lunedì 30 aprile 2018

Way of the Danube

Amenità rumena: non chiediamo sempre un trattamento alla Pedro Costa o alla Sylvain George in materia di immi/emigrazione (in realtà lo chiediamo eccome, dentro di noi sappiamo che vorremmo vedere il loro cinema ad oltranza), ma, suvvia!, questo Calea Dunarii (2013) firmato da Sabin Dorohoi bazzica ahilui i lidi di un Silent River (2011) qualunque, quindi: necessità di una storiella da raccontare e lisciamento estetico, ché le rocce innevate a picco sul Danubio son belle e suggestive in quanto tali, ma di un tocco registico non v’è traccia. Dorohoi focalizzandosi sulla frase che chiude il corto e che fa anche da tagline, “tre milioni di romeni lavorano all’estero. I loro bambini vengono lasciati a casa”, imbastisce un lavoro molto troppo ordinario che punta a fare leva sull’innocenza del figlioletto sempre in attesa del ritorno genitoriale da Vienna. Ben appunto, la figura del bimbo, contornata da personaggetti posizionati ad hoc (l’amichetta del cuore, il buon nonnino), pur facendosi amabile fulcro narrativo non riesce comunque a mascherare del tutto un’assenza di vera ricerca e di concreta voglia nel tematizzare un argomento che è effettivamente atroce nonché traumatizzante per tutti questi piccoli “orfani” rumeni, semplicemente Dorohoi fa quello che è un po’ la rovina del cinema: si ferma alla patina, come se la superficie della confezione pulita e ordinata possa essere ritenuta il punto di massima profondità concettuale.

Al solito, e purtroppo chiedo scusa per l’ennesima ripetizione, è la letteralità degli eventi filmici ad ammorbare la visione, l’ostensione della spiegazione è un implacabile stantuffo che livella il prodotto e che prosciuga ogni rivolo interpretativo. Su un topic similare si è espresso anni prima l’ungherese Bálint Kenyeres con Before Dawn (2005), un titolo che ben esemplifica la percorribilità di una direzione opposta a quella scelta da Dorohoi e da un’infinità di suoi colleghi, perché è sufficiente un muto primo piano a spalancare le porte ad un ipotetico flusso informativo ben più convincente delle didascalie dell’arte sedata. Il finale, peraltro identico a quello di Georgica (1998), non lascia indifferenti, ma solo perché per la prima volta il regista spegne il pilota automatico e abbandona la sua creatura nelle spire dell’indeterminatezza, miniatura di quelle volute che si fanno instabile approdo per lo spettatore affamato di Visioni.

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