che la carne degli esseri
umani, sebbene un po’ dura da masticare, aveva un ottimo sapore. Le
ombre ci nutrivano con pane secco e acqua sporca, nessuno di noi
riceveva una carezza da un tempo tale che ormai eravamo affrancati
dal bisogno stesso di calore, i ricordi erano così sbiaditi che il
periodo passato al villaggio mi sembrava appartenere ad un’altra
memoria tanto che, a volte, quel sogno ricorrente in cui ero un
pescatore mi sembrava l’unica ed incontrovertibile verità. Nella
noia delle giornate passate nel silenzio scalfito dal ronzio del
motore ero arrivato a pensare che ciò che stavo vivendo poteva
essere una specie di morte, che magari ne esistevano tante diverse,
che forse ero trapassato durante il raid nel deposito e che tutto
quello che stava accadendo non avrebbe mai avuto una conclusione, ma
mi sbagliavo: perché quando venni trascinato giù a forza, pelle e
ossa, mezzo cieco e quasi sordo, fui investito da un’aria gelida
che mi tolse il respiro e notai che il paesaggio intorno era
ricoperto da una sostanza bianca che precipitava dal cielo, sotto i
miei polpastrelli ne avvertivo la consistenza farinosa e bagnata.
Eccomi lì, tremante, con un’ombra al mio fianco in attesa che la
porta davanti a noi si aprisse, ecco, poi, il battente che cigolando
si spalanca ed io che entro in un altro mondo, io che, semplicemente,
non ero già più io.
Questa è la stanza dove ho vissuto per un tempo che non saprei
definire perché, a dirla tutta, non ho mai capito cosa sia il tempo:
E questo è stato quello che ho imparato a considerare Il Mio
Padrone:
Lui stesso aveva un Padrone e spesso ci riunivamo tutti insieme
facendo cose che non riuscivo a capire e che mi impedivano di
dormire. Non avevo più un nome, non ero più Lalo, me ne avevano
dati altri molto strani come posacenere, rottinculo, mangiammerda,
succhiacazzi, frociobastardo, leccapiscio. Il ricordo di lei, davvero
liso e flebile, era ciò a cui mi aggrappavo anche se il pensiero di
morire era divenuto un agognato desiderio, sì, non pensavo alla
morte, la desideravo.
Cicatrici/Ferite/Pustole/Tagli/Sperma/Sputi/Calci/Bruciature/Siringhe/Vibratori/Fruste/Urla/Urina/
Peli/Croste/Sudore/Diarrea/Zecche/Vomito/Sangue/Denti/Vermi/Lingue/Guanti/Divaricatori/Tacchi/
Abrasioni/Catene/Museruole/Cinture/Morsi/Capezzoli/Bile/Strap-on/Collari/Pus/Manette/Cerume/
Dildi/
Ho imparato che quanto accade di notte non appartiene a me, per
questo non sono sicuro se quello che è successo ieri mentre dormivo
sia frutto di un’allucinazione o meno, di certo ho avuto paura. È
cominciato con un lontano tump-tump, mi è parso per un attimo che
qualcuno si trovasse nella mia stanza, ma in realtà il rumore
arrivava dal muro laido e gonfio di umidità, era come se dall’altra
parte vi fosse un congegno elettrico ad un passo dalla detonazione,
invece, con assoluta naturalezza, d’improvviso un rettangolo della
parete è scivolato nello spazio attiguo ed un caldo fascio luminoso
mi ha raccolto da terra per farmi planare verso il chiarore della
fessura trasformandomi nel gamete maschile di mio padre diretto in quello di mia madre, rinascere non per rinascere ma per chiudere
finalmente un cerchio o aprirne un altro, ritornare al passato che è già futuro e
sciogliermi nelle miriadi di esistenze che circolano e si
incrociano come girini nello stagno dell’eternità.
O
Sette anni dopo.
Sono di nuovo nel villaggio ma non c’è niente che io riesca a
riconoscere.
I nostri fantasmi prendono il caffè in cucina e guardano il
centrotavola pieno di petali secchi e profumati, io, in lacrime e
ossa, cerco di non fare rumore. Cerco di non provare dolore.
Il magazzino dove sono nato è un cumulo di macerie dal tetto
sfondato, intorno sono state costruite delle nuove abitazioni ma
questo mio mausoleo personale non è ancora del tutto scomparso, da
fuori è possibile vedere dei ciuffi verdi che sbucano dall’uscio.
Sono piante di patate.
Non penso a niente in particolare. Solo durante quegli strani
dormiveglia ho l’illuminante consapevolezza che tu, anche se magari
con il cuore stretto da altre mani, mi stai pensando.
Non ci sono nemmeno più pesci qui. Alcune imbarcazioni abbandonate
con le chiglie ricoperte di viscido muschio dondolano attraccate alla
banchina dove aspettavamo il crepuscolare rientro dei pescatori. Dove
sei finita? Ti ho immaginata mille volte venire a cercarmi dopo
quella notte, avrai visto il sangue e forse il corpo esanime di
alcuni dei miei fratelli trucidati, allora sarai salita sulla collina
in cerca di conforto nell’infinità del mare e ti sarai messa a
piangere esattamente come sto facendo io adesso, annuso un vento che
spererei sapesse di te e che pettina l’erba circostante. Il cielo è
azzurro e anche io, dentro, mi sento azzurro.
La figlia di una coppia che spesso invitavamo a cena mi ha visto per
strada senza riconoscermi. Sono cambiato. Ho perso molti capelli e
sono dimagrito. Perdere, perdere e ancora perdere. Il senso non
ammette interpretazioni ulteriori: prosciugati, inaridisciti,
disidratati, fossilizzati, mummificati. Ci siamo poi incrociati
nuovamente pochi giorno dopo, mi ha riconosciuto e con una punta di
stupore ha chiesto che cosa facessi lì, allora le ho spiegato che
ero tornato.
Poi sono sceso lungo il declivio della collina.
Anche se è primavera mi piace ancora appoggiare la schiena al
calorifero. Quando la lavatrice finisce la sua corsa vorticosa tiro fuori dal cilindro d’acciaio la copertina di pile che è quasi
asciutta.
E sono giunto sulla spiaggia ocra.
Riciclo le buste della spesa infilandole in una specie di pupazzo
cavo appeso vicino al contatore della luce.
La sabbia è ancora umida, mi ci sono adagiato sopra guardando
l’orizzonte che è mare, che è orizzonte che è di nuovo mare.
Lavo i piatti sempre. Sempre. Non mi piace lasciarli ammucchiati nel
lavello.