lunedì 23 aprile 2018

Spira Mirabilis

Ecco, se vogliamo far partire le argomentazioni del caso attraverso il metodo comparativo viene facile pensare alla relazione sussistente tra L’infinita fabbrica del Duomo (2015) e Spira Mirabilis (2016), non tanto perché il primo è l’estensione di una porzione del secondo quanto perché il lavoro incentrato sulla Cattedrale lombarda ci “serve” per esaltare le qualità del documentario successivo dove infatti viene completamente abbandonato qualsiasi espediente didascalico (alla lettera: nella Fabbrica comparivano ogni tanto delle didascalie esplicative non in linea con il progetto), ne consegue immediatamente che lo spettatore è obbligato a porsi domande di natura ontologica verso il film, verso il cinema e verso se stessi, ammesso che si voglia rintracciare una distinzione fra le tre istanze. Che cosa è dunque Spira Mirabilis? Si può tergiversare rispondendo che è, senza dubbio alcuno, l’apice della ricerca artistica condotta dal duo D’Anolfi-Parenti, ma, come dire, è troppo poco: qui ribolle una sostanza viva, sconosciuta, un qualcosa che solo in poche delle innumerevoli visioni sostenute negli anni si è potuto riscontrare, casi isolati ma accomunati da uno studio sulla verità delle immagini, su quello che c’è dietro e su cosa ci si può costruire intorno, per la coppia registica una storia quintuplice, anche se probabilmente la fertilità narrativa è talmente ampia da moltiplicare esponenzialmente i racconti proposti in un intreccio avvolgente che si rifà alle basi della settima arte, nella semplicità l’accostamento di immagini e suoni apre universi che sono tesori e che con ammirata disinvoltura coniugano la cosmogonia con il microscopico lavorio del quotidiano.

Forse sarò un po’ limitato ma mi sembra che Chris Marker continui a rimanere una luminosissima stella polare per i suoi colleghi di oggi, e se vogliamo rimanere in tema di suggestioni Spira Mirabilis ha una non dissimile attitudine ad appaiare il viaggio planetario alle connessioni intrafilmiche di The Human Surge (2016) oltre che, sebbene solo in brevi porzioni, la capacità di affabulare per mezzo di quel mix che oscilla tra cinema epistolare e materiale d’archivio proprio di autori come Vincent Dieutre, Yaël André, Eric Pauwels e chissà quanti altri. Quindi sembra palese che l’area di riferimento dal quale la regia ha attinto sia in linea con i dettami di un assorbimento e correlata rielaborazione della realtà, ci vuole un po’ di tempo per consapevolizzarsi del flusso messo a disposizione, ma chi scrive assicura che una volta settati sulle frequenze del film è difficile voltare lo sguardo: è una roba profonda, non descrivibile a parole come per tutte le proiezioni esperienziali, che si occupa di introdurci in una serie di cicli, esatto: è la ciclicità che forgia l’opera, la sua osservazione da punti di vista differenti e al contempo convergenti per merito di un equilibrio prezioso, quell’integrazione delle sterminate diversità in un movimento riunito e omogeneo che, quasi ogni volta, tocca fino alla commozione.

Non so se nell’insieme del “ciclo” si possa davvero inserire qualsiasi elemento presente in Spira Mirabilis, dall’abbraccio interpretativo pare che alcune entità sfuggano, non importa: nel complesso processo ci viene recapitata un’idea di ripetitività cava e feconda, generatrice di riflessioni filosofiche e forse perfino politiche che sfiorano con punte di delicatezza il nostro vivere, e lo fanno pur non parlando direttamente né a noi e né di noi, prendiamo la Turritopsis nutricula (per puro caso ne avevo parlato qua, e, senza voler essere presuntuoso, mi sembra che in quel pezzo vi sia qualche briciola delle intenzioni di D’A&P) e raffrontiamola alle parole dell’indiano nel finale, all’infinito posto al fianco della finitezza umana, alla concezione di una possibile e perpetua rigenerazione che oltrepassa i fermi valori di vita/morte e di memoria (collettiva)/ricordo (singolo). La famosa citazione della legge di Lavoisier continua ad essere uno smisurato recipiente di significati.

Infine merita di essere citata La sommità: dopo aver assistito al lungo iter realizzativo dello hang, una prassi meticolosa e segnata da precisi step, se vogliamo perfino noiosa da vedere, d’improvviso osserviamo la conclusione del suo percorso (la musica) e l’inizio di un altro (l’esistenza dei minuscoli neonati nelle incubatrici), un contatto tra gli anelli di una catena interminabile che lascia delle tracce indelebili negli occhi e nel cuore.

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