Che bello,
un nuovo film di Kim Ki-duk da massacrare. E da dove iniziare se non
dalla prima, terrificante, mezz’ora, in cui assistiamo ad un’inguardabile
presentazione dei personaggi in scena, anche se “personaggi” è
un attributo troppo generoso, al massimo coloro che Kim piazza su
questa nave-arca possono essere definiti delle fastidiose figurine,
uno stuolo di pupazzi a cui il regista non si sogna nemmeno
lontanamente di dare una dimensione, niente, zero, aiuto: la
creazione in scala ridotta della società che contrappone chi ha il
potere e chi lo subisce è di un posticcio che nelle vesti di
spettatore senziente mi sono sentito insultato, e come se non
bastasse ecco grandinare luoghi comuni neanche fossimo in Italia sui
politici, frasi fatte, gente che scopa a caso ogni cinque minuti,
episodi totalmente immotivati di violenza. Uno scempio. Io davvero mi
chiedo come sia possibile che questo regista ormai letteralmente
fuori controllo venga ancora invitato nei Festival (per Inkan,
gongkan, sikan grigo inkan [2018]
fu Berlino), forse l’ho già detto ma se fossi un suo collega
presente alla kermesse mi sentirei oltremodo in imbarazzo (oltre che
incazzato con gli organizzatori per avere accolto una roba del
genere). Perché Kim da Moebius
(2013) in poi ha compiuto una regressione assurda in fatto di
qualità, e non parlo di idee (anche quelle parecchio latitanti), ma
di professionalità, il digitale così usato appiattisce tutto, è
una pialla che rende l’estetica di un dozzinale, di una sciatteria
che è un dolore per gli occhi, ed il film in oggetto non sfugge al
crollo in termini formali, mi spiace Kim ma è uno schifo, tutto: le
premesse ultra-scolastiche, l’evoluzione della trama, ripetitiva
(ma quante vole vediamo gli attori osservare attraverso gli oblò?!),
confusa, banale. No, no e ancora no.
Mi
viene in mente una cosa un po’ triste: tanti anni fa Kim aveva
girato un altro film in mezzo al mare, era L’arco (2005),
dolcissima favola sulle transizioni dell’età, e invece adesso che
cosa abbiamo? Una metafora urlata ricolma di inutile brutalità che
oltre a raccontare l’ovvio (ma dài, i più forti prevaricano sui
deboli? Che notiziona!) si incarta in una robaccia esistenzialista
senza capo né coda dagli echi religiosi. Tralasciando le idiote
baruffe tra gli sgherri del politico e gli altri passeggeri col
culmine puramente esibizionistico del cannibalismo, raschiando il
fondo del barile troviamo il vecchio silenzioso che si guadagna un
briciolo di attenzione proprio perché è l’unico soggetto in scena
a non essere illuminato dai riflettori; ad un certo punto qualcuno
dei sopravvissuti si chiede se non sia Dio, probabilmente nella
delirante visione di Ki-duk il vecchio ha un ruolo equiparabile, se
così è, si tratta, sempre per il pessimista KK-d,
di una divinità spietata che avvalla una mattanza in cui ci
rimettono tutti, vittime e carnefici, pur di dare una speranza al
futuro nel grembo della donna (c’è solo un micro slancio degno di
menzione, un residuo di lirismo: i cadaveri usati come concime).
Anche se poi il nuovo virgulto non si rivelerà tanto diverso dal
padre (chiunque dei tre stupratori sia, perché, visto il maneggiare
dell’arma e l’allungare le mani sulla madre, dubito che sia
figlio del marito accoltellato) visto che Kim è un nichilista duro e
puro e non ha più alcuna fiducia nell’umanità. L’origine di
tutti i problemi, comunque, non si dà mai nel cosa si vuole esporre
quanto nell’esposizione stessa, per il Kim Ki-duk recente questa è
una piaga a ’sto punto insanabile, il suo è ormai un cinema
grossolano, vetusto, che si ostina a ricercare uno shock con metodi
sorpassati che al massimo producono ilarità e non turbamento.
E
la tristezza continua a veleggiare: come non vedere nella ciclicità
del titolo il contrappeso di Primavera, estate, autunno, inverno... e ancora primavera
(2003)?, sembra passata un’eternità. Ciao ciao Kim, ci vediamo
alla prossima débâcle, nel frattempo spero tu riesca a sistemare un
po’ la tua vita, magari ne gioverebbe anche il tuo lavoro.
Ho avuto la tua stessa inclinazione al ribrezzo: come è possibile che un regista così epocale abbia ridotto il suo estro registico ad una rappresentazione approssimativa, quasi dilettantesca.
RispondiEliminaIl confronto con l'arco è così impietoso che sembra di parlare non solo di autori ma anche di dimensioni artistiche inconciliabili.
Kim, ti abbiamo amato tanto, fermati, riconciliati con il mondo, ripensa al tuo modo di essere artista, salvaci
Ma guarda caro Chand penso che faremo prima noi a volgere la nostra attenzione verso qualche altro autore decisamente più meritevole piuttosto che sia Kim stesso a redimersi. Poi magari un occhio glielo si butta sempre, ma giusto per vedere quanto è scivolato in basso.
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