domenica 31 maggio 2020

Human, Space, Time and Human

Che bello, un nuovo film di Kim Ki-duk da massacrare. E da dove iniziare se non dalla prima, terrificante, mezz’ora, in cui assistiamo ad un’inguardabile presentazione dei personaggi in scena, anche se “personaggi” è un attributo troppo generoso, al massimo coloro che Kim piazza su questa nave-arca possono essere definiti delle fastidiose figurine, uno stuolo di pupazzi a cui il regista non si sogna nemmeno lontanamente di dare una dimensione, niente, zero, aiuto: la creazione in scala ridotta della società che contrappone chi ha il potere e chi lo subisce è di un posticcio che nelle vesti di spettatore senziente mi sono sentito insultato, e come se non bastasse ecco grandinare luoghi comuni neanche fossimo in Italia sui politici, frasi fatte, gente che scopa a caso ogni cinque minuti, episodi totalmente immotivati di violenza. Uno scempio. Io davvero mi chiedo come sia possibile che questo regista ormai letteralmente fuori controllo venga ancora invitato nei Festival (per Inkan, gongkan, sikan grigo inkan [2018] fu Berlino), forse l’ho già detto ma se fossi un suo collega presente alla kermesse mi sentirei oltremodo in imbarazzo (oltre che incazzato con gli organizzatori per avere accolto una roba del genere). Perché Kim da Moebius (2013) in poi ha compiuto una regressione assurda in fatto di qualità, e non parlo di idee (anche quelle parecchio latitanti), ma di professionalità, il digitale così usato appiattisce tutto, è una pialla che rende l’estetica di un dozzinale, di una sciatteria che è un dolore per gli occhi, ed il film in oggetto non sfugge al crollo in termini formali, mi spiace Kim ma è uno schifo, tutto: le premesse ultra-scolastiche, l’evoluzione della trama, ripetitiva (ma quante vole vediamo gli attori osservare attraverso gli oblò?!), confusa, banale. No, no e ancora no.

Mi viene in mente una cosa un po’ triste: tanti anni fa Kim aveva girato un altro film in mezzo al mare, era L’arco (2005), dolcissima favola sulle transizioni dell’età, e invece adesso che cosa abbiamo? Una metafora urlata ricolma di inutile brutalità che oltre a raccontare l’ovvio (ma dài, i più forti prevaricano sui deboli? Che notiziona!) si incarta in una robaccia esistenzialista senza capo né coda dagli echi religiosi. Tralasciando le idiote baruffe tra gli sgherri del politico e gli altri passeggeri col culmine puramente esibizionistico del cannibalismo, raschiando il fondo del barile troviamo il vecchio silenzioso che si guadagna un briciolo di attenzione proprio perché è l’unico soggetto in scena a non essere illuminato dai riflettori; ad un certo punto qualcuno dei sopravvissuti si chiede se non sia Dio, probabilmente nella delirante visione di Ki-duk il vecchio ha un ruolo equiparabile, se così è, si tratta, sempre per il pessimista KK-d, di una divinità spietata che avvalla una mattanza in cui ci rimettono tutti, vittime e carnefici, pur di dare una speranza al futuro nel grembo della donna (c’è solo un micro slancio degno di menzione, un residuo di lirismo: i cadaveri usati come concime). Anche se poi il nuovo virgulto non si rivelerà tanto diverso dal padre (chiunque dei tre stupratori sia, perché, visto il maneggiare dell’arma e l’allungare le mani sulla madre, dubito che sia figlio del marito accoltellato) visto che Kim è un nichilista duro e puro e non ha più alcuna fiducia nell’umanità. L’origine di tutti i problemi, comunque, non si dà mai nel cosa si vuole esporre quanto nell’esposizione stessa, per il Kim Ki-duk recente questa è una piaga a ’sto punto insanabile, il suo è ormai un cinema grossolano, vetusto, che si ostina a ricercare uno shock con metodi sorpassati che al massimo producono ilarità e non turbamento.

E la tristezza continua a veleggiare: come non vedere nella ciclicità del titolo il contrappeso di Primavera, estate, autunno, inverno... e ancora primavera (2003)?, sembra passata un’eternità. Ciao ciao Kim, ci vediamo alla prossima débâcle, nel frattempo spero tu riesca a sistemare un po’ la tua vita, magari ne gioverebbe anche il tuo lavoro.

venerdì 29 maggio 2020

DAU. Nora Mother


IL PROGETTO DAU

C’è un folle che si aggira per la Russia, questo folle si chiama Ilya Khrzhanovskiy.
Tra il 2009 (ma alcuni siti riportano il 2008) ed il 2011 allestisce in Ucraina, presso la città di Charkiv, una gigantesca struttura che ricrea in maniera certosina un fantomatico Istituto sovietico (è la riproduzione di un centro di ricerca segreto ubicato a Mosca che fu attivo dal 1938 al 1968), in un’area di riprese da oltre dodicimila metri quadrati che pare si sia guadagnata la nomea di set più grande d’Europa (e si presume anche del mondo) dove, attraverso un poderoso sforzo produttivo tra Europa e Russia, ha costruito una specie di realtà parallela perfettamente abitabile, vivibile, si dice infatti che centinaia e centinaia di “attori”, divenuti tali poiché parte concreta del progetto ma entrati dentro ad esso come tecnici, scienziati, filosofi e via dicendo, abbiano vissuto per davvero all’interno di questa ciclopica
Synecdoche, New York in salsa stalinista (e quindi abbiano indossato gli abiti d’epoca e mangiato e bevuto cibi di quel periodo) facendo sì che la distanza tra ciò che erano ed il ruolo che interpretavano si assottigliasse fino a svanire. Non è chiaro con quali modalità ma ci sono molti nomi di celebrità anche al di là dell’universo cinema che hanno fatto parte di DAU: Gerard Depardieu, Marina Abramović, Willem Dafoe, Charlotte Rampling, Brian Eno, perfino il nostro Carlo Rovelli che, insieme a Gianluigi Ricuperati (lo scrittore dall’esperienza ne ha tratto il romanzo Est edito da Tunué nel 2018), rappresenta la quota italica. Il titolo di questo esperimento cine-sociale prende il nome dal fisico Lev Davidovič Landau perché nell’idea iniziale Khrzhanovskiy voleva semplicemente (?) fare un biopic su di lui, ma il risultato che ne è conseguito parla di circa settecento ore complessive di girato tanto che sul sito ufficiale (link) si contano tredici film (ma sarà corretto definirli film?) che plausibilmente verranno pian piano resi disponibili. Facendo un passo indietro, il primo contatto tra DAU ed il resto del mondo avviene, dopo numerosi annunci e altrettante smentite, a Parigi il 24 gennaio 2019 con una mega video-installazione che coinvolge il Centro Pompidou insieme a due teatri parigini, qui Khrzhanovskiy proietta a ciclo continuo il suo ciclopico blob in un diorama sovietico che a sua volta rimanda a quello dell’Istituto, un articolo apparso sul Sole 24 ore ne parla come di un “flop colossale”. Un anno dopo le prime due parti di DAU vengono presentate a Berlino ’20. Qualunque cosa sia DAU, se un film, un’opera d’arte contemporanea o una mastodontica baggianata, sarà comunque una pietra angolare con cui si dovrà fare i conti, probabilmente la sfida cinefila più esaltante degli anni venti.
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DAU. NORA MOTHER

Si iniziano a comprendere i contorni del pannello espositivo pensato per DAU, è plausibile che di tutti i vari pezzi dell’epico progetto ve ne saranno alcuni improntati a raccontarci una complessa universalità che abbraccia un cospicuo numero di temi (vedi DAU. Degeneration, 2020) mentre altri si occuperanno più della singolarità di un personaggio (vedi DAU. Natasha, 2020). Mettendola così è facile capire dove poter collocare DAU. Nora mama (2020), la Nora del titolo non è altro che la moglie di Landau, quindi, si penserà subito, finalmente ci sarà un focus su colui che dovrebbe essere il protagonista principale? No, non proprio, Ilya Khrzhanovskiy continua ad eludere l’aspettativa biografica, qui il centro della scena se lo accaparrano la consorte e la suocera, il grande fisico nato a Baku, seppur presente, è assente, fantasmatico, accigliato, stanco, in sostanza è come se non ci fosse. Cronologicamente torniamo indietro negli anni, il Dau che ritroviamo non è il vecchio decrepito di Degeneration ma uno scienziato nel pieno della carriera che vive con la moglie ed il figlioletto in un appartamento dell’Istituto, l’elemento di disordine introdotto dal regista è rappresentato dalla madre di Nora invitata a passare qualche giorno con la coppia. All’interno del solito allestimento realistico le tensioni famigliari emergono in maniera abbastanza efficace, la madre ha funzione di coscienza critica che rompe l’illusorio idillio coniugale, si percepisce, per la prima volta, unattenzione al set che oltre ad essere la precisa ricostruzione di un’epoca è anche attributo che integra la storia, la casa è grossa ma spoglia, vuota, fredda (l’assenza di calore viene più volte ribadita), una specie di metafora della relazione proposta. Abbandonata la brutalità, i rimandi socio-politici e le riflessioni scientifico-filosofiche, Nora Mother assume, inaspettatamente devo dire, i contorni di un melodramma da camera, un Kammerspiel per pochi intimi concentrato sul rapporto madre-figlia che nella torrenziale conversazione lunga praticamente quanto l’opera stessa diviene una seduta di autoanalisi emotiva che invade Nora di dubbi e paure.

Siamo in presenza di un episodio “minore”, non vi sono riferimenti alle attività dell’Istituto né a quelle di Landau, l’azione, per così dire, si svolge nel chiuso ambiente domestico (ad esclusione di qualche immagine esterna innevata), se si accetta la natura ancillare del film che, al pari degli altri, si subordina al mastodontico disegno di Khrzhanovskiy, è possibile vederlo come una deviazione intima e quindi umana dai macro-argomenti che presumibilmente attraversanoo in toto il gigante-DAU, in tal senso non abbiamo altra scelta che non sia quella di volgerci verso il magmatico legame tra mamma e figlia, viste le premesse concettuali non stupisce il fatto che il tasso di verità sprigionato dalle due si riveli piuttosto alto, sia quando si scontrano fino alle scintille sia quando si arrendono reciprocamente ad una forma d’amore che ribolle tipicamente nei consanguinei, più che altro, vedendo i movimenti in attacco della madre, gli arroccamenti in difesa della figlia, le rese, le crisi di nervi, l’odio e gli slanci sentimentali, entrambe tendono ad assomigliarsi così tanto da essere l’una la versione dell’altra divise soltanto dallo scorrere del tempo. È una faccenda nota, le colpe dei genitori, insieme agli errori e ai sogni disillusi, ricadono sulla prole che non inverte l’andazzo, anzi, ne incrementa l’irreversibilità agli occhi di chi ha procreato, sicché Nora, ad un certo punto, si trova a ragionare su di sé e su Landau, sull’incertezza amorosa nei riguardi del marito, il che, in fondo, rende la pellicola una sitcom stalinista che, se vogliamo un po’ alleggerire la questione, ha anche qualche momento che con altri registri sarebbe ilare perché usa qualche stereotipo del settore, tipo il coniuge a cui pesa la visita della suocera o quest’ultima che priva di freni inibitori fa la ramanzina al genero appena sveglio.

C’è però un altro aspetto su cui vale soffermarsi un attimo, Nora Mother è, dei tre film finora visionati, quello che si disallinea un poco dalla teoria filmica di Khrzhanovskiy. Nel vorticoso impianto realtà vs. finzione qua ci sono dei paletti più fissi: innanzitutto, impressione soggettiva, c’è minore spazio per l’improvvisazione, i novanta minuti di girato risultano studiati al punto da far pensare ad una sceneggiatura capace di dettare delle linee indirizzanti, non che la cosa pesi perché in generale la naturalità delle situazioni spicca intonsa, però in confronto alle altre manifestazioni dauiane delle divergenze d’impostazione ci potrebbero essere. Ma comunque non è questo il punto, di base bisogna asserire una stupidaggine, ovvero che inevitabilmente, quando Landau è in scena, fa capolino un’inevitabile falsificazione per evidente impossibilità di avere il vero scienziato sullo schermo, idem per la moglie. Sembrerà una stronzata però in Natasha e soprattutto in Degeneration era incredibile il fatto che i vari fisici ed esperti fossero davvero tali anche nella vita vera e che il loro coinvolgimento nella finzione provocava un grande buco nero percettivo. Il fatto che Dau sia impersonato da Teodor Currentzis, un direttore d’orchestra ateniese che si è affermato in Russia, e Nora (all’anagrafe della Storia Kora) da Radmila Schegoleva, unica attrice professionista del cast, fa perdere qualche grammo di stupore all’assetto edificato da Khrzhanovskiy, sebbene, per dovere di cronaca, va segnalato che l’interprete della mamma di Nora si chiama Lydia Shchegoleva il che fa supporre che sia la vera madre di Radmila, giusto per non venire mai troppo meno al proprio credo.

E dunque, si continua con l’esplorazione di DAU? Perbacco sì! Avanti con il prossimo: DAU. Three Days (2020).

mercoledì 27 maggio 2020

Fragments

C’è un’incontrovertibile evidenza in Fragmenty (2014), ovvero che la regista Agnieszka “Aga” Woszczyńska ha voluto creare un rimpallo estetico-emotivo tra lo scenario ripreso ed i sentimenti ormai ai tempi supplementari di una agiata coppia polacca. La ricorsività ambientale degli interni abitativi (sia la casa dei protagonisti, sia quelle che la donna mostra ai propri clienti) proietta sul e nel film stesso un’atmosfera da astronave smarrita nelle profondità dell’universo: non c’è calore in questi spazi grigiobianchi, luoghi regolari e autoptici che arrivano, probabilmente, dagli sguardi spietati di Haneke e Lanthimos. Non male quindi la paletta di colori sbiaditi che compone il quadro esterno e, di riflesso, anche quello interno: il malessere della moglie è tale: apatica e umorale, nervosa e glaciale, a partire dal suo aspetto fisico, quasi fosse un’albina (esattamente come il marito), per proseguire con i comportamenti che tiene, verso il coniuge e verso gli altri (la chiusura del corto è proprio dedicata a ciò, ad una piccola esplosione viscerale immediatamente sedata dall’igloo che ingloba entrambi). Certo è che: quante relazioni in disfacimento ci ha mostrato il cinema nel corso della storia? Una moltitudine incalcolabile penso, ne deriva che, manco a dirlo, se si voleva lasciare davvero il segno sarebbe stato necessario un approccio alla materia di ben altro livello, cosa un po’ complicata per una semi-debuttante.

Ma vabbè, Fragments, che a quanto pare rappresenta il “graduated film” della Woszczyńska, può farci interrogare proprio sul significato del titolo, infatti i frammenti citati oltre ad essere quanto rimane del rapporto sentimentale sono anche il metodo di trasmissione adottato nella narrazione, non c’è una precisa linea consequenziale ma una serie di scenette adibite ad evidenziare il distacco incolmabile tra gli sposi, la limpidezza non è garantita (il segmento all’interno dello strip club, realtà o sogno?) ma si comprendono comunque le intenzioni perseguite, allestire una sfaccettata idea di crisi mostrandone i relativi disturbi: la noia (sul divano davanti alla tv), l’invidia (verso la felicità delle altre coppie), la routine (le sedute di jogging), i sospetti (le domande sulle prostitute). Ancora: non vi è granché di sconvolgente nella suddetta analisi relazionale, diciamo che il tatto generale riscontrabile in una forma elegante e coerente con il tema di interesse non provoca forti avversioni, per la memorabilità ripasseremo un’altra volta da Agnieszka Woszczyńska.

lunedì 25 maggio 2020

Jedné noci v jednom městě

Dopo The Secret Adventures of Tom Thumb (1993) porto alla vostra attenzione un altro oggetto animato altrettanto sommerso e altrettanto godibile, questa volta siamo in Repubblica Ceca ed il direttore d’orchestra, tal Jan Balej, nella terra del più importante regista d’animazione alternativa d’Europa (… del mondo?), Jan Švankmajer, sembra aver recepito bene l’arte dell’asso praghese, in Jedné noci v jednom městě (2007) c’è molto dei suoi lavori più famosi (le avventure dell’alberello ricordano affettuosamente il mitico Little Otik, 2000) ma c’è anche molto, o almeno un po’, di caratura specifica e personale, la situazione è all’incirca così: anche se non ne abbiamo visto tutti gli esemplari, sappiamo che alcuni rami del cinema animato servendosi della stop-motion sanno tinteggiare i film con altri colori, più scuri, sporchi, forse anche più malinconici rispetto alla classicità, lo sappiamo eppure quando ne incontriamo qualcheduno sulla nostra strada il piacere di assistervi non viene mai meno. Forse il sottoscritto parteggia troppo per prodotti del genere in cui è fin facile rintracciare imperfezioni a iosa e, ad essere cattivelli, assetti estetici un filo derivativi, ma c’è poco da fare a mio avviso, opterò sempre per una costruzione della scena così “casalinga”, fantasiosa, e, ogni volta, resterò ammaliato dalla composizione generale che mi renderà uguale ad uno dei personaggi del film sotto esame, felice come un fanciullo di fronte alla propria ricostruzione circense con insetti morti.

La conformazione dell’opera è tripartita con l’ultima porzione che si scompone a sua volta in tre ulteriori sotto-scenette, non vi è una connessione tra i vari episodi tanto che Balej avrebbe anche potuto presentarli singolarmente (e magari sono stati pensati così per poi venire assemblati solo successivamente). Sebbene non vi sia un filo conduttore narrativo sono comunque possibili da individuare dei tratti addensanti, e sarà banale iniziare dalla tecnica utilizzata ma il passo uno del regista piace, cioè ragazzi, è divertente, non lesina bizzarrie e si lascia dietro una sottile cifra macabra che Tim Burton si sogna, in subordine vi è una tristezza agrodolce che anestetizza il film, e non è che lo addormenti, lo fa semplicemente librare in un cielo notturno (come il magnifico elefante nuota nell’aria stellata), lo vela di una magia da fattucchiera dove l’incantesimo è povero ma il risultato, all’opposto, è ricco. Ecco, una cosa che mi piace davvero tanto è che sussiste un contrasto notevole tra la materia prima che sostanzia la pellicola (pupazzi, marionette, oggetti quotidiani) e gli esiti che si ottengono, ovvero il frutto di un lavoro manuale che stride con l’imperante computer grafica e che perciò si ritaglia una calda nicchia in cui mi acciambello volentieri. Sono cose che ho già detto, pardon, ma sono cose, tuttavia, così significative da farmi andare giù anche una natura episodica non proprio bilanciata (a mio avviso la triade di storielle conclusive, forse perché maggiormente brevi, convince meno), di certo lo spaccato condominiale e il tenero racconto d’amicizia tra l’albero ed il pesce esemplificano al meglio che cosa può avere questo specifico tipo di animazione: sicuramente un grazioso avvicendarsi di dettagli che proprio ti riconciliano con il tuo Io ludico (le “scarpe” dell’albero!), e poi una scorciatoia per arrivare quel tanto che basta a intravedere un concetto di *meraviglia* che anche da adulti non smette di sorprenderci, ma soprattutto il suo stare nelle retrovie, nelle cantine umide, nelle soffitte impolverate, il suo essere diverso dagli altri o forse il suo essere, e basta.

sabato 23 maggio 2020

κατάβασις

STATUE
Quando chiudo gli occhi vedo fiche, solo fiche, un turbinio di fiche: pendule, arrossate, immonde, atre, callose, purulente, cancrenose, slabbrate, impelosite, sfrattagliate, prolassate, deturpate, mi accerchiano con il loro afrore, mi vogliono inglobare per soffocarmi dentro quelle pareti cavernose e bagnaticce, sono ovunque, svolazzano, strisciano, boccheggiano a centinaia, ma so che lì in mezzo, la tua, di fica, non c’è, quando il cielo riapre il suo occhio felino un riflesso dal tapetum lucidum turchino saetta verso l’escremento secco che si riscalda sopra ad una sdraio di plastica in mezzo ad un giardino disordinato, quell’escremento sono io, e lei non è troppo lontana, è giusto nell’altro giardino, quello oltre la strada pedonale, protetto da una cancellata che qualche inquilino precedente ha ricoperto con dell’edera finta, la mia di edera invece è vera e per fortuna nella sua lenta avanzata perimetrante ha lasciato scoperto un buchino nel quale poggio un periscopio trasparente che mi permette di vederla da quaggiù, da questo abisso pieno di statue sul fondale che implorano la luce a braccia alzate, e io so che lei sta arrivando quando sento un tintinnio di chiavi che puntualmente tira fuori dalla tasca poco prima di infilarle nella toppa del portoncino di metallo, poi non la vedo più, i capelli biondi spariscono al di là del rampicante plastificato, e allora osservo la consistenza fecale che mi dà forma e odore, senza-forma puzzolente, scarto, deiezione sciolta che frigge sotto il sole di mezzogiorno, delle mosche, attirate dal prelibato banchetto, ronzano ossessionate fino a quando la voce di mia madre, da lontano, dice che è pronto e allora mi muovo lentamente lasciando una scia di muco marrone sulla quale le mosche si avventano golose, giro la manopola di ottone della portafinestra, l’occhio cosmico del gatto si è già rivolto altrove, ora, sopra di noi, rimane il buio.
La signora del quarto piano, cenciosa e giuliva, sempre addobbata con suoi pizzi da centrotavola che mette sulle spalle, cenciosa negli innumerevoli strati di abiti che porta addosso anche in estate, sa di caramella Rossana, sempre, un tripudio zuccheroso la precede ed ectoplasmaticamente la fa presente anche se non c’è, il suo appartamento è di marzapane, la cassapanca, antichissima, di puro cioccolato fondente, i suppelletteli, le carabattole che popolano ogni ripiano disponibile sono meringhe finemente lavorate, e lei ride, con molti più denti dei quali è normalmente dotato un essere umano, e cammina sulle dita dei piedi che sono agili come le dita di due mani che suonano il pianoforte, le dico che sono venuto da lei perché mamma mi ha detto che il computer le fa le bizze e io, che non so aggiustare i computer, sono stato spedito lì perché anagraficamente dovrei essere in grado di farlo, così mi siedo alla scrivania ricoperta di una glassa appiccicosa e accendo un vecchio pc che ronza stanco, la signora del quarto piano arriva con un vassoio pieno di pasticcini impiramidati, simulo impegno e dedizione nel lavoro che non so fare mentre allungo il collo dalla finestra e guardo giù, che poi è sempre un su, e riguardo giù, nel suo giardino, che da lì è giusto un rettangolo piastrellato e attendo con speranza di vederla comparire, la ventola del computer si accende, comincia a fare un rumore del diavolo, ecco, dice la signora che spunta con un’enorme torta alla panna, fa sempre così, ma io rispondo che non vedo niente, controlla meglio ragazzo mio, e ingolla un bicchierone di sciroppo alla menta, controllo meglio: la porta che dà sul suo giardino si apre, il mio cuore si ferma, la ventola aumenta di intensità i giri, il case trema tutto facendo vibrare delle foto ritraenti gelati e ghiaccioli appese alla parete, appare un paio di jeans strappati dentro ad un busto largo e squadrato, e due braccia, grosse, muscolose, tatuate da ghirigori che arrivano al collo, ventola in fusione, terremoto in atto, attenzione, terremoto in atto, allontanarsi immediatamente dall’edificio, ripeto, allontanarsi immediatamente dall’edificio. Be’ signora, purtroppo credo che non ci sia più niente da fare. Ma come? Che peccato!, gradisci un po’ di sacher appena sfornata?
Me aquilone, me palloncino di elio, vi prego tagliatemi il filo, fate sì che io possa ascendere, salire in alto non per evitare di vedere un altro uomo che esce dalla sua casa, ma per non essere visto, per svanire indolore nel taglio verticale che se ne sta lassù, nella pupilla allungata del gattone astrale e accedere così nel suo cervello, nella materia spugnosa sopra la quale orbitano miliardi di pianetini che instancabili, a loro volta, ruotano intorno alle loro piccole lune, seguendo le leggi di una fisica sconosciuta, attraverso onde celebrali, onde gravitazionali, onde di un mare che mi trascina leggero, me essere non più essere, e quindi volteggiare libero, planando sopra le biglie azzurrognole che compongono questa parte di universo gattesco, riempendomi dei colori di altre vite che vedono giusto un’ombra veloce passare sopra le teste, bevendo dai loro cuori, dormendo nelle loro anime, me spugna, me imbuto, me grondaia, sentire che tutto possa convergere nel nulla che sono, sentire, semplicemente, tutto, venirne invasi, in un divenire continuo dove la speranza ha il sapore della prima persona che hai baciato nella tua vita e dove la paura del futuro è lo studio di un notaio che ti riceve con la cravatta blu, volare, ancora, altrove, raccogliendo la voce spezzata di un centenario che vede già il suo angelo seduto sulla poltrona davanti a lui, accarezzando la nuca di un neonato dal cranio sottilissimo e traslucido che lascia intravedere altri universi e altri mondi, e vivere, me non vivente, nelle esistenze degli altri per farle un po’ mie, per cercare di capire il senso di un universo di cui posso diventare il centro, il punto in mezzo agli occhi del gatto dove il suo pelo tigrato forma una M, esattamente nel vertice basso tra \ e /, nell’ipocentro pieno di giardini, siepi, aiuole, roseti, gazebi, alberelli di limone, ginestre, bouganville, sediole, barbecue, vasi, terriccio, ma anche solo un pavimento di piastrelle lisce, un asciugamano, una Coca-Cola, della musica sputata fuori da uno smartphone, poi, nell’immensa volta celeste, nel gatto-galassia, la voce di mamma si espande solenne, è la voce di un dio minore che dice di alzare le chiappe che è pronto, e allora io riparto, me boomerang, me povero me, all’indietro, in una regressione spaziale che mi vomita fuori, uno scarto interplanetario che spurga dall’occhio felino come una lacrima, come una caccola attaccata ad un lungo filo che mi fa rinculare ad una velocità inumana, di nuovo lì, nel cielo conosciuto, sopra i tetti conosciuti, un inesorabile ritorno casalingo che mi rinchioda alla sdraio, me deiezione, me merda rinsecchita e ricoperta da biondi ciuffi setolosi, me stoppa. A tavola, minestra, un lago verde e denso da dove affiorano misteriosi relitti, impugno il cucchiaio, il dorso della paletta riflette la mia faccia, e la mia faccia riflessa, non la mia, dice che quel cucchiaio mi servirà.
E scavo scavo scavo scavo, il cucchiaio solleva la terra che mi butto alle spalle tracciando continui archi ocra, più scendo e più – strato dopo strato dopo strato – sento freddo, vermi obesi si affacciano per provare a comprendere il perché di tale trambusto, fossili e conchiglie preistoriche, scheletri di cavallucci marini antidiluviani, scombino un ecosistema madido dove vecchie radici bianche, fini, si reticolano in una profondità che proprio ora – scucchiaiata dopo scucchiaiata dopo scucchiaiata – sto andando a violare. Ho un piano, un piano cristallino, sarà la prima volta che uno stronzo, invece di precipitare giù dal tubo di un cesso, lo risalirà, e quando sarò in casa sua le spiegherò come stanno le cose, quanto è importante per me, che [altri dettagli in seguito...]. E sterro sterro sterro sterro, guardo il gatto-cielo-occhio che è ormai un tondino blu molto più distante del solito, sono alla base della mia torre tumulata, il cucchiaio, piegato a morte, non mi serve più, poggio i piedi sulla calotta cranica del pianeta, sulla dogana dell’ovulo femminile che – scodata dopo scodata dopo scodata – decido di fecondare in quanto aitante spermatozoo dotato di autocertificazione: posso sfondare, e sfonda sfonda sfonda sfonda, al freddo di prima si sostituisce un tepore avvolgente, in pratica scivolo, risucchio, aspiro, ciaociao, sento solo la terra del mio giardino richiudersi seppellendomi, ma io ho oltrepassato la membrana e un suono sonico, veloce e perforante, si diffonde nel cervello che adesso si gonfia e si sgonfia come il mantice di una fisarmonica, pulsa nel cranio, enorme lui e feto io, fulmini globulari esplodono in bagliori d’accecante bellezza, non è che galleggio, non è che volteggio, ma, come sempre, cado, è una vita in verticale la mia, senza ascesa, è un tracollo, forse sto nascendo di nuovo – respiro dopo respiro dopo respiro –, forse sto morendo per la prima volta – destino dopo destino dopo destino – [… che condivideremo, che le lascerò i suoi spazi, che la rassicurerò, che sarò discreto, che ci penserò io, che avremo tempo, che faremo un mutuo, che saremo soffio e non un comune tarassaco]. E invece stramazzo al suolo in una pozza colliquativa alta tre dita dall’odore nauseabondo circondato da stelline luminescenti, ovvero occhi di topi. Bene, sono nelle fogne.
Dai mie calcoli il suo condotto di scarico deve trovarsi a circa dieci o quindici metri da qui, probabilmente, visto da quanto sto camminando in questo pantano maleodorante, i miei calcoli sono sbagliati, nel frattempo ho stretto amicizia con un abitante del luogo, un dotto sorcetto occhialuto che dice di chiamarsi Psicopompo, e io gli dico: che nome è? E lui dice: chiamami Psichy, e quindi cammino con Psichy che non smette di ricordarmi di come lui e i suoi simili siano vittime di ottusi pregiudizi popolari, a me sta bene, però gradirei capire perché ’sto posto sembra più un labirinto invece che una fogna, ad ogni svolta c’è una galleria, ad ogni galleria un’altra svolta, vorrei solo andare da lei mi lascio scappare, e il mio nuovo amico arriccia il musetto aggiustandosi gli occhiali, sento che sta per dire qualcosa di importante, e infatti dice che non sa chi sia questa lei, che qua sotto non c’è nessuna lei, che sto fresco a pensarci, che, afferma un po’ contrito, non sa mica se riuscirò a mettere il naso fuori, be’, questo non è molto confortante Psichy, ma allora dimmi: perché hai deciso di accompagnarmi? E il topo dice: oh, è molto semplice, di mestiere faccio la guida turistica e sono qui per fare il mio lavoro, ovvero mostrarti le bellezze del posto, al che chiedo quali bellezze del posto visto che ho l’acqua di una latrina fino alle caviglie, ma la risposta me la dà un’insegna al neon intermittente che dice DIORAMA#1 con sotto una grossa vetrata almeno quattro per quattro, e Psichy dice: guarda, e io guardo: oltre la vetrata c’è una camera da letto, la cassettiera, i comodini, l’armadio, tutto design anni ’80, sul letto c’è un tipo che scopa una tipa da dietro, sono immobili, non respirano, Psichy ripete: guarda, e io guardo: quelli sono mamma e papà, lo penso solo ma il saggio roditore comunque replica: sì, sono loro, ah, e allora chiedo: e allora? E allora questo è l’inizio, aggiunge. Il mio inizio suppongo, abbastanza fico, però, senza voler insistere troppo, ribadisco il concetto: io sono qua per risalire su per un tubo e spiegare due cose ad una certa persona, ma il mio nuovo amico non mi considera nemmeno e aumenta il passo con quelle ditine rosa che mi ricordano le dita della signora del quarto piano, sicché aumento anche io la velocità e quasi non vedo una famigliola di altri roditori che sta prendendo il tè al tavolino: buonasera, dico, forse mi dicono altrettanto, non lo so, corro, urlo: ehi Psichy, fermo! E lui: ma se sono qua, un qua che sta dietro di me, sullo spigolo di una svolta che supero per vedere un’altra scritta: DIORAMA#2, di nuovo un vetro, all’interno un bambino seduto sopra una barella con un ginocchio sbucciato, il bimbo indossa un grembiule nero con un fiocco blu intorno al collo, piange, o meglio, so che sta per piangere perché quel piccolo studente sono io e ricordo bene lo sgambetto di un compagno più grande che mi fece ruzzolare nel cortile della scuola di fronte a intere classi che ci misero un attimo a puntare l’indice verso il sottoscritto sganasciandosi dalle risate, francamente questi dioma... questi diorma... insomma queste cose non mi piacciono troppo Psichy, gli dico, al che il topo quasi si risente: come puoi affermare ciò? Sono la quintessenza della tua specie, una bellissima galleria di memorie, presto andiamo alla prossima, e sgattaiola via che, per un ratto, sgattaiolare è un bell’ossimoro ma vaglielo a spiegare a quel sapientone e mi rimetto a rincorrere, ed è una corsa lunga, davvero lunga, dura ore, o giorni, sono debole e ho fame, bevo dell’acqua che spurga dal muro, sa di zolfo, due puntini rossi brillano laggiù in fondo, sono gli occhi della mia guida: sbrigati lumaca!, ed ecco l’insegna DIORAMA#3, questa me la aspettavo, abbastanza prevedibile, sì, c’è la navata centrale di una chiesa e sotto l’altare una bara, in realtà quella bara non l’ho mai vista davvero perché a dieci anni avevano deciso che ero troppo piccolo per poter assistere al funerale di papà, però l’ho immaginata tante volte, e l’ho sempre immaginata così come è oltre al vetro, ma insomma, no, sul serio, ora sono io che accelero, mi sono anche un po’ rotto, lo sciacquettio dei miei piedi rimbomba per tutte le umide gallerie, è un eco abnorme che risveglia migliaia di ratti e rattini creando un nuovo firmamento di stelle rubine, vorrei andare ancora più veloce di quanto sto andando, quasi quasi vorrei dissolvermi nella corsa, e scomparire, ritornare nella condizione che anticipa la nascita, ma invece mi fermo perché non ho più fiato, e sono stanchissimo, le mie gambe tremano, arriva Psichy, trafelato: sei pazzo amico mio? Vuoi che ti o mi venga un infarto? Vieni dài, guarda che bello, guarda DIORAMA#4, un’aula, solo un’aula, grande, l’aula magna della mia università dove ho discusso la tesi, resto fermo a contemplarla, e Psichy chiede: cosa provi? E io rispondo: provo... anzi, ho il ricordo di un sentimento, credo sia nostalgia, il raggiungimento di un obiettivo, la fiducia nel futuro, il rito di passaggio verso un altro periodo della vita, e, fa Psichy: e? E non riesco a capire perché tutta quella vivida speranza è stata poi disattesa, cioè lo so però non ce la faccio ad avere un quadro davvero completo della situazione, è cambiato qualcosa da quando ero un universitario? Questo lo sai soltanto tu, ribatte il topo sebbene io non abbia proferito parola, senti amico, gli dico, non è carino che tu mi legga nel pensiero, ma che vuoi?, dice, voi umani siete un album di patetismo in costante aggiornamento, e così sentenziando zampetta oltre, ancora per queste gallerie che ad ogni passo si alzano come se fossero delle cattedrali e ad un altro passo si rimpiccioliscono come i cunicoli di una miniera, sono stremato, inciampo e finisco con la faccia nell’acqua putrida, per un po’ sto così: seduto nella cloaca, il mio habitat naturale, la mia casa, poi mi rialzo, a rallentatore, e chiedo: ehi Psichy quando terminerà questo stillicidio? E lui: ti stai annoiando? Forse la tua esistenza non è stata troppo movimentata ma ho visto di peggio, e io: ok, facciamola finita ti prego, lasciami qua, ormai non ha più importanza arrivare a lei, guardami: sono un escremento!, e lui: fossi in te darei un’occhiata ancora a questo, e quindi, dal nulla, l’ennesima insegna al neon: DIORAMA#5, ed eccomi lì, che fumo una sigaretta stropicciata appoggiato alla balaustra di un poggiolo che dà su una stradina di un piccolo paese nel sud-est asiatico, l’unico viaggio che ho fatto, l’incontro con l’alterità, l’ubriacatura di altri sorrisi, salive, odori, lingue, e dico: basta Psichy, ti supplico, e lui dice: suvvia, dimmi, chi stavi aspettando affacciato a quel poggiolo? Non ho dubbi a proposito: una dolce illusione, di quelle che ti capitano una notte, e mai più, mai più... mai più... mai più... mai più...
Ora che sono solo, davvero solo, perché Psichy mi ha abbandonato, ora che non ho più nessuno, vago a casaccio in questo labirinto senza Minotauro, anche se, forse, il Minotauro sono io. La fame, il sonno, la stanchezza e qualunque altro bisogno fisiologico è sparito, devo avere superato un certo confine, senza accorgermene. Non so se sono già morto, se lo sarò tra poco, o se lo sarò quando farò parte del DIORAMA#6 che non ha vetro, che mi invita ad entrare, e che è la riproduzione in scala 1:1 del mio giardino. L’annaffiatoio di plastica, gli gnomi di ceramica, il rubinetto arrugginito, l’aiuola malconcia, il casotto degli attrezzi, la mia sdraio, la mia bella sdraio, e sopra di essa un canale luminoso che piove dall’alto in cui balla un pulviscolo aureo. Entro. Arranco. Mi trascino. Mi sdraio sulla sdraio. Proprio sotto il fascio di particelle. Quando apro gli occhi il mio cielo non è più l’occhio del gatto, ma è la tua fica, contornata dallo smalto bianco del water che vedo da quaggiù, e un liquido caldo e giallo precipita lento, senza gravità, sulla mia fronte, scivola ai lati del naso: grazie per avermi dato delle lacrime. E prima che tu finisca, prima che tu ti rialzi, che ti ripulisca con la carta igienica, che ritorni a fare sovrappensiero le normali cose della quotidianità, prima che tu richiuda la tavoletta spegnendo per sempre quest’ultima proiezione che, inconsapevolmente per te, ci lega, prima che, quindi, io venga mangiato dalle tenebre, ti sussurro che

che insieme siamo luce

che insieme siamo un intero

venerdì 22 maggio 2020

Our Daily Bread

Avevo la sensazione che non appena qualcuno comincia a parlare, anche se si tratta di interviste, il pubblico si aspetta spiegazioni e qualcuno da biasimare, e siccome il cibo ha a che fare con tutti, non volevo dare al pubblico una possibilità di fuga, perché hanno tutti la responsabilità di quello che acquistano.

(Nikolaus Geyrhalter da qui)

Unser täglich Brot (2005), ossia “il nostro pane quotidiano”: che è il cibo che compriamo nei supermercati, che cuciniamo a casa e che mangiamo, solo che non c’è lassù un Padre magnanimo a mandarcelo ma lo sforzo di una lunga filiera produttiva che ogni giorno si mette in moto, dall’Austria alla Danimarca, dalla Germania all’Olanda, per portarci in tavola dei pomodori o una fetta di carne, e Geyrhalter, da instancabile osservatore quale è, si posiziona proprio all’interno di queste perpetue catene lavorative, il viaggio, statico solo in apparenza, non è facile, perché come recita la piccola sinossi di IMDb anche noi facciamo parte di tale infinito ciclo e capire se ciò sia giusto o sbagliato comporta un profondo esame di coscienza, e a prescindere dai meriti tecnici che Our Daily Bread ha (più film vedo di Geyrhalter e più ne apprezzo le impostazioni visive), il suo pregio che maggiormente centra il bersaglio è la capacità di aprire un dibattito etico nell’animo dello spettatore. Mi si dirà: be’, è fin troppo facile far porre delle domande a chi guarda sbattendogli in faccia l’uccisione di un vitello che nel momento in cui viene appoggiato quell’aggeggio mortale sulla fronte sembra quasi di percepire il suo terrore, è un ragionamento che mi sono posto e che ritorna spesso in ambito cinematografico, il mostrare tutto è davvero più efficace del non mostrare niente? Credo che nell’area documentaristica una tendenza esibizionistica abbia altre prerogative rispetto ad un lavoro di fiction, per cui, qui, va bene vedere come stanno le cose perché, anche se sappiamo a menadito il significato di un allevamento intensivo o la macellazione di suini, vederli è sempre diverso, ed è, appunto, solo vedendoli che si spalancano interrogativi interni perché c’è, dannazione, qualcosa di sbagliato nell’autoritaria privazione dello status di essere vivente a degli animali indifesi, però, al contempo, capiamo che di quest’immane fabbrica del cibo, ora, non potremmo farne più a meno.

A meno che, a meno che, magari, non si assumano comportamenti e regimi alimentari che si sottraggono al processo sopra menzionato, di sicuro non è il sottoscritto a poter dirimere la faccenda che, lo si capirà, è alquanto delicata, al massimo posso rimarcare che le riflessioni scaturiscono da un impianto filmico assolutamente lineare, non ci sono commenti, né didascalie o interviste di sorta, come accadrà anche per il successivo Abendland (2011), è l’avvicendarsi delle sequenze proposte a parlare per sé e a parlare a noi ed è proprio qua che ritengo si situi la bravura di Geyrhalter, nella posizione neutra che mantiene dall’inizio alla fine stimolando congetture per nulla banali. Ma poi, a dirla tutta, Unser täglich Brot non è solo un’opera che farebbe svenire un animalista, cioè: non è che si occupa esclusivamente di scotennamenti, anzi, la visione è ben più ampia e considera anche prodotti vegetali come le olive e perfino minerali nella suggestiva parentesi che riguarda l’estrazione del sale, è un excursus dal grosso raggio in cui, alla lunga, emerge un tema altrettanto importante che non interessa la materia prima bensì chi la materia in questione la lavora, ogni santo giorno. La panoramica si rovescia senza perdere di interesse: lavorare nell’agroalimentare, sì, ne abbiamo un assaggio, come in una fabbrica i movimenti sono ripetuti fino all’ossessione – prendi il pulcino, rimetti il pulcino, così, per sei ore –, le mansioni da voltastomaco per un qualunque esterno – estrai un vitellino (morto?) dal ventre della madre – diventano normale routine professionale, la teorica empatia verso gli animali – una fila di polli appesi che passa e tu devi sgozzare chi di loro ancora si dimena – sostituita dalla pragmatica necessità di avere un salario.
Non avevo mentito a proposito del fatto che il viaggio offerto da
Our Daily Bread non fosse una passeggiata, al contrario, è un’impervia salita che comunque vale la pena intraprendere.

mercoledì 20 maggio 2020

Choban

Inizialmente Choban (2014) appare come una versione distorta delle visioni di René Laloux, nello strambo contesto in cui il corpulento pastore vive si capta un non so che di riconducibile al maestro francese, probabilmente è lo scenario pseudo-fantascientifico a suggerire ciò, tuttavia una volta che la cagnetta viene rapita dalla losca organizzazione il corto salpa verso lidi decisamente più deliranti emancipandosi così da possibili rimandi (almeno per quanto il sottoscritto può conoscere: comunque pochino nel campo dell’animazione). Ma andiamo per gradi: il croato Matija Pisačić (regista, illustratore e autore di fumetti nato a Zagabria nel 1975) crea una storia a dir poco scombiccherata che dedica a Laika, il primo cane (qui definito bitch, capiremo poi il perché) spedito nello spazio, utilizzando come protagonista uno strano capraio dal buffo design dotato di bastone multitask che usa a mo’ di esploratore nei mondi creati dal suo lievitante estro. C’è indubbiamente del disordine, ma forse è l’inevitabile riflesso delle variegate tecniche realizzative che si scontrano (più che incontrano) all’interno del film, la bidimensione sembra il binario principale tuttavia Pisačić prende ogni tanto delle brusche deviazioni ad un passo dal deragliamento, non si può dire che il risultato complessivo sia “bello”, ma “vivo” lo è sicuramente.

Quanto comprendiamo (sempre ammesso che abbia senso concentrarci sui significati in oggetti del genere) risulta essere con un po’ di buona volontà una sorta di ritratto relativo all’artificiosità del successo, so che Choban andrebbe teoricamente in altre direzioni ma chi scrive ci ha letto cotanto sottotesto, vieppiù che in tal senso la questione si sdoppia perché abbiamo da una parte il pastore idolo delle folle privo però di un vero talento (che sta tutto nel bastone), e dall’altra la cagnetta resa antropomorfa per motivi oscuri che è solo una pedina nelle mani di un potere, entrambi finiscono per essere chi in realtà non sono, diventano un artefatto dato in pasto al pubblico acclamante. Se nelle intenzioni di Pisačić c’era l’idea di muoversi in siffatte riflessioni non ci giurerei, del resto la sovrainterpretazione critica è a volte una protesi dell’indecifrabilità, ma la corsa adamitica del duo nel bosco suggerirebbe una liberazione dalle alt(r)e imposizioni in favore di un futuro da percorrere mano nella mano.

lunedì 18 maggio 2020

Park

Il primo film che mi balza alla mente in relazione a Park (2016), opera prima di Sofia Exarchou, è Montanha (2015) di João Salaviza, e non è solo perché la visione del film lusitano è parecchio fresca, quanto il fatto che i due lavori razzolano nella stessa arena stilistico-semantica con modalità simili (ma risultati diversi) e che ambedue si focalizzano su una gioventù smarrita, abbandonata dagli adulti e paurosamente sola, e tutto emerge attraverso un cinema-verità che è, inevitabilmente, studio del reale, per cui pronti a fronteggiare molta camera a mano ed un correlato abbassamento del livello di finzionalità (e qui ci mettiamo dentro: trama esile, ad un passo dall’insignificante, comparto attoriale “da strada”, musiche pressoché assenti [ciò non vale per la Exarchou che le utilizza sporadicamente per ispessire alcune situazioni]). Ovvio che attenersi ad un registro asciutto non vuol dire automaticamente fare un grande film (infatti anche quello di Salaviza non lo si può considerare una vetta assoluta) e nel caso di Park parliamo proprio di una circostanza del genere, eppure, per il sottoscritto, la miccia che accende (o dovrebbe farlo) la storia ha un suo perché, la Exarchou girando tra i resti del villaggio olimpico costruito in occasione delle Olimpiadi di Atene ’04 erige una serie di connessioni di un certo rilievo, la ciccia è tanta: ecco un Paese, la Grecia, che si trova in ginocchio come le strutture rovinate dall’incuria, ed ecco, in una visione più ampia, il risultato di una specie di colonialismo moderno che sfrutta al massimo il territorio contiguo per poi lasciare dietro di sé soltanto detriti e miseria (si legga qui ciò che è successo in Brasile), e inseriti in un tale contesto i vari ragazzini assumono connotati ectoplasmatici, lottano, gareggiano, sognano di potersi esibire (Anna), si docciano dove un tempo si lavavano gli atleti, ma, nella pratica, sono dei piccoli figli di buona donna senza un euro (fanno accoppiare i cani per racimolare denaro) e senza una scintilla che li tenga davvero in vita, nemmeno l’amore.

La proposta del gruppo di teenager incapsulati in una bolla sorda e lassista da parte della regista è talmente rispettabile da ricordarmi inizialmente il bighellonare inconcludente dei ragazzi di Eduardo Williams in The Human Surge (2016), con lo sviluppo della pellicola però la profondità del collega argentino è un miraggio per la Exarchou poiché proprio dove dovrebbe esserci una spinta decisiva ci si imbatte in un profuso ristagnamento, ovvero abbiamo a che fare con un’idea riproposta più volte che vede la giovane coppia tentare di evadere oltre i confini ingrigenti dell’ex villaggio per poi trovare un mondo non troppo diverso da quello che hanno lasciato, la scena si ripete due volte, in una sono presenti sia Anna che Dimitri, mentre nell’altra solo il marmista in erba, il risultato, ribadito, non cambia: gli esseri umani sono degli idioti che bevono e schiamazzano, però manca della forza per giungere a queste conclusioni, manca manca manca, perché è proprio tangibile l’assenza di certi ingredienti capaci di far sollevare Park dalla mediocrità dei suoi simili, purtroppo, in fin dei conti, quando un’opera non incontra il gusto personale si tende a dardeggiarla servendosi dei cattivi esempi che il cinema ci offre a iosa, sicché, osservando il vuoto peregrinare di Dimitri e le annesse difficoltà relazionali, si annusa immediatamente la possibilità di un picco drammatico che chiuda in nero la vicenda, apice che puntualmente si verifica ma perlomeno senza esagerare, però: c’è predizione, e non va bene, poi: dei passaggi non accendono minimamente (il segmento con lo straniero ubriaco che porta alla conclusione è brutto forte) altri, tutti quelli riguardanti la combriccola di pischelli, risultano troppo insistiti, l’obiettivo di inscenare un’esistenza circolare e aliena scivola nella replica, non c’è sufficiente distacco dalla realtà per trasformare la materia filmica in un flusso suggestionante, e al contempo la realtà catturata non è davvero investente come invece certa settima arte che percorre strade analoghe sa essere. Lasciamo Sofia Exarchou compiere i passi necessari per una plausibile maturazione, se noi saremo con lei in futuro è un dettaglio a cui adesso non abbiamo tempo né voglia di pensare.

sabato 16 maggio 2020

DAU. Degeneration


IL PROGETTO DAU

C’è un folle che si aggira per la Russia, questo folle si chiama Ilya Khrzhanovskiy.
Tra il 2009 (ma alcuni siti riportano il 2008) ed il 2011 allestisce in Ucraina, presso la città di Charkiv, una gigantesca struttura che ricrea in maniera certosina un fantomatico Istituto sovietico (è la riproduzione di un centro di ricerca segreto ubicato a Mosca che fu attivo dal 1938 al 1968), in un’area di riprese da oltre dodicimila metri quadrati che pare si sia guadagnata la nomea di set più grande d’Europa (e si presume anche del mondo) dove, attraverso un poderoso sforzo produttivo tra Europa e Russia, ha costruito una specie di realtà parallela perfettamente abitabile, vivibile, si dice infatti che centinaia e centinaia di “attori”, divenuti tali poiché parte concreta del progetto ma entrati dentro ad esso come tecnici, scienziati, filosofi e via dicendo, abbiano vissuto per davvero all’interno di questa ciclopica Synecdoche, New York in salsa stalinista (e quindi abbiano indossato gli abiti d’epoca e mangiato e bevuto cibi di quel periodo) facendo sì che la distanza tra ciò che erano ed il ruolo che interpretavano si assottigliasse fino a svanire. Non è chiaro con quali modalità ma ci sono molti nomi di celebrità anche al di là dell’universo cinema che hanno fatto parte di DAU: Gerard Depardieu, Marina Abramović, Willem Dafoe, Charlotte Rampling, Brian Eno, perfino il nostro Carlo Rovelli che, insieme a Gianluigi Ricuperati (lo scrittore dall’esperienza ne ha tratto il romanzo Est edito da Tunué nel 2018), rappresenta la quota italica. Il titolo di questo esperimento cine-sociale prende il nome dal fisico Lev Davidovič Landau perché nell’idea iniziale Khrzhanovskiy voleva semplicemente (?) fare un biopic su di lui, ma il risultato che ne è conseguito parla di circa settecento ore complessive di girato tanto che sul sito ufficiale (link) si contano tredici film (ma sarà corretto definirli film?) che plausibilmente verranno pian piano resi disponibili. Facendo un passo indietro, il primo contatto tra DAU ed il resto del mondo avviene, dopo numerosi annunci e altrettante smentite, a Parigi il 24 gennaio 2019 con una mega video-installazione che coinvolge il Centro Pompidou insieme a due teatri parigini, qui Khrzhanovskiy proietta a ciclo continuo il suo ciclopico blob in un diorama sovietico che a sua volta rimanda a quello dell’Istituto, un articolo apparso sul Sole 24 ore ne parla come di un “flop colossale”. Un anno dopo le prime due parti di DAU vengono presentate a Berlino ’20. Qualunque cosa sia DAU, se un film, un’opera d’arte contemporanea o una mastodontica baggianata, sarà comunque una pietra angolare con cui si dovrà fare i conti, probabilmente la sfida cinefila più esaltante degli anni venti. 
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DAU. DEGENERATION
  
La storia si muove all’incirca un decennio dopo DAU. Natasha (2020), siamo nel 1968, anno in cui, nella nostra Storia, il centro di ricerca moscovita chiuderà i battenti, pertanto, fedele in modo maniacale alla sua ricostruzione, anche per l’Ilya Khrzhanovskiy di DAU. Degeneratsiya (2020) quell’anno è l’ultimo per l’Istituto e di riflesso per tutto lo strabordante mondo generato da DAU, ma prima di arrivare a questa apocalittica conclusione c’è molto da dire: non avendo altri appigli se non il precedente Natasha procediamo per comparazione: il primo dato è che formalmente siamo nello stesso registro, peccato: la speranza era che ci fosse una diversificazione tra un prodotto e l’altro, prendiamo nota ed eccoci ancora a fronteggiare un realismo (finto) grezzo fatto di camera in spalla e luci naturali (per la precisione nel campo ottico è stata adottata una vecchia tecnica denominata heliostat che attraverso una specie di gioco di specchi ha permesso di portare la luce in scena), attori non professionisti (evidenzio un aspetto che il sottoscritto ha capito successivamente leggendo vari articoli in Rete: gli studiosi presenti nel film durante il loro soggiorno nell’Istituto hanno portato avanti il loro lavoro come se fossero nella vita reale, anche senza mdp addosso, idem per le persone impiegate nella mensa, in cucina e così via che andavano lì per svolgere una mansione ottenuta dopo vari colloqui, questo è utile per capire fino a dove il progetto DAU si è spinto) e oceaniche conversazioni di gruppo (sembra incredibile ma pare che, ad esclusione di piccoli input forniti dal regista e dai suoi collaboratori, tutto il resto sia spontanea improvvisazione). Il lieve cambio strutturale è dato da un’ininfluente suddivisione in capitoli e da un riuscito commento esterno in inglese proferito dal rabbino Adin Steinsaltz che ci viene presentato ad inizio opera, ciò che inevitabilmente si amplifica è il comparto contenutistico, e non di poco, se Natasha si occupava di un tassello del mosacio, Degeneration è il mosaico stesso, o almeno una buona fetta di esso: con sei ore a disposizione si ha l’opportunità di provare a comprendere i contorni dell’immane disegno globale, la ragnatela di Khrzhanovskiy ci avvolge in spire seriche che spaziano in un tot di discipline, dalla filosofia alla teologia, dalla scienza (anche poco ortodossa) alla sociologia, dall’economia alla politica, una lunghissima lezione (tenuta da veri esperti del settore) a cui si affianca, esattamente come in Natasha, un’attenzione per le interconnesioni umane, con la differenza che qua non c’è più un solo personaggio al centro ma decine e decine le cui vicende vanno a intrecciarsi in un abnorme gomitolo che irreparabilmente ci travolgerà.

Vista la mostruosa mole di soggetti che popolano lo schermo val la pena mettere un po’ di ordine. La notizia riguarda la presenza di Landau, il grande fisico sovietico, colui che porta il nome della cattedrale filmica di Khrzhanovskiy, è qui un vecchietto infermo prossimo alla morte che non riesce nemmeno a parlare, in questi due primi episodi la sua figura non è affatto di rilievo, l’unica nota da rimarcare è la conoscenza che facciamo con la sua famiglia (moglie e figlio che torneranno in DAU. Nora Mother, 2020), di Natasha non vi è traccia (è sostituita da una donna di nome Vika che ha più di una cosa in comune con lei) mentre la collega Olga ricompare in un ruolo marginale dove dimostra di aver fatto carriera. La continuità dell’universo-DAU si manifesta nella riproposizione degli studiosi che operano nell’Istituto, ognuno con una propria linea narrativa, a volte appena abbozzata a volte più sviluppata, dove spiccano un appositamente invecchiato Alexei Blinov (era un ingegnere elettronico deceduto nel 2019 per un tumore al pancreas con una straordinaria faccia da cinema) e un equilibrato Dmitry Kaledin (matematico nato a Mosca nel ’69), il fatto che loro, al pari degli altri colleghi, ci siano trasmette un senso di fidelizzazione non troppo diverso dalla serialità che è in voga oggidì, ovviamente tale affermazione va presa con le pinze però è nel progressivo avvicendarsi di “facce conosciute” che si crea una sintonia nel marasma in cui volenti o nolenti precipitiamo. Ma il vero punto di incontro che come un magnete attira a sé qualunque cosa, sia fuori che dentro DAU, è Vladimir Azhippo, quest’uomo senza collo, inscatolato in una giacca doppiopetto con le spalline che gli dà un aspetto cubico, granitico, è il deus ex machina che domina l’apparato tensiogeno della pellicola. Ne avevamo già saggiato le qualità in Natasha, però qua il suo personaggio si evolve mettendo in mostra un carisma capace di accentrare l’attenzione su di sé in ogni frangente dove si palesa, ci saranno ancora vari interrogatori (o colloqui poco amichevoli) dove dietro l’apparente calma di Azhippo si percepisce il costante pericolo di un’esplosione violenta, è un “cattivo” atipico, ambiguo, spietato ma rispettabile, indubbiamente un ottimo risultato finzionale per Khrzhanovskiy che però ha avuto la fortuna di scolpire un blocco di marmo già dotato di una forma delineata, Azhippo è stato infatti un colonnello del KGB che per oltre vent’anni ha lavorato presso il Ministero dell’Interno ucraino occupandosi di carceri e prigionieri. È morto nel 2017 a causa di un infarto.

Ma perché “degeneration”? In italiano non abbiamo una parola che traduce adeguatamente il concetto poiché “degenerazione” non è di uso comune, si potrebbero usare dei sinonimi dall’ampio spettro semantico dove sono sicuro emergerebbe una tendenza a indicare qualcosa che si guasta, che si deprezza, che perde attributi, che marcisce. In Natasha avevo profetizzato che l’interrogatorio subito dalla donna era un singolo episodio che si rifaceva ad una realtà più grande ed estesa, Degeneratsiya ce ne dà la conferma. Il film è l’esemplificazione di un’opprimente macchina del controllo messa in atto dall’establishment dell’Istituto (che in siffatta ottica va considerata la miniatura di un intero sistema politico), l’occhio socialista arriva ovunque e penetra nelle relazioni personali e sentimentali, per esporre ciò Khrzhanovskiy si ripete e molto, ripete situazioni (quanti pranzi e quante cene vediamo che finiscono in baldoria alcolica?) e ripete le conseguenze (che sia Azhippo o che siano i due sgherri baffuti, chi per gli organi dell’Istituto sbaglia va rieducato con metodi nient’affatto formativi), se si è abbastanza stoici nel superare il congegno reiterativo si spalancheranno le porte di un’oppressione che non può fare a meno di essere reale, una strategia securitaria che non risparmia nessuno, nemmeno il direttore Alexey Trifonov il quale, pur non essendo un esempio di rettitudine, pronuncerà una frase che vale molto: “una persona affronta due tentazioni nella vita: il potere e la libertà. Io preferisco essere tentato dalla libertà”. Nel momento in cui Azhippo sale a capo dell’Istituto (si badi: un carceriere a capo di un laboratorio scientifico) la situazione, permettetemelo, degenera: in una delle assemblee che vengono mostrate si fa cenno ai disordini cecoslovacchi, è il 1968 e la Primavera di Praga è alle porte, il blocco sovietico è lì lì per subire un pericoloso scossone, però i segnali sono endemici, sono proprio dentro l’Istituto, si prendano i party con i giovani studenti con musiche e danze di stampo occidentale, si prenda, anche, il caos che a fine giornata sembra impossessare tutti come se fosse un virus. Il sistema non può accettarlo, soprattutto con Azhippo, impersonificazione di uno stato militare che abolisce la libertà. Ora Degeneration fa sul serio: è un processo che si prende le sue tempistiche, quasi non ci si fa caso ma c’è un istante chiave: quando gli imberbi ragazzini vengono allontanati, subito dopo arriva un gruppo di nerboruti sportivi oggetto di un non chiaro esperimento, questi ragazzi sembrano i giovinetti di prima ma cresciuti e rieducati secondo il volere delle alte sfere. L’esperimento nei loro riguardi resterà nebuloso, ma il progetto di Azhippo, al contrario, si manifesterà in maniera brutale: per frenare il degrado attorniante ci vuole una dimostrazione di forza spietata.

Mettendo, ancora, a confronto Natasha e Degeneration si può dire che nel primo l’escalation di violenza non aveva una forza così impattante, basta avere un minimo di esperienza cinefila per poter proferire “ho visto cose che voi umani...”, nel secondo, be’, è decisamente più difficile liquidare la faccenda ricorrendo al tema del già visto. In D. c’è dietro una costruzione diegetica non paragonabile, la mole di informazioni e stimoli che riceviamo ci può far percorrere innumerevoli strade, non sono un fisico ma vedendo la distruzione conclusiva ho pensato alla parola entropia, non sono uno storico però nella devastazione dell’Istituto ci ho letto la fine dell’USSR, non sono nessuno però le modalità che ci fanno arrivare all’esplosione di disumanità terminale mi hanno fatto sentire qualcuno, un essere umano, appunto, che penso sia ciò a cui Khrzhanovskiy tendeva, un essere umano terrorizzato, e in questi termini perfino la tremenda uccisione di un maiale, una roba che raramente entra nel cinema autoriale (ricordo un precedente con Haneke e quello di una capra con Stathoulopoulos), ha una ragione d’essere, non tanto per l’esecuzione in sé (sicuramente deprecabile) quanto per il meccanismo che la sorregge, un vero e proprio manifesto programmatico che mette in soffocante relazione la realtà con la finzione, è vera la morte dell’animale, è vero lo sdegno dei testimoni, è vera la furia di chi affonda il coltellaccio (si tratta di Maxim Sergeyevich Martsinkevich, criminale neonazista, torturatore e fanatico anti-gay), è vera l’ideologia xenofoba che sta dietro alle domande dei facinorosi. Però, al contempo, niente è vero, e in una tale contraddizione portata avanti per sei ore e che nelle opere seguenti implementerà il bottino del minutaggio, in un tale labirinto concettuale-percettivo, in una tale cappa che spurga follia sia nel profilmico che fuori (pensate: anche la troupe indossava obbligatoriamente abiti d’epoca), io mi ci abbandono senza se e senza ma.

Adesso che Degeneration è finito e con lui anche DAU, perché le prossime visioni saranno per forza antecedenti agli avvenimenti ivi esposti, un turbinio di immagini mi invade: non ho fatto cenno agli esperimenti, si vedono scimmie dentro gabbie di plexiglass, pseudo-sciamani che intonano mantra ipnotici, neonati dentro tutine da sci-fi tarkovskijana, ancora immagini: la mummia-Landau dai capelli impagliati, il seno pieno e tondo della segretaria di Trifonov, il cardigan a rombi di Blinov, il vecchio Palych nudo, degli alunni che cantano una canzone, il gruppetto di fascisti che ricanterà la stessa canzone, tre maiali che vagano in un corridoio deserto... si è sempre detto che con l’affermarsi del cinema contemplativo uno degli effetti da esso derivanti è l’immersione all’interno del girato, il cinema di Khrzhanovskiy si trova all’opposto di qualunque approccio meditativo, eppure la sensazione di apnea non viene meno, nonostante la megalomania che sottende l’intero progetto, nonostante un’ostentata politica esibizionistica, nonostante l’assenza di spunti tecnici e sintattici di rilievo, con la finestra Degeneratsiya abbiamo osservato meglio il mostro-DAU, l’orizzonte è ancora lontano, l’abisso è di una seducente paura.

giovedì 14 maggio 2020

Blind Vaysha

Destino complicato per Vaysha, da un occhio vaticina dall’altro rievoca.

È un animatore d’origine bulgara ma sbocciato artisticamente in Canada di nome Theodore Ushev ad adattare un racconto del suo connazionale Georgi Gospodinov che è, parere personale, un bravo scrittore nonostante la raccolta edita da Voland nel 2008 intitolata … E altre storie, contenente proprio Vajša la cieca (una storia incompiuta), non risulta essere il migliore modo per approcciarlo (se interessa il consiglio è di affrontare l’ottimo Fisica della malinconia, Voland; 2011). Ushev comunque trasporta in maniera efficace l’atmosfera del testo in un ambiente che oscilla tra Kafka e l’iconografia ortodossa, l’impegno sicuramente non è mancato e basta farsi un giro in Rete per raccogliere informazioni che come al solito stupiscono quando si parla di procedure creative, tanto, tantissimo lavoro per appena otto minuti di proiezione. Nello specifico sei mesi di disegni (Wikipedia li enumera nell’ordine delle decine di migliaia, se fosse vero è un’enormità!) realizzati su supporto digitale che restituiscono alla grande un tratto apparentemente antico, bidimensionale solo in via percettiva.

Quindi Blind Vaysha (2016) possiede una caratteristica distintiva delle produzioni animate contemporanee, ovvero quella di puntare su una forma che ibrida i registri estetici estrapolando dal mix fuoriuscente una sempre piacevole freschezza fruitiva, e qui, neanche a dirlo, si va sul sicuro perché a produrre c’è la benemerita National Film Board of Canada. Per quanto concerne la parte letteraria Ushev si adegua alla portata metaforica di Gospodinov che in buona sostanza ci ricorda che forse l’unico modo per vivere senza troppi patimenti è farlo nel presente, a supporto della tesi ci sono delle belle immagini splittate (tipo la crisalide e la farfalla) perché in fondo è bella l’idea che sta alla base, poetica e pregna, anche se ritengo che Gospodinov e di riflesso Ushev non abbiano colto tutte le potenzialità offerte dalla storia narrata.

martedì 12 maggio 2020

Meteorlar

Nell’apertura e qualcosa oltre di Meteorlar (2017) fioccano delle suggestioni: figure umane si inerpicano su per sentieri brulli e ostili, sono ombre che, per un attimo, riportano ai tempi andati in cui Albert Serra girava ancora in bianco e nero, è comunque solo la prima epidermica impressione perché poi, per una decina di minuti, ci ritroviamo in un landscape-cinema che potrebbe portare la firma di Lois Patiño, ma è, nuovamente, una constatazione superficiale perché, fino a quando non si entra davvero nel cuore dell’opera, non capiamo esattamente quale sia la natura di Meteorlar: una fiaba oscura? Un memoir filosofico? No, o almeno non solo, di colpo si viene trascinati nell’elettricità di un qualche tumulto, tensione, incendi, rimbombi che spaccano la notte, sembra di essere in un film di Sylvain George. Ecco allora che utilizzando come mappa le sembianze filmiche usate da alcuni suoi colleghi, possiamo decifrare quelle ricercate da Gürcan Keltek, e subito si palesa un movimento che va dall’astrazione (i primi due capitoli mi sembra che possano definirsi tali) al concreto (con la terza parte le cose si fanno... vere), l’approccio autoriale e riflessivo lascia il posto allo scarno reale, l’orrore, oltre a scorrere sugli schermi degli smartphone (e quelle dita che fanno scivolare una foto dopo l’altra sono dita di bambini), si avvicenda anche sul nostro di schermo. Usando come segno di interpunzione delle funeree schermate nere, Keltek ci crivella di rapidi quadri che arrivano da un altro mondo: case sventrate, macerie, detriti, sciami di ragazzini, fori e fori di proiettili sulle pareti. Solo a questo punto capiamo dove siamo finiti: “quello che sento ora è la guerra. La morte è reale. C’è qualcuno qui con te e poi non c’è più. Non riguarda scrivere libri, fare film o arte. Quando la morte ti entra in casa la poesia non ha più senso”.

Si palesa una sottaciuta forza politica, una testimonianza-sul-campo che oltre ad essere proposta in maniera ammirabile acquista un’importanza storica ben sottolineata da questo articolo apparso su La Repubblica. Al di là dei telegiornali, la possibilità di scendere nella trincea della guerriglia è un evento raro, e lo è ancora di più quando la trattazione non è diretta né immediata, qui il conflitto turco-kurdo in cui precipitiamo senza rendercene conto, e che non capiremo mai davvero, è parte di un ingranaggio più grande, sebbene rimanga comunque il nodo da cui tutto si dirama e in cui tutto converge. Ma come Keltek è abile nel trasportarci dentro la tangibilità delle bombe, al contempo è altrettanto bravo nel farci allontanare da lì, ancora di soppiatto, ancora nella grana delle sue immagini sporche che, ad un certo momento, mostrano graffi luminescenti nel cielo. Non sono missili, sono meteore. Lo straordinario evento atmosferico riporta il film nel suo stato di iniziale malia, improvvisamente la guerra svanisce, la storia si apre ad un’alterità che nulla ha a che fare con i sadici giochi di potere, c’è della poesia visiva (oltre che poesia effettiva poiché Keltek ha tratto ispirazione dagli scritti di Ebru Ojen Sahin, e proprio dalla sua voce arriva l’intera parte commentata), c’è un afflato metafisico-esistenziale che eleva, che fa salire di intensità la visione (complice, anche, un ottimo comparto sonoro), e di colpo la gente, che prima doveva fare attenzione a non calpestare pezzetti di ordigni distruttivi, adesso raccoglie frammenti di corpi celesti che hanno viaggiato nell’universo.

Se mi si chiedesse di aggettivare in modo secco Meteorlar direi che è un film seducente, non ammiccante ma affascinante, il suo andamento ondivago che trasla il simbolo (e a posteriori le capre nel mirino dei cacciatori sono una rappresentazione nemmeno troppo velata) nella materia e viceversa ha nella cometa, nella scia infuocata che lacera la tela stellata, la sua effigie incendiaria. Le capre, i serpenti e quindi gli esseri umani continueranno a lottare per uno stupido predominio sotto l’occhio imperturbabile di divinità calcaree, l’altro occhio, invece, quello del cinema, rimane vigile e sempre pronto ad aprirsi, ad accendersi.

domenica 10 maggio 2020

State of Dogs

Be’, non è nemmeno così male l’idea che sostanzia State of Dogs (1998), e affermo ciò in relazione alle opere che verranno di Peter Brosens (il riferimento va a quelle girate con la compagna Jessica Woodworth poiché il successivo Poets of Mongolia [1999], al pari del precedente City of the Steppes [1994], non è stato visto e con ogni probabilità mai lo si vedrà), a partire da Khadak (2006), altro lavoro focalizzato sulla Mongolia, il cinema dei due belgi ha accusato, almeno fino ad Un re allo sbando (2016), un insistere quasi patologico su simboli e metafore che appesantivano la proiezione, qui, invece, la sensazione è che Brosens, coadiuvato da un collega di nome Dorjkhandyn Turmunkh, meno esperto ma in un qualche modo più “sincero”, sia disinteressato a farci vedere cosa possono nascondere i segni in favore di un’impostazione meno egocentrica, meno (an)estetizzata e meno laccata da superflui orpelli, sia chiaro, non parliamo di un’esemplare artistico votato al minimalismo perché il film si muove su quel famoso crinale che divide l’approccio documentaristico da quello finzionale, e per il sottoscritto è proprio tale dimensione a riscaldare il livello d’apprezzamento, sicché l’oggetto che si sviluppa tra aride steppe e città caotiche possiede qualche sfaccettatura accattivante che risiede sia nel lato più vero (divulgazione di un Paese e di un popolo non conosciuto, usi [il killer di randagi, brutto colpo per lo spettatore animalista] e costumi: si assiste desti) che in quello più finto, il cuore di State of Dogs è proprio dentro questo accorgimento intensificato, e un po’ herzoghiano, che merita due parole in un nuovo paragrafo.

In tal senso va reso a Brosens (e/o a Turmunkh) il merito di aver miscelato sapientemente folklore locale e creatività sceneggiaturiale dando vita ad una storia che non lesina poesia ma senza ostentartelo in faccia (le poesie che ci vengono decantate vis-à-vis sono al contrario criptiche e insensate, o così è sembrato), nel gironzolare dell’anima canina, se vogliamo in anticipo di unidici anni rispetto a quella umana di Enter the Void (2009), c’è una gradevole fusione tra filosofeggiamenti esistenziali e spaccati autoctoni, non dico che si raggiungono chissà quali vette di verità e, al contempo, non denuncio una qualsivoglia ovvietà di pensiero, più semplicemente ciò che si deposita alla fine è quel bolo di ricordi, di vite passate, di persone e di legami che riempiono una vita, e che sia animale non ne sminuisce l’importanza. Non so poi se io abbia sovrainterpretato la faccenda, tuttavia, dato l’insistere su una donna incinta, ho pensato che lo spirito del povero cane sia poi rinato sotto spoglie umane proprio dalla suddetta ragazza (ecco perché il capolavoro di Noé è venuto alla mente), in fondo viene detto ad un certo punto che la seconda vita di un cane sarà nei panni di un Uomo, suggestione o meno rimane una breccia interpretativa arricchente. A fronteggiare i summenzionati – e timidi – elogi, controbatte innanzitutto una stagionatura non proprio ottimale, cioè, State of Dogs, oggi, nell’iperrealismo del digitale, appare come una pellicola proprio vecchia, visivamente datata, superata anche da un qualunque pischelletto con in mano una GoPro, inoltre è meglio mettere al corrente gli astanti sul fatto che in certi frangenti la voce off tende a favolizzare e capisco che ciò possa urtare taluni, al pari della perseveranza nel mostrare ambientazioni e fauna nativa che alla lunga si avvicinano ad un depliant turistico della Mongolia. Chi ha voglia e tempo adesso può sapere che cosa lo aspetta se mai incrocerà State of Dogs sulla sua strada, ah, ci sono anche ritagli bizzarri (tipo la contorsionista del finale) su cui non mi esprimo, in caso fatelo voi.

Un ringraziamento doveroso va a Francesco/Ismaele.