mercoledì 20 maggio 2020

Choban

Inizialmente Choban (2014) appare come una versione distorta delle visioni di René Laloux, nello strambo contesto in cui il corpulento pastore vive si capta un non so che di riconducibile al maestro francese, probabilmente è lo scenario pseudo-fantascientifico a suggerire ciò, tuttavia una volta che la cagnetta viene rapita dalla losca organizzazione il corto salpa verso lidi decisamente più deliranti emancipandosi così da possibili rimandi (almeno per quanto il sottoscritto può conoscere: comunque pochino nel campo dell’animazione). Ma andiamo per gradi: il croato Matija Pisačić (regista, illustratore e autore di fumetti nato a Zagabria nel 1975) crea una storia a dir poco scombiccherata che dedica a Laika, il primo cane (qui definito bitch, capiremo poi il perché) spedito nello spazio, utilizzando come protagonista uno strano capraio dal buffo design dotato di bastone multitask che usa a mo’ di esploratore nei mondi creati dal suo lievitante estro. C’è indubbiamente del disordine, ma forse è l’inevitabile riflesso delle variegate tecniche realizzative che si scontrano (più che incontrano) all’interno del film, la bidimensione sembra il binario principale tuttavia Pisačić prende ogni tanto delle brusche deviazioni ad un passo dal deragliamento, non si può dire che il risultato complessivo sia “bello”, ma “vivo” lo è sicuramente.

Quanto comprendiamo (sempre ammesso che abbia senso concentrarci sui significati in oggetti del genere) risulta essere con un po’ di buona volontà una sorta di ritratto relativo all’artificiosità del successo, so che Choban andrebbe teoricamente in altre direzioni ma chi scrive ci ha letto cotanto sottotesto, vieppiù che in tal senso la questione si sdoppia perché abbiamo da una parte il pastore idolo delle folle privo però di un vero talento (che sta tutto nel bastone), e dall’altra la cagnetta resa antropomorfa per motivi oscuri che è solo una pedina nelle mani di un potere, entrambi finiscono per essere chi in realtà non sono, diventano un artefatto dato in pasto al pubblico acclamante. Se nelle intenzioni di Pisačić c’era l’idea di muoversi in siffatte riflessioni non ci giurerei, del resto la sovrainterpretazione critica è a volte una protesi dell’indecifrabilità, ma la corsa adamitica del duo nel bosco suggerirebbe una liberazione dalle alt(r)e imposizioni in favore di un futuro da percorrere mano nella mano.

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