lunedì 31 agosto 2009

Tetsuo II: Body Hammer

Secondo capitolo di quella che si accinge a diventare una trilogia coi fiocchi vista l’imminente uscita di Tetsuo: The Bullet Man (2009) al prossimo Festival di Venezia.

E ancora ferro, di nuovo, uguale e diverso.
Fili aggrovigliati, matasse inestricabili, tubi e metallo.
Quattro anni dopo Tetsuo (1989), Tsukamoto riprende con inaudita violenza il tema a lui così caro della trasformazione. Grazie ai proventi ottenuti con Hiruko the goblin (1991), il regista giapponese aumenta la qualità degli SFX che raggiungono un livello altissimo per essere un film del ’92. Inoltre abbandona quel b/n sgranato in favore di un allucinogeno blu slavato.

Non saprei dire con precisione cosa accade in Tetsuo II, il film corre più veloce della trama e della nostra percezione: quando finisce si è ancora a metà. Quello che ho potuto appena intuire è stato uno Tsukamoto tanto spietato, nel smembrare il figlio del protagonista, quanto visionario nella caratterizzazione dei personaggi, soprattutto quella dei villains che sembrano partoriti dalla mente dei fratelli Wachowski.
Come nel primo episodio è il desiderio di vendetta a muovere i vari personaggi, ma questa volta il presente si lega (con un filo di ferro) al passato. Nell’irrazionalità del tutto la necessità di vendicarsi risveglia nel padre la sua natura originaria, assopita ma mai estinta. La natura è ciò che fonda e identifica, ci differenziamo dagli animali perché pensiamo il nostro pensiero, ma Taniguchi non è solo un uomo, è un’arma. Un’arma umana che vive d’istinto, come suo fratello.

Dal mio punto di vista Tetsuo II è un film così proiettato in avanti che ancora adesso, a distanza di diciassette anni, è quasi impossibile stargli dietro, caratteristica, quella di anticipare i tempi, ascrivibile solo ad una mente geniale. Consiglio allora di godersi le immagini frenetiche, convulse fino a togliere il respiro, e di non ricercare obbligatoriamente un sottotesto che credo ci sia, ma che è celato in un labirinto di ferro e ruggine in cui è meglio perdersi che ritrovarsi.

venerdì 28 agosto 2009

Il diamante bianco

Venticinque anni dopo Fitzcarraldo (1982) Herzog ritorna nella sua tanto amata (e odiata) foresta sudamericana per riprendere le gesta di un uomo che si iscrive di diritto nel lungo elenco degli eroi folli herzoghiani: Graham Dorrington ingegnere aeronautico inglese col pallino del volo che condivide con i suoi “simili” la stessa follia, lo stesso slancio vitale rinvenibile già nel patriarca di tutti gli squinternati di Herzog, quel soldato Stroszek che impazzito sparava razzi sulla cittadina di Kos nel meraviglioso Segni di vita (1968).

L’occhio silenzioso del regista immortala, ancora una volta, il sogno di un uomo ed i suoi limiti che tenta di valicare, del rapporto intimo con la natura che a volte si ritorce contro e a volte è preziosa alleata. Sono anni che Herzog propone queste storie, eppure gli riescono (quasi) sempre alla grande.
Nei suoi documentari la verità del reale è sempre affiancata da una verità della finzione (ma può essere vera la finzione?) per cui nel documentare ci si imbatte in una messinscena, in un qualcosa che va dalla semplice inquadratura al più complesso dialogo che non è vero, che è finto, che è fiction. Dubito che la piccola diatriba tra Herzog e Dorrington sia spontanea, piuttosto aiuta ad intensificare la realtà aumentando la suspense per il primo volo del dirigibile. Si è grandi registi anche così.

Ma Herzog è grande perché riesce a trovare spesso e volentieri personaggi straordinari le cui storie sono quasi più interessanti del film in questione. Penso subito al bambino sordo-cieco di Paese del silenzio e dell’oscurità (1971) o al vecchietto imprigionato per non so quanti anni in Kalachakra - La ruota del tempo (2003). O Herzog ha un culo incredibile, oppure è un fenomeno nello scouting. Questa volta tocca ad un nativo del posto, Marc Anthony, malinconico per la lontananza della madre, che conosce a menadito le proprietà terapeutiche delle erbe e ha per migliori amico un gallo. Barbarossa, questo è il suo soprannome, non è poi così diverso da Dorrington, entrambi condividono la stessa pulsione di volare, lo stesso incontrollabile desiderio di riallacciare il filo col passato: per lo scienziato il volo concluderebbe finalmente la missione in cui morì il suo amico Dieter e per l’indigeno segnerebbe l’ipotetico ritorno da sua madre in Spagna. Il primo c’è riuscito a realizzare il suo sogno, per il secondo non lo saprò mai, ma voglio immaginarmi di sì, che Marc Anthony abbia volato oltre l’oceano col Diamante Bianco fino a Malaga per riabbracciare la sua famiglia. Oppure no, che non serva l’oceano, ma solo passare attraverso la cascata e infilarsi nella tana dei rondoni, forse lì lo spazio non esiste e quella telecamera che gira in tondo riportandoci al camion di Stroszek o ai nani che hanno iniziato da piccoli smette il suo giro infinito e penetra nell’ignoto della caverna. Herzog ha visto cosa si nasconde laddietro, magari la famiglia di Marc Anthony.

giovedì 27 agosto 2009

Qualcosa che non concilierà il sonno

Trattasi dell’ultimo film di Varo Venturi, autore di Nazareno (2007), sulla cui uscita c'è ancora un velo di mistero, neanche la Deus Film, la casa produttrice, dà informazioni specifiche sul sito.
Il film è, a mio modo di vedere, potenzialmente interessante perché affronta il tema delle abductions seguendo le teorie di Corrado Malanga. Ora, sull’operato del professore non metto il naso anche perché non ne so niente, ma quando sento quello che dicono i suoi pazienti sotto ipnosi regressiva, io sinceramente un po’ addosso mi cago.
Ah, il titolo è 6 giorni sulla terra.

mercoledì 26 agosto 2009

Dentro


Lo chiamano il neo della bellezza. Appoggiato sopra il labbro, ogni tanto fa capolino dal bavero del giaccone, altre volte s’infradicia dell’acqua del bicchiere.
Sarebbe stata splendida anche senza, e lui se ne compiaceva, la mostrava orgoglioso come un trofeo, era sua e a lei andava bene.

Però.

“Ci ho pensato bene, è meglio che ci lasciamo.” Forse per noia, forse per gioco, le parole di lui uscirono dalla sua bocca così. Mentre si allontanava con le mani in tasca sentiva lo sguardo umido sulla sua schiena.
“La vita continua”. Frasi fatte, luoghi comuni, proseguì per la propria strada, cocciuta: “Chi non mi vuole non mi merita”, ci avrebbe scritto uno striscione, si accontentò di salvarla nelle bozze del telefono, insieme ad un “mi manchi”, sono solo bozze intanto.
“Tanto torna, è mia.” E squilla, e squilla, e squilla. Niente da fare, era convinto, forse si sbagliava, quanti dubbi: “Magari ha un altro”, passavano i giorni, le settimane, anche i mesi, ed il telefono continuava a squillare. Guardava le foto fatte assieme e poi i video al mare, e poi.
“Sto bene, sto bene.” Lo ripeteva agli amici, ai genitori, e a se stesso per convincersi. Divorato dai sensi di colpa: “Perché l’ho lasciata?”, si nutriva di briciole: “Dove l’hai vista?”, “In centro?”, “Con chi?”

[…]

“Ma sì, cosa vuoi che m’importi adesso.” Passava un anno, che è lungo, ma è come un secondo: trecentosessantacinque giorni a pensarla e altrettante notti a sognarla, vivere di ricordi non è facile, forse si starebbe meglio senza.
Una mattina lui si alzò dal letto come sempre, triste. Fece conchetta con le mani e buttò un po’ d’acqua sul suo viso, poi si specchiò, accese la luce per vedere meglio, si avvicinò al riflesso per essere sicuro di non stare sognando, e vide che sopra il suo labbro era comparso un neo. Un piccolo neo.
Solo in quel momento capì che una piccola parte di lei gli era entrata dentro.

lunedì 24 agosto 2009

Il disco volante

Prima di dedicarsi con estrema attenzione alla parte anatomica femminile per antonomasia, Tinto Brass girò una decina di lungometraggi che spaziavano dalla commedia allo spaghetti-western, passando per il documentario politico. Insomma, la fissazione per il culo ancora aveva da venire.
Il disco volante è un film del ’64 finanziato da Dino De Laurentiis il quale volle mettere alla prova l’allora giovane Brass che per la prima volta si trovava di fronte ad una produzione non indipendente. E la mano del produttore napoletano si avverte subito leggendo il cast: Alberto Sordi, Monica Vitti e Silvana Mangano, praticamente il meglio sulla piazza a quel tempo.
Nel film Sordi interpreta non uno, ma bensì quattro personaggi diversi: un prete ubriacone, un brigadiere tonto, un impiegato filosofo e il figlio gay di una contessa. Neanche a dirlo è proprio l’attore romano che regge in piedi una vicenda dove lo sbarco dei marziani è solo un astuto pretesto di Brass per mettere in luce l’arretratezza della provincia veneta.

Non solo degrado sociale, ma anche comportamenti eticamente discutibili. Tutte le classi del paese, dalla contadina alla contessa, hanno smarrito la propria morale, e così se la prima segrega in casa un marziano, ecco che la seconda glielo compra per puro sfizio personale, infatti l’ET verrà gettato nel pozzo. Nel mezzo ci sta un prete che preferisce l’osteria al pulpito, un impiegato che non ci pensa due volte a tradire la fiducia del sindaco, ed un brigadiere sbeffeggiato dai superiori che gli impongono di avviare un’indagine sugli alieni per appurare che non esistono. Ma soprattutto c’è una società ottusa spaventata dalla diversità: piuttosto che dare adito agli avvistamenti degli ufo, soffoca queste voci con l’elettroshock. Certo, l’atmosfera della pellicola è goliardica e scanzonata, ma Brass non le manda troppo a dire, e per il regista se c’è qualcuno di cui aver paura sembra non venire dal cielo...

La regia è… come dire… rustica al punto di sfiorare la sperimentazione, fatta di inquadrature traballanti e controcampi repentini che non sono una meraviglia a vedersi ma che conferiscono alla pellicola una piacevole genuinità. Gli effetti speciali, se così possono essere chiamati, si limitano ad un paio di luci e antenne appiccicate ad un “disco volante”, eppure, grazie all’ironia, mi viene quasi più credibile questa rappresentazione che quella di Bagliori nel buio (1993). Il make-up degli alieni è provocatorio, e in particolare quello di una marziana con i seni di vetro sembra il primo segnale del Brass che verrà.

Non cercate ne Il disco volante un film di fantascienza perché rimarrete delusi, piuttosto drizzate le antenne sulla denuncia sociale del sottotesto, e se anche questo non vi garba pensate che c’è Sordi, forse il vero alieno.

venerdì 21 agosto 2009

Nove regine

Film argentino del 2003 diretto da Fabián Bielinsky, che fu remakato appena un anno dopo in salsa hollywoodiana da Gregory Jacobs col titolo Criminal.
Le nove regine del titolo alludono a nove preziosissimi francobolli capitati nelle mani di due truffatori da quattro soldi, Marcos e Juan, che tentano di vendere ad un riccastro europeo appassionato di filatelia. La strada per arrivare ai soldi è piena zeppa di ostacoli, ma alla fine qualcuno si arricchirà.

La costruzione dei due personaggi principali, il timido Juan e l’astuto Marcos, permette al colpo di scena finale di ribaltare l’impressione dello spettatore. Questo perché la percezione che si ha dei protagonisti appare irreversibile per tutta la durata della pellicola. Le varie scenette in cui Marcos si dimostra più intraprendente del titubante Juan, non fanno altro che montare un’idea personale dei due truffatori, idea che verrà puntualmente smontata alla fine. E ciò è bene, perché quando un film riesce a stupire significa che ha fatto il suo sporco lavoro.
Il finale legittima automaticamente delle situazioni altresì inverosimili come la donna sull’ascensore o il fatto che il miliardario voglia farsi la sorella di Marcos così dal nulla.
Il film gioca sul filo dell’inganno e della fiducia, suggerendoci quel vecchio detto per cui fidarsi è bene non fidarsi meglio: una banalità, ma ciò che è banale spesso è vero, e infatti Bielinsky alla fine ci frega alla grande.

Buon lavoro degli attori, in particolare di Ricardo Darìn che ha la faccia perfetta dell’imbroglione, e discreto il suo doppiatore italiano.
Qualche dubbio su Gastón Pauls, è praticamente inespressivo, nella parte che recita ci sta, spero che questo non sia un suo marchio di fabbrica, tra l’altro ha partecipato a Che – Guerriglia (2008) di Soderbergh. Bene anche gli altri tra cui spicca la sorella di Marcos, interpretata da Leticia Brédice che ha avuto una parte in Tetro (2009) di Coppola.

Faccio la Mara Maionchi della situazione: per me è sì.

mercoledì 19 agosto 2009

E l'anima d'improvviso prese il volo

18/07/1917 - 18/08/2009

Europa

Capitolo finale della trilogia europea trieriana iniziata con L’elemento del crimine (1984) e proseguita con Epidemic (1988). Al pari di queste due opere, Europa si presenta con una fotografia smorta costruita su un b/n che stinge nel grigio scuro. Roba strana, alla von Trier dunque.

La storia è quella del giovane americano Leopold che si trasferisce dallo zio nella Germania post-bellica perché spinto dal desiderio di fornire il suo contributo nella ricostruzione del paese natale. Lo zio gli trova un posto come addetto alle cuccette per la società ferroviaria Zentropa, di cui conosce la famiglia proprietaria invischiata in loschi affari con i Lupi Mannari, nazisti irriducibili che vogliono fronteggiare l’occupazione americana. Leo finirà in un grosso pasticcio.

Una trama così lineare viene raccontata dal regista danese in maniera talmente criptica da risultare a tratti esasperante. Non è solo la lentezza della vicenda che contribuisce ad allontanare lo spettatore, ma anche la forma complessiva che presenta particolari belli a vedersi ma superflui nella sostanza.
Mi viene in mente l’ipnosi (leitmotiv della trilogia). Quale è il motivo di quella voce fuori campo che simula una seduta ipnotica? Non ho risposta, se non quella di considerare la voce come un escamotage per risolvere alcuni impicci filmici.
Che dire poi della già citata fotografia… Troppo troppo tenebrosa, scura, è quasi fastidioso vedere il film senza mai staccare gli occhi. Per fortuna ogni tanto ci sono brevissime sequenze a colori molto riuscite e dannatamente ben girate (la mdp che riprende sott’acqua il vecchio che si taglia le vene regala allo spettatore un’immagine fantastica con il sangue rosso che si sforma nel liquido). Ma è troppo poco, non ce la fanno queste scintille ad illuminare il buio.

Mi pare di capire che un po’ tutta questa trilogia sia caratterizzata da una ricerca stilistica maniacale: nel montaggio, nel sonoro, nelle inquadrature. Ma manca di quel perno imprescindibile su cui quasi sempre si giocano le sorti di un film: il racconto. Non che Europa sia un film “muto”, ma quel che dice lo dice in maniera disinteressata, coinvolgente quanto un sussidiario di Storia. Probabilmente chi è dentro il mondo del cinema, e con esso si guadagna il pane da portare a casa, riuscirà ad apprezzare Europa molto di più di chi questo mondo lo vede soltanto dal di fuori, come me.
Il primo von Trier è didattico nel maneggiare la mdp, ma è così inesorabilmente freddo…

martedì 18 agosto 2009

JCVD - Nessuna giustizia

Bello!
Sorpresa lieta ed inaspettata per un attore che conosco poco ma che si è cucito addosso la fama di duro anche per chi come me l’ha visto in pochissimi film.
Mabrouk El Mechri non fa un film con Van Damme, ma SU Van Damme, e forse anche PER.
Come l’attore belga ha sottolineato, JCVD è l’opera più importante della sua carriera, vero e proprio punto di svolta per un curriculum fatto di ruoli troppo simili tra loro di cui il buon Jean-Calude non vuole più sentir parlare: “ D’ora in poi farò solo film che mi soddisfano”, e infatti Sly ha dovuto incassare un secco no per quello che si preannuncia il film più tamarro degli ultimi dieci anni: The Expendables (2010).

In JCVD un Van Damme al verde si trova in Belgio, luogo giusto per un nuovo inizio, con l’avvocato da pagare per il processo di custodia della figlia. Trafelato, si reca in un ufficio postale per un pagamento, ma qui s’imbatte nel gruppetto di delinquenti che rapinano l’ufficio e prendono in ostaggio i clienti, usando Jean-Claude come specchietto per le allodole facendo credere alla polizia che sia lui il sequestratore.

Probabilmente questo lungometraggio sarà da mettere sempre in fondo alla filmografia di Van Damme perché rappresenta un po’ il suo testamento artistico. L’attore sembra voler dirci che dietro la maschera dell’eroe scolpito dai muscoli c’è anche un uomo fragile con le sue eterne paure, ma in questa debolezza reale l’eroe filmico pare essersi ritagliato un suo spazio che emerge nel finale quando riesce a ribellarsi dalla morsa del rapitore.
Quindi l’uomo-debole (realtà), e l’uomo-eroe (finzione). Qual è il vero Van Damme?
Come sempre la verità sta nel mezzo, e lo si evince dal toccante monologo di leeiana memoria (ma tutta la vicenda mi ha portato ai lavori di Spike Lee) in cui Van Damme si eleva dall’ufficio postale per mettersi a nudo di fronte alla mdp, in una sequenza che trascende i confini invalicabili della diegesi. In questo monologo l’attore si confessa dritto negli occhi dello spettatore raccontando la sua vita in cui ha conosciuto il dolore della povertà, le arti marziali, il successo e la droga. E lui è tutto questo, in bilico fra l’essere un padre “sbagliato” (finzione?), ed un karateka infallibile (realtà?).

Dolceamaro, JCVD, è davvero un buon film anche dal punto di vista della regia che nella prima parte utilizza un montaggio in grado di mostrare gli stessi eventi da vari punti di vista diversi dando così più ritmo alla storia. Poi vabbè, il fulcro di tutto è Van Damme, al pari di Randy “The ram” in The Wrestler (2008), questa è la sua storia, il suo film, la sua parabola.