domenica 10 maggio 2020

State of Dogs

Be’, non è nemmeno così male l’idea che sostanzia State of Dogs (1998), e affermo ciò in relazione alle opere che verranno di Peter Brosens (il riferimento va a quelle girate con la compagna Jessica Woodworth poiché il successivo Poets of Mongolia [1999], al pari del precedente City of the Steppes [1994], non è stato visto e con ogni probabilità mai lo si vedrà), a partire da Khadak (2006), altro lavoro focalizzato sulla Mongolia, il cinema dei due belgi ha accusato, almeno fino ad Un re allo sbando (2016), un insistere quasi patologico su simboli e metafore che appesantivano la proiezione, qui, invece, la sensazione è che Brosens, coadiuvato da un collega di nome Dorjkhandyn Turmunkh, meno esperto ma in un qualche modo più “sincero”, sia disinteressato a farci vedere cosa possono nascondere i segni in favore di un’impostazione meno egocentrica, meno (an)estetizzata e meno laccata da superflui orpelli, sia chiaro, non parliamo di un’esemplare artistico votato al minimalismo perché il film si muove su quel famoso crinale che divide l’approccio documentaristico da quello finzionale, e per il sottoscritto è proprio tale dimensione a riscaldare il livello d’apprezzamento, sicché l’oggetto che si sviluppa tra aride steppe e città caotiche possiede qualche sfaccettatura accattivante che risiede sia nel lato più vero (divulgazione di un Paese e di un popolo non conosciuto, usi [il killer di randagi, brutto colpo per lo spettatore animalista] e costumi: si assiste desti) che in quello più finto, il cuore di State of Dogs è proprio dentro questo accorgimento intensificato, e un po’ herzoghiano, che merita due parole in un nuovo paragrafo.

In tal senso va reso a Brosens (e/o a Turmunkh) il merito di aver miscelato sapientemente folklore locale e creatività sceneggiaturiale dando vita ad una storia che non lesina poesia ma senza ostentartelo in faccia (le poesie che ci vengono decantate vis-à-vis sono al contrario criptiche e insensate, o così è sembrato), nel gironzolare dell’anima canina, se vogliamo in anticipo di unidici anni rispetto a quella umana di Enter the Void (2009), c’è una gradevole fusione tra filosofeggiamenti esistenziali e spaccati autoctoni, non dico che si raggiungono chissà quali vette di verità e, al contempo, non denuncio una qualsivoglia ovvietà di pensiero, più semplicemente ciò che si deposita alla fine è quel bolo di ricordi, di vite passate, di persone e di legami che riempiono una vita, e che sia animale non ne sminuisce l’importanza. Non so poi se io abbia sovrainterpretato la faccenda, tuttavia, dato l’insistere su una donna incinta, ho pensato che lo spirito del povero cane sia poi rinato sotto spoglie umane proprio dalla suddetta ragazza (ecco perché il capolavoro di Noé è venuto alla mente), in fondo viene detto ad un certo punto che la seconda vita di un cane sarà nei panni di un Uomo, suggestione o meno rimane una breccia interpretativa arricchente. A fronteggiare i summenzionati – e timidi – elogi, controbatte innanzitutto una stagionatura non proprio ottimale, cioè, State of Dogs, oggi, nell’iperrealismo del digitale, appare come una pellicola proprio vecchia, visivamente datata, superata anche da un qualunque pischelletto con in mano una GoPro, inoltre è meglio mettere al corrente gli astanti sul fatto che in certi frangenti la voce off tende a favolizzare e capisco che ciò possa urtare taluni, al pari della perseveranza nel mostrare ambientazioni e fauna nativa che alla lunga si avvicinano ad un depliant turistico della Mongolia. Chi ha voglia e tempo adesso può sapere che cosa lo aspetta se mai incrocerà State of Dogs sulla sua strada, ah, ci sono anche ritagli bizzarri (tipo la contorsionista del finale) su cui non mi esprimo, in caso fatelo voi.

Un ringraziamento doveroso va a Francesco/Ismaele.

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