giovedì 5 aprile 2018

Georgica

L’enigma mi avvolgeva prima della visione di Georgica (1998): Sulev Keedus, un totale sconosciuto, il cinema a cui il regista si riconduce, quello estone, che ad esclusione delle più recenti produzioni di Veiko Õunpuu era un mondo ugualmente ignoto, le Georgiche di Virgilio, non pervenute dall’archivio della memoria scolastica, e a fine visione l’enigma rimane, ma è un mistero diverso, più denso del banale nozionismo: che cosa abbiamo visto? Credo innanzitutto che all’opera di Keedus qualcosa manchi, e che accidenti sia “qualcosa” non saprei dire, magari uno sguardo davvero meditativo, una confezione di più alto livello estetico, perché sebbene un’estetica Georgica ce l’abbia, anche piuttosto definita, non è abbastanza da fargli compiere quel salto nell’estatico, nello spazio madreperlaceo della contemplazione. Dal qualcosa che manca ad un qualcosa che c’è e che è altrettanto complicato da identificare, con un occhio al cinema sovietico ed un altro a quello europeo della brace arde ed erutta ogni tanto, sbuffi lavici che accendono e quasi incendiano: l’atmosfera sospesa, l’impressione di un-luogo-a-parte, l’atemporalità, la surrealtà, quanti elementi che riempiono la cavità-spettatore, non del tutto comunque, ripeto: la non piena sazietà, è lì che si giunge.

Concentrarsi sui due fuochi principali: il ragazzino (che non reciterà mai più) ed il vecchio monaco (attore già al tempo di lungo corso, lo ritroveremo in The Temptation of St. Tony, 2009), è chiaro (probabilmente l’unico aspetto su cui c’è da scommettere) che si tratta di due figure sovrapponibili, come due disegni diversi ma identici nell’anima, entrambi sono tormentati dal passato e Keedus non lesina strappi ricorsivi di pura analessi, quadri seppiati che fanno defluire il passato nella narrazione (e molto belli perché più “estranei”, più laterali, i flash africani) e che com-baciano l’umanità del duo confermando il sentore che emerge durante la proiezione, al capolinea esistenziale di uno corrisponde la genesi dell’altro (finalmente la voce esce), con la vita che diventa davvero un rebus: “mamma non so dove andrò”: una barchetta fra la nebbia.

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