mercoledì 18 aprile 2018

El Movimiento

Siamo nel 1835, in Argentina, durante un periodo che sullo schermo viene indicato di anarchia e di peste, però, ed è un però che in termini valutativi pesa parecchio, è come se fossimo altrove, anzi è come se fossimo dovunque, ubiquamente, questo avviene perché El Movimiento (2015) si autoastrae dal proprio contesto temporale preferendo vagabondeggiare in peripli dove il mare è stato risucchiato dalle secche crepe della pampa, è, a mio modo di vedere, un film davvero interessante che sa coniugare due visioni artistiche contemporanee, quella di Lisandro Alonso (c’è, e non solo, la location di Jauja, 2014) e quella di Albert Serra (per il suo sottrarsi alla Storia pur partendo da essa), ma che possiede una personalità piuttosto forte dove le diverse sostanze che compongono l’opera trovano un’unità difficile da definire perché difficile, senza alcuna accezione negativa, è seguire l’andamento filmico, e di ciò va reso onore al regista Benjamín Naishtat che non ci mette molto a guadagnarsi la nostra attenzione, l’incipit, infatti, è incisivo e squaderna una situazione che pur non essendo troppo aderente a quanto succederà dopo riesce a dettare fermamente la misura della visione: vi è della sporcizia (riprese epidermiche, strette, soffocanti) e della purezza (il bianco e nero, quando ben utilizzato, illumina più dei colori), si è, insomma, divisi da opposte impressioni che derivano da un variegato ventaglio di opzioni tecniche, sì, El Movimiento è indubbiamente un film in cui si registra tutta la manodopera che sta dietro, però non possiamo lamentarci, quando si annota una discreta intraprendenza - soprattutto strutturale - allora ben vengano le intensificazioni del caso.

Si accennava ad un diffusa difficoltà nello stare dietro alla narrazione, a parte che non dovrebbe mai esserci alcuna necessità di seguire un percorso logico in certe tipologie di cinema, Naishtat posa comunque nel suo labirinto di immagini sottilmente diaboliche un filo d’Arianna che parrebbe condurci più lontano di quanto potremmo pensare. La frammentarietà degli eventi, corroborata in alcuni frangenti da un montaggio a singhiozzo crivellato da stacchi sul nero, si riconduce ad un macro-evento, o forse sarebbe meglio dire ad un macro-tema, che è quello della propaganda, dell’indottrinamento, del reclutamento, bisogna filtrare gli accenti stravaganti e gli slalom autoriali, bypassare l’ingannevole stagnazione dei fatti e osservare il tutto con una lente esegetica che si apre al generale, solo così si potrà vedere nel comportamento del carismatico capo (interpretato da un fenomenale Pablo Cedrón, visto secoli fa in The Aura, 2005) un modo di fare ascrivibile a quello di altre “guide” che si vendono come salvatori dell’umanità: la violenza è il primo elemento per svettare e imporsi (e l’omicidio dell’anziano, nelle tenebre della casa, merita tanto), la dialettica è indispensabile per il proselitismo, e, ovviamente, il male sono loro, noi siamo il bene, ed anche il flirtare con istanze spirituali, pagane e non (la parentesi con lo sciamano è la controparte di quella col prete), rientra nell’immaginario popolare che si ha di un leader. Inaspettatamente il regista ritrae una figura prettamente politica che non ha uno specifico legame con l’epoca di riferimento, può essere ieri, oggi e domani in qualunque posto del globo terracqueo, e basta ascoltare le dichiarazioni degli avventori dopo il magnifico comizio scespiriano del finale per trovarci di fronte a delle interviste televisive fatte a gente comune ma traslate in una dimensione fittizia e quasi anacronistica. L’ultima lode la spendo sul sonoro, distorto, elettronico, industriale, lontanissimo dall’apparente clima western ma prospiciente all’abisso che si distende poco più in là, a Lynch piacerebbe assai per accompagnare l’entrata in scena di qualche suo personaggio mefistofelico.

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