Non si può parlare di forma perché a questi livelli nove su dieci il tasso di professionalità raggiunto è difficilmente attaccabile, citiamo allora la possibile ispirazione che sembra provenire da quella vena aurea francese che ha fatto le fortune del primo Xavier Dolan, in più Conceição segue la tendenza di alcuni colleghi lusitani (vedi Miguel Gomes) nell’ammantare la vicenda con un velo che non si potrebbe definire favolistico sebbene in un certo qual modo lo sia. Detto ciò non c’è stato nulla in Bad Bunny che sia stato capace di destare realmente la mia sonnacchiosa attenzione, il legame sottilmente perverso tra i due fratelli è innocuo, la malattia di lei in rapporto ai sentimenti che lui prova dà fiato ad una conclusione risibile (il “coniglio” [che vorrebbe essere lupo] doma la gelosia pur di soddisfare i desideri della sorella? Mah...), non meno fragile dell’impostazione narrativa antecedente (la madre ed il macho stereotipato). In tutta onestà mi aspettavo di meglio.
mercoledì 26 maggio 2021
Bad Bunny
mercoledì 19 maggio 2021
Jonaki
Strepitosa la composizione formale della pellicola curata da Sengupta e da un collega di nome Mahendra Shetty, è un cinema che sconfina nella pittura (mi ha ricordato qualcosina di Lech Majewski), che si porta appresso un carico di suggestioni simboliche non così immediate per noi occidentali, un susseguirsi di tavole in movimento ricolme di chiaroscuri, ombre, scintillii (una costante). Ampio merito va riconosciuto nella scelta delle location, un depliant di edifici decadenti dal vago sapore tarkovskijano, sia negli interni che negli esterni la sensazione predominante è quella di un trascorso, di un andato, di un ieri quasi ridotto in macerie. Un cimitero di ricordi. Tutto ciò contribuisce a delineare una dimensione diegetica che fa il suo, e lo fa come segue: lavora sulla percezione visionaria che fornisce, è capace di mostrare tantissimo pur, nei fatti, non mostrando niente che possa farci dire “ok, ho le coordinate per interpretare la faccenda”, si avvale di un afflato nostalgico che è doppio perché in prima battuta riprende episodi dell’infanzia, della giovinezza, ecc., e in seconda perché fa rivivere tali situazioni alla protagonista, però invecchiata e azzardo anche consapevole del proprio destino. Dinanzi un impianto estetico di elevata fattura io rispettosamente mi inchino ma nel mentre inoculo allo scritto in oggetto una riflessione che parte dalla suddetta messa in scena, ammirevole e sofisticata fino all’eiaculazione ottica, se non fosse che, dopotutto, continuo a desiderare una settima arte aderente alla realtà in grado di sterrare la radice delle cose senza grandi impostazioni finzionali. Ecco, Jonaki pur avendo una marea di pregi, non è sufficientemente asciutto da farmi gridare al miracolo, del resto, nonostante il principio di profonda sconnessione che lo governa, permane una scrittura a sorreggerlo, e quindi sceneggiatura, recitazione: artificio. Dieci anni fa me ne sarei innamorato seduta stante, adesso che sono alla ricerca di altro riesco a gestire la cotta cinefila.
धन्यवाद ड्रीस
martedì 11 maggio 2021
River of Grass
Di contro assaporiamo ciò che sarà un motivo trainante del futuro: la fuga, il viaggio, lo spostamento, la transizione, è sempre stato nel movimento il nucleo concettuale dell’autrice (ad esclusione di due titoli recenti come Night Moves [2013] e Certain Women [2016] che non a caso erano parsi a chi scrive un po’ deboli) e in River of Grass ce ne viene dato un esempio in embrione, il fuggire del duo è rocambolesco e non tocca chissà quali vette esistenziali (pur provandoci stoicamente), però c’è, e sebbene limitato per vari motivi non è difficile scorgervi un parallelo che va oltre il lasciarsi dietro il presunto crimine commesso, è un’evasione dalla provincia, dall’ordinarietà quotidiana, dalla gabbia della routine e in questo sì che il film è decisamente reichardtiano, e lo è anche perché contempla un’introspezione intima della protagonista (prototipo dell’alter ego Michelle Williams) che con le sue riflessioni off colora la pellicola di tonalità che non sono solo quelle impresse dalla sceneggiatura, emerge lievemente un’estesa insoddisfazione, il senso che non si trova, la voglia di superare il confine (negativo: “girate la macchina e tornate da dove siete venuti”), la voglia di essere, chiunque: “meglio essere degli assassini che non essere niente”. Dettagli del genere oliano un debutto che come da prassi annovera aspetti da rivedere, rimane una buona base che una volta perfezionata diventerà la voce più importante di un mumblecore d’alto profilo.
mercoledì 5 maggio 2021
Perro Líquen
Qualche distorsione ottica dal vago sapore sperimentale (a conti fatti gli unici accenti dignitosi) è scavalcata da un andazzo che non fa particolari complimenti: più le cose sono bizzarre per Llansó e meglio è. Sicché vengono inseriti personaggi a dir poco imperscrutabili, umani e non, che interagiscono con Perro Líquen (l’attore che lo interpreta è Guillermo Llansó, presumo fratello del regista) mentre nel frattempo si prosegue a rimarcare la componente delle arti marziali. Che cosa avessero in testa i due giovani filmmaker è un bell’enigma, non credo nemmeno ci fosse la voglia di ritrarre una storia di estromissione dalla società (il beneplacito della mamma pasticciera lo poteva suggerire) perché al momento di tirare le somme, il finale, si deraglia di brutto nell’assurdo. Sarò ben lieto di essere smentito sulla pochezza di Perro Líquen, ma fino ad allora ritengo maggiormente sensato posizionare lo sguardo sui titoli citati all’inizio.