Be’, non è
nemmeno così male l’idea che sostanzia State of Dogs
(1998), e affermo ciò in relazione alle opere che verranno di Peter
Brosens (il riferimento va a quelle girate con la compagna Jessica
Woodworth poiché il successivo Poets of Mongolia [1999], al
pari del precedente City of the Steppes [1994],
non è stato visto e con ogni probabilità mai lo si vedrà), a
partire da Khadak
(2006), altro lavoro focalizzato sulla Mongolia, il cinema dei due
belgi ha accusato, almeno fino ad Un re allo sbando
(2016), un insistere quasi patologico su simboli e metafore che
appesantivano la proiezione, qui, invece, la sensazione è che
Brosens, coadiuvato da un collega di nome Dorjkhandyn Turmunkh, meno
esperto ma in un qualche modo più “sincero”, sia disinteressato
a farci vedere cosa possono nascondere i segni in favore di
un’impostazione meno egocentrica, meno (an)estetizzata e meno
laccata da superflui orpelli, sia chiaro, non parliamo di
un’esemplare artistico votato al minimalismo perché il film si
muove su quel famoso crinale che divide l’approccio
documentaristico da quello finzionale, e per il sottoscritto è
proprio tale dimensione a riscaldare il livello d’apprezzamento,
sicché l’oggetto che si sviluppa tra aride steppe e città
caotiche possiede qualche sfaccettatura accattivante che risiede sia
nel lato più vero (divulgazione
di un Paese e di un popolo non conosciuto, usi [il killer di randagi,
brutto colpo per lo spettatore animalista] e costumi: si assiste
desti) che in quello più finto, il
cuore di State of Dogs è
proprio dentro questo
accorgimento intensificato, e un po’ herzoghiano, che merita due
parole in un nuovo paragrafo.
In
tal senso va reso a Brosens (e/o a Turmunkh) il merito di aver
miscelato sapientemente folklore locale e creatività
sceneggiaturiale dando vita ad una storia che non lesina poesia ma
senza ostentartelo in faccia (le poesie che ci vengono decantate
vis-à-vis
sono al contrario criptiche e insensate, o così è sembrato), nel
gironzolare dell’anima canina, se vogliamo in anticipo di unidici
anni rispetto a quella umana di Enter the Void
(2009),
c’è una gradevole fusione tra filosofeggiamenti esistenziali e
spaccati autoctoni, non dico che si raggiungono chissà quali vette
di verità e, al contempo, non denuncio una qualsivoglia ovvietà di
pensiero, più semplicemente ciò che si deposita alla fine è quel
bolo di ricordi, di vite passate, di persone e di legami che
riempiono una vita, e che sia animale non ne sminuisce l’importanza.
Non so poi se io abbia sovrainterpretato la faccenda, tuttavia, dato
l’insistere su una donna incinta, ho pensato che lo spirito del
povero cane sia poi rinato sotto spoglie umane proprio dalla suddetta
ragazza (ecco perché il capolavoro di Noé è venuto alla mente), in
fondo viene detto ad un certo punto che la seconda vita di un cane
sarà nei panni di un Uomo, suggestione o meno rimane una breccia
interpretativa arricchente. A fronteggiare i summenzionati – e
timidi – elogi, controbatte innanzitutto una stagionatura non
proprio ottimale, cioè, State of
Dogs,
oggi, nell’iperrealismo del digitale, appare come una pellicola
proprio vecchia, visivamente datata, superata anche da un qualunque
pischelletto con in mano una GoPro, inoltre è meglio mettere al
corrente gli astanti sul fatto che in certi frangenti la voce off
tende a favolizzare e capisco che ciò possa urtare taluni, al pari
della perseveranza nel mostrare ambientazioni e fauna nativa che alla
lunga si avvicinano ad un depliant turistico della Mongolia. Chi ha
voglia e tempo adesso può sapere che cosa lo aspetta se mai
incrocerà State of Dogs
sulla sua strada, ah, ci sono anche ritagli bizzarri (tipo la
contorsionista del finale) su cui non mi esprimo, in caso fatelo voi.
Un ringraziamento doveroso va a Francesco/Ismaele.
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