giovedì 31 dicembre 2009

Lontani da Itaca


E ci lasciamo alle spalle un altro anno. No, niente discorso a reti unificate stile Presidente della Repubblica, preferisco affidarmi a chi ogni santa volta riesce a trascinarmi nelle parole.
Spero che la rotta in questo 2010 sia tranquilla e serena per tutti, anche se so che questa è un'utopia. Ci sono troppe tempeste, troppe sirene, troppo male che Nessuno riesce a lenire. Dovremo tenere duro, come sempre abbiamo fatto. E in ogni caso, anche nella burrasca più impetuosa ricordatevi che la nostra Anima è contadina.
Buon anno.

mercoledì 30 dicembre 2009

The Prefab People

Il film si apre con una accesa lite coniugale in cui il marito stizzito vuole andarsene via di casa mentre la moglie implorante gli chiede di restare per lei e per i piccoli figli.
Nella scena seguente i due festeggiano l’anniversario di matrimonio; l’atmosfera sembra rilassata, ma i discorsi pian piano si animano e fuoriesce tutta la frustrazione di lei che vorrebbe stare di più con lui, sempre "impegnato" a guardare la tv o a bere birra, ed emerge il desiderio di uscire per fare compere, e quello di andare a ballare ogni tanto. Tutte cose che la donna non possiede.
Tempo dopo l’uomo, apatico fra le mura di casa, e decisamente più a suo agio al lavoro o con gli amici, sottopone alla moglie un’offerta lavorativa propostagli: stare via due anni, da solo, ma con la prospettiva futura di potersi comprare una macchina o una nuova casa. Lei ovviamente si oppone, e lui pare accantonare l’idea, ma nel finale ecco che quella lite che ha aperto la pellicola (ri)esplode drammaticamente.

Il terzo film di Béla Tarr (1982) prosegue sulla linea dei due precedenti. L’approccio del regista ungherese è dolorosamente realistico nel descrivere la (vuota) vita di questa coppia. Se con Nido familiare (1979) si era occupato principalmente del disagio sociale esterno di una relazione, qui prende in considerazione le difficoltà interne tra un marito e la propria moglie. L’operazione è tanto interessante quanto difficile nella sua realizzazione nell’ottica in cui Tarr ha inquadrato il film. Raccontare di una coppia in crisi non è certo una novità sconvolgente, tuttavia il modo con cui il regista racconta è originale sì, ma anche ostico e "poco piacevole" nel senso che c’è poco gusto nel vedere la storia. Ciò non significa che essa sia insipida o scialba, è piuttosto la maniera in cui viene servita che difficilmente riesce ad in-trattenere.

L’occhio freddo di Tarr riprende le vicende di questa coppia come un’ospite silenzioso. Non esiste un vero e proprio corpus narrativo, sono più che altro piccoli frammenti di vita quotidiana dove si mette in mostra l’effettiva lontananza tra i due protagonisti. I momenti compassati non mancano, ma ogni tanto, se si riesce a leggere fra i fotogrammi, si palesano scenette di ordinaria disperazione molto incisive. Consiglio di notare la donna in lacrime appena dopo il ballo (marchio di fabbrica di Tarr) mentre fuori campo il marito se la canta con gli amici. Oppure il significativo dialogo in cui si esplicita il punto di vista dell’uomo che mette davanti alla famiglia il lavoro con la materialistica prospettiva di acquistare una macchina, e la riluttanza della donna che alla possibilità di poter viaggiare preferisce la stabilità affettiva del focolare.
Cogliere questi aspetti non è un’operazione immediata, ma nemmeno impossibile poiché rispetto a The Outsider (1981), più lungo e più "pesante", la vera anima del film, ossia i dialoghi, seppur molto presenti, sono snelliti e questo giova all’intera visione.

Già da Almanac of Fall (1985) in poi Tarr cambierà registro. Di questa trilogia ufficiosa resta l’impegno del regista nell’aprire uno squarcio sull’Ungheria socialista degli anni ’70-’80 e poco altro. Il valore delle tre pellicole risiede tutto nella valenza storica di indagine sociale che le sorregge, sul versante tecnico non c’è granché di memorabile.

lunedì 28 dicembre 2009

Johanna

In seguito ad un terribile incidente stradale Johanna, giovane tossicodipendente, viene portata in un buio ospedale dove entra in coma. I medici riescono miracolosamente a salvarle la vita, e così la ragazza, come toccata da una grazia divina, inizia a curare i pazienti malati donando il proprio corpo. Ovviamente questa “terapia” non va giù al primario, rifiutato più volte da Johanna, e da tutti gli altri dottori che decidono senza mezzi termini di ucciderla, mentre i ricoverati dell’ospedale tentano di proteggerla, invano.

Il regista è quel Kornél Mundruczó di cui mi ero occupato non troppo tempo fa con il discreto Delta (2008). Johanna precede di ben tre anni il film che ha partecipato al Festival di Cannes, e con esso, a parte la gracile protagonista Orsi Tóth, non condivide quasi niente.
Eggià perché Johanna è un film scuro, girato totalmente in ambienti chiusi e claustrofobici con una fotografia da far invidia alle super produzioni americane che strizza un pochino l’occhio al trieriano The Kingdom (1994).
Ma l’elemento distintivo è indubbiamente costituito dal fatto che Johanna è un musical. Molto atipico, strano e strambo, ma pur sempre di attori che parlano… cantando si tratta. Per la precisione si tratta di una vera e propria opera lirica cucita appositamente addosso al film.
La scelta di fare un musical è già di per sé parecchio coraggiosa nonché controcorrente al giorno d’oggi, in più abbinarla ad una storia così cupa (ma anche così grottesca) è un vero e proprio azzardo per un regista che all’epoca aveva giusto trent’anni. Se tutto questo non bastasse, Mundruczó decide di raccontare non una storia qualsiasi, ma la rivisitazione in chiave moderna di Giovanna d’Arco. Cioè, mica pizza e fichi.

Nella sua globalità il film vince, non è avvincente (ma lo può essere un musical? Ve lo chiedo perché io ne ho visti due o tre nella mia vita) e nemmeno stravince, ma è impossibile non rendere giustizia ad un prodotto così curato tecnicamente che fa dell’atmosfera trasudante di malattia la propria sostanza.
Forse se si conoscesse l’ungherese si potrebbero apprezzare di più i gorgheggi vocali sulla scena poiché leggere la traduzione nei sottotitoli a piè schermo mortifica un pochino il senso dell'opera e la scenografia del regista, il quale si prodiga nel mettere sulle labbra degli attori dialoghi bizzarri in piena linea con l’aria che si respira nella pellicola. Ma vabbè, la lingua magiara mi sembra un pochino ostica da imparare, per ora accontentiamoci dei sottotitoli.
L’inseguimento dentro il tunnel negli ultimi minuti è un vero gioiello costruito ad hoc che farà godere non poco i cinefili accaniti. Ed anche il finale merita per cattiveria ed inventiva.

Mundruczó è da tenere d’occhio.

Probabile citazione a Satantango (1994) con Johanna che si lava le pudenda su una bacinella.

venerdì 25 dicembre 2009

Black Christmas - Un Natale rosso sangue

È Natale, e un gruppo di collegiali appartenenti ad una specie di confraternita denominata Alpha Kappa si riuniscono senza troppa convinzione in una casa per scambiarsi i regali. Contemporaneamente in un manicomio criminale, il temibile Billy, pluriomicida che tenta la fuga ogni 25 dicembre, riesce finalmente nel suo intento per dirigersi nei luoghi dove era nato. Guarda caso la dimora in cui era cresciuto, e dentro la quale sono state compiute atrocità varie, è la stessa in cui le ragazze si sono riunite.
Serial killer in agguato + sbarbine starnazzanti? Il body count si esalta.

Remake del 2006 dell’omonimo Black Christmas datato 1974 che viene considerato da alcuni il primo slasher della storia, anche se la paternità di questo genere è spesso oggetto di diatribe in cui frequentemente si finisce a parlare dei soliti tre o quattro titoli tra cui Reazione a catena (1971) di Bava.
Non c’è molto da dire su questo film diretto da Glen Morgan, trattandosi di uno slasher ecco lì che qualunque commento possibile s’instrada in quello di mille altri suoi simili. Una nota che devia dall’ordinario è forse la presentazione dell’infanzia di Billy all’interno della casa che gode di una buona atmosfera, per il resto ci troviamo di fronte alla classica onnipotenza del villain che riesce a nascondersi in qualunque luogo (im)pensabile - anche il soffitto di un ospedale -, e la corrispettiva imbecillità dei protagonisti che invece di darsela a gambe restano nella casa a far da vittime sacrificali. Il tasso di gore rientra nella norma, qualche occhio strappato, mangiato, infilzato e niente più. Inoltre il modus operandi di Billy consiste nell’infilare un sacchetto nero in testa alla vittima di turno per poi infilzarla con uno spillone, indi per cui anche nelle scene più splatterose molto è celato alla vista. Non che sia un difetto questo.
L’oscar della morte più stupida va alla tutrice delle ragazze che nel porticato viene trafitta da una stalattite di ghiaccio staccatasi dal soffitto… che sfiga!
Il gruppo di donzelle, che farebbe invidia a Hugh Hefner o al sempre nostro Cavaliere, è più o meno stereotipato, e la velocità della loro dipartita è connessa al peso che hanno nel film: meno sono “importanti” e più criccano rapidamente. La final girl, tale Katie Cassidy, fa ciò che ogni final girl deve fare, ovvero urlare istericamente nelle situazioni di pericolo.

Insomma, uno slasher routinario che non vi cambierà la vita.
Ma oggi, amici lettori, essendo il compleanno del Nazareno, vi faccio i sentiti auguri per un Natale, non dico felice, perché è difficile, ma almeno sereno. Auguri!

giovedì 24 dicembre 2009

-2 Livello del terrore

Vigilia di Natale: Angela, giovane donna in carriera, sistema le ultime cose in ufficio prima di rientrare a casa per festeggiare con i suoi cari. Nel parcheggio sotterraneo la macchina non vuole saperne di partire, così tornata al piano terra per chiamare un taxi si accorge di essere stata chiusa nell’edificio. Ma a farle “compagnia” ci sarà un addetto alla sicurezza, Thomas, che la coinvolgerà nel suo macabro gioco. Già mi immagino lo scazzo dei distributori contenti per una volta di non sforzare le meningi per italianizzare il titolo (quello originale è semplicemente P2), ma costretti a farlo per esigenze politico-istituzionali. Manco a dirlo, però, le meningi devono essersele spremute poco perché –2 Livello del terrore sembra uno di quei film scombiccheriati anni ’80 le cui vhs sono ora pezzi di antiquariato nei mercatini.
La regia dello sconosciuto Franck Khalfoun si affida alle sapienti (mmm) mani di Alexandre Aja che cura la sceneggiatura insieme al suo socio Grégory Levasseur.
Probabilmente ricorderete Alta tensione (2003), film quasi d’esordio per Aja che almeno per tre quarti della sua durata manteneva le aspettative del titolo. Bene, P2 è una copia sbiadita a bestia di Haute tension. Il punto tangente di queste due pellicole risiede in una similare sovrapposizione dei ruoli, ovvero: c’è un cacciatore e c’è una preda. Ma se Philippe Nahon è un villain coi controcazzi, l’omino della security, interpretato da Wes Bentley, è quanto di più anonimo ci possa essere. Non convince la sua motivazione a seviziare la bella Angela, non convince il suo look insipido che lo spoglia da qualsivoglia forma di appeal rendendolo indimenticabile come una puntata di Uomini e donne.
A ruota lo segue la scialba ambientazione del parcheggio sotterraneo reso poco suggestivamente dall’ordinaria regia di Khalfoun, pur essendo presente però una fotografia che si guadagna qualche lancia spezzata. Di potenzialità lo scenario ne aveva anche qualcuna, perlomeno il certificato di claustrofobia, ahimè tutto scorre in un modo talmente prevedibile che a confronto un programma della De Filippi ha più sussulti.
L’horror di per sé è un genere che ha delle virtù non indifferenti poiché nei molteplici modi in cui può venir utilizzato, talvolta è declinabile a puro e sano intrattenimento, e talvolta a ficcanti considerazioni che in alcuni casi hanno un intelligente valore introspettivo. P2 non ha niente di tutto questo, non riesce né a fare show, né a “far pensare” e menchemeno a pensarsi.

Gli unici tre frammenti che salvo sono l’assassinio di un tizio spiaccicato contro il muro da una macchina perché mi è piaciuto per l’inventiva; il coltello piantato nell’occhio di Thomas perché mi ha ricordato Fulci; e infine le tette di Rachel Nichols perché sono tette.

A domani per un altro (inutile) film natalizio.

martedì 22 dicembre 2009

Il sesso secondo lei

Vi racconto i primi dieci minuti: lei (che scopriremo in seguito chiamarsi Leila) entra nel bagno di una discoteca per bere. Lui (che scopriremo in seguito chiamarsi David) le fa conchetta con le mani sotto il rubinetto. Il loro gioco di sguardi è interrotto dalla fidanzata di lui che bussa alla porta. In pista le occhiate tra i due non mancano; nel frattempo Leila si porta un tipo fuori, lo attacca al muro e inizia a spompinarlo per bene. ”Stranamente” dietro di loro David ha parcheggiato la macchina, e una volta salito a bordo illumina coi fari la scenetta che ha davanti. La fidanzata se la ride e decide di imitare Leila in ogni movimento. Con soddisfazione dei due maschietti. Poi Leila e David inizieranno a frequentarsi fra mille (solite) difficoltà, ma non credo abbia molta importanza. Già da questa breve introduzione si può capire in quale territorio bazzichi il film. Se non ci fossero gli intermezzi erotici che sfiorano alla lontana la pornografia sarebbe una banale pellicola sentimentale con finale al miele. Banale lo resta anche così, ma per lo meno ci si può intrattenere un minimo con l’esibizionismo proposto dal regista jamaicano, ma canadese d’adozione, Clément Virgo.
Come la penso su questo genere di film l’ho già spiegato con Guardami (1999) e soprattutto con 9 Songs (2004), perciò non mi ripeterò. Tuttavia mi pare doveroso (ri)sottolineare di quanto queste opere siano pervase da un compiacimento quantomeno stucchevole, che sì, potrà anche inizialmente attirare l’attenzione dello spettatore, ma che a visione conclusa lascerà parecchio insoddisfatti.
Fin dal titolo si mette in luce da quale parte penderà la narrazione (attenzione però! Il titolo originale, Lie with Me, laddove il verbo “lie” va inteso come “giacere”, ostenta già meno rispetto a quello affibbiato dalla distribuzione italiana). Ma tale visione femminile del sesso che si vorrebbe dare è limitata a sterili elucubrazioni di Leila inserite fuori campo di tanto in tanto. L’inutilità di queste riflessioni, che spaziano, chessò da: ”Non voglio diventare buona, non voglio diventare gentile. Sarò cattiva solo per lui, scoperò solo per lui.” , a: “Volevo essere scopata mentre lui mi guardava, lui e cinque uomini ansimanti intorno a me che toccavano, che ridevano e mi stringevano le tette.” , producono un effetto di ilarità superiore a qualunque cinepattone (in ogni caso un effetto modesto), ma soprattutto trasmettono un senso di innaturalezza costante.
Peccato perché Lauren Lee Smith oltre ad essere bella è anche molto sensuale, una dote, questa, che molte attrici non hanno, tuttavia le parole che le vengono messe in bocca dal copione sciagurato sono imbarazzanti. Discorso inverso per il protagonista maschile, Eric Balfour, belloccio senza nerbo incapace di una che sia una espressione.
Non infierisco sulla sociologia spicciola che viene inscenata (ovvero: genitori in crisi = lei si fa bombare a destra e a manca), e sorvolo sulla psicologia fragile (ovvero: sboccia l’Amore = lei non si fa più bombare).

Non brutto, perché alla fine il film ha una certa dignità formale, direi inutile. Come le citazioni a L’Atalante (1934) dove l’unico punto di contatto con Il sesso secondo lei è l’assonanza fra i cognomi dei due registi, nient’altro.

domenica 20 dicembre 2009

The Outsider

András è un ragazzo che si diletta nel suonare il violino. Ha un gran talento ma non avendo avuto una formazione musicale ben precisa non può permettersi di fare il musicista. Così lavora come infermiere in un ospedale psichiatrico; il lavoro lo svolgerebbe anche bene, purtroppo però viene licenziato a causa di un suo brutto vizio: quello di alzare il gomito. Allo sbando, con un figlio che tutti sanno non essere suo da mantenere, prova a rifarsi una vita trovando un posto in fabbrica, e sposando la barista di un locale che frequentava. Le difficoltà che dovranno affrontare saranno dovute sia al contesto sociale in cui sono calati, sia all’indisponenza di András che sembra interessarsi solo all’alcol e alla musica.

Il secondo lungometraggio di Béla Tarr – 1981 – non si allontana troppo dal suo lavoro d’esordio. A parte il colore (assoluta rarità all’interno della sua filmografia) l’impianto registico è pressoché identico. Gran parte delle riprese sono costituite da dialoghi, che molto spesso diventano monologhi, in cui la mdp si sofferma praticamente immobile sul viso degli attori mentre parlano. Anche l’argomento trattato si avvicina di molto a quello analizzato da Nido familiare (1979), ovvero le difficoltà esistenziali di una giovane coppia nell’Ungheria degli anni ’80. Qui, però, l’occhio di bue si concentra di più sulla figura di András e sul suo animo inquieto che sulle vicissitudini coniugali.
Il comportamento del protagonista non è dei più corretti. Forse l’origine di questa sua “pazzia” va ricercata in una realtà che non permette una mobilità verso l’alto, e di conseguenza nemmeno un miglioramento della propria condizione sociale. Si noti di come i sogni musicali di András vengano ridotti al poco gratificante lavoretto di cambiare dischi in una discoteca, costringendolo così ad immaginarsi un direttore d’orchestra nella sua piccola stanza.
La musica è la novità più corposa rispetto a Nido familiare. Le note interrompono (per fortuna) alcuni dialoghi torrenziali dai quali si esce ogni volta provati. Inoltre ha l’onore e l’onore di aprire e chiudere il film. E al di là di citazioni che sicuramente non avrò colto, si potrebbe vedere il tutto come la ballata di un uomo, e, perché no visto il finale molto “politico”, di un’intera nazione.

Detto ciò, chiarisco che The Outsider non è un film memorabile. Questo perché il suo valore tecnico è piccolo piccolo in quanto la pellicola ricalca troppo, ma veramente troppo, l’opera precedente (in ogni caso più semplice e più fruibile di questa), con l’aggravante del fatto che le riprese sono “sgradevoli” alla vista e la pesantezza dei dialoghi è quasi insostenibile. Vedere tutto questo una volta può anche andare, due volte risulta un po’ stucchevole.
Ma soprattutto, l’aspetto che più mi lascia dubbioso è questo: quanto è utile, a distanza di quasi tren’anni, venire a conoscenza di uno spaccato dell’Ungheria socialista? La mia non è una domanda retorica poiché su tale questione si giocano le sorti del film. Se l’esigenza di sapere come andavano le cose negli anni ’80 in Ungheria non è un bisogno impellente, allora The Outsider non ha granché da dire, ma se invece è il contrario allora il film acquista molto più valore. Perché oltre all’analisi politico-sociale non c’è molto altro da ricordare.

venerdì 18 dicembre 2009

Grace

Madeline e Michael riescono a concepire una bambina dopo due tragici aborti. La donna per far sì che la gravidanza prosegua nel migliore dei modi si affida alle cure di una dottoressa vegana con la quale ebbe in passato una liaison; di conseguenza la situazione non è ben vista né dal marito né dall’odiosa suocera. Una sera la coppia, rientrando a casa, viene coinvolta in un incidente in cui muore sia Michael che, in apparenza, la bimba portata nel grembo dalla donna. La neo mamma è però convinta nel proseguire la gravidanza, e dopo che la piccola Grace nasce viva tra lo stupore di tutti, Madeline dovrà fare i conti con una mostruosa realtà. Incoraggiante esordio di questo trentenne regista americano che espande un suo corto di soli sei minuti girato nel 2006 sempre con lo stesso nome.
Fin dal titolo Solet cala l’opera in un contesto d’instabilità. Chiamare Grace (leggi Grazia) un bebè succhiasangue appare più come una condanna che un dono del cielo. Ed oltre ai nomi assegnati – non va dimenticato quello della protagonista in cui rimbombano echi religiosi – è doveroso sottolineare di come nel film sia presente una forte ambiguità nei rapporti famigliari, nonché in quelli sentimentali.
A partire dalla prima scena in cui Madeline fa l’amore con suo marito ma il suo viso sembra apatico, per proseguire con la storia saffica della stessa donna con la dottoressa, senza tralasciare la suocera Vivian che pare intendersela bene con un dottore, emerge abbastanza chiaramente un quadro generale in cui nessuno è moralmente in pace con se stesso, immergendo la vicenda già piuttosto “malata” in un’oscura pozza torbida dove le risposte salite a galla sono poche. E questo è un punto a favore del regista che lascia più di un qualcosa in sospeso senza sentirsi in dovere di spiegare (inutilmente) tutto per filo e per segno.

Un altro spunto di riflessione parecchio interessante è il parallelo che viene posto tra Madeline e sua suocera Vivian. In sostanza le due donne vivono entrambe un dramma materno; la differenza che intercorre tra il partorire una bimba-mostro ed il perdere il proprio figlio in un incidente stradale non sembra essere troppa. E così è apprezzabile lo sforzo del regista che cerca di isolare sempre più Madeline con la sua creatura, e di rendere la suocera sempre più bramosa nel voler sottrarre Grace a sua nuora per riacquistare la propria maternità.
Tali introspezioni rendono Grace un horror sui generis in cui si lascia più spazio all’immaginazione anche nelle scene potenzialmente splatterose. Oltre a questo, che comunque resta un aspetto ammirevole della pellicola, l’atmosfera che si respira è sottilmente malsana con tutte quelle mosche svolazzanti e le mefistofeliche apparizioni del gatto nero di casa. Tutto ciò contribuisce a trasmettere la sensazione di continuo straniamento in cui versa Madeline accentuato dal progressivo abbassamento delle luci all’interno dell’abitazione.
Unica nota stonata è il bambolotto utilizzato come “stuntman”, davvero malfatto.

La tenacia e la totale devozione con cui la donna accudisce la propria figlioletta demoniaca mi hanno ricordato le vicende del meraviglioso Little Otik (2000). Se il film di Švankmajer è di un altro livello, anche questo di Solet ha un suo perché. Dategli una chance.

mercoledì 16 dicembre 2009

Ritorno nel buio


Insomma, come ormai avrete capito su Oltre il fondo si parla poco o niente di novità cinemare, di conseguenza anche le anteprime delle suddette arrivano in differita di qualche mese. Ma come diceva il vecchio saggio: “Meglio un calcio nel culo che un souvenir sugli incisivi”, tradotto: meglio ‘ste chicche succulente che il niente assoluto, pongo alla vostra cortese attenzione codesto trailer. Si tratta del sequel di uno dei migliori horror post duemila: The Descent (2005).

Non ho idea di quando, e se, uscirà da noi. La sincera speranza è che non finisca alla deriva (derivativa) di Saw perché sarebbe un vero peccato, nel frattempo noi non possiamo far altro che aspettare con rinnovata strizza di calarci nuovamente nelle umide grotte di The Descent: Part 2. Evvai!

lunedì 14 dicembre 2009

Next Door

John è stato lasciato da Ingrid. La guarda portare via le sue cose dalla loro casa mentre Åke, il nuovo fidanzato, l'aspetta giù in strada. Preso dallo sconforto, John, fa conoscenza con due donne che abitano affianco a lui. Dapprima lo invitano nel loro appartamento offrendogli da bere e tenendo un atteggiamento ambiguo nei suoi confronti, poi un giorno, la più grande delle due, chiede a John di stare in casa con la più giovane traumatizzata da un evento passato mentre lei esce per far compere. L’uomo accetta senza essere troppo convinto. Nella casa-labirinto delle vicine, la ragazza provoca John al punto che l’uomo inizia a prenderla a pugni per poi farci del sesso.
Qualche giorno dopo l’uomo rientra nella casa delle due ma le cose non sono affatto come sembrano.

Piccolo film norvegese diretto da Pål Sletaune uscito nel 2005 e mai arrivato in Italia.
Piccolo nel minutaggio perché dura poco più di un’ora, ma anche piccolo nella riuscita finale perché il suo strizzare l’occhio a modelli più alti sembra più un tentativo fallito d’imitazione che un sentito omaggio al Lynch di turno.
Beninteso, se rapportato ai film che vorrebbe tendere Naboer (titolo originale) perde sempre, ma se preso nella sua singolarità ha qualche buon momento nonché un discreto finale che colpisce più per come viene mostrato che per la sua costruzione.
Sì perché tutta la narrazione è filtrata attraverso gli occhi di John: in sostanza ciò che noi vediamo è ciò che lui vede o crede di vedere, e così la realtà rappresentata è distorta dal protagonista; una volta capito questo meccanismo la faccenda si fa prevedibile. Il fatto di riuscire ad anticipare la soluzione finale è dovuta anche al personaggio di John che appare talmente fragile ed insicuro da essere (a ragione) il principale indiziato.
E di indizi Sletaune ne semina un po’ ovunque nel film. Fin dai primi istanti con quella gonna strappata, passando per l’armadio che sbarra la porta, arrivando ai piccioni nella stanza.
Collocare tutti i vari pezzi del mosaico non appare cosa semplice, ma forse neanche troppo necessaria. Una volta capito l’inghippo i vari misteri passano in secondo piano.

Next Door può essere un buon antipasto prima di una visione più corposa, ma se a metà film avrete già intuito la soluzione non dite che non vi avevo avvertiti!

venerdì 11 dicembre 2009

Dogville

Dogworld

Ora che il silenzio si è finalmente posato su questo lembo di terra dimenticato dal mondo e da chi l’ha creato; e ora che dei puntini incandescenti illuminano la brace a beffarda memoria delle case che fino a poco fa sorgevano qui intorno, ora che tutti i miei simili sono stati uccisi, tutti: da Tom a Ma Ginger, da McKay a Gloria, da Martha a Chuck, e ora che i loro cadaveri sono disseminati in quella che fino a ieri era Elm Street; ed ora che di Dogville non è rimasto più niente, nemmeno le sagome disegnate di quello che una volta era un paese, ora che vedo tutto questo, inizio finalmente a capire.

Nella mia mente si accavallano immagini e suoni che non hanno una logica, ma sono sicuro che tutto sia iniziato quella notte in cui Grace tentò di rubarmi l’osso. Io non so come sia il mondo fuori da Dogville, ma credevo che le persone normali non amassero il cibo dei cani, seppur accecate dalla fame. Nonostante le mie congetture lei cercò di rubarmi il cibo, un osso. Io abbaiai perché era così disperatamente bella, così fragile nella pelliccia che l’avvolgeva, così maledettamente umana che non poteva e non doveva abbassarsi a mangiare un fetido osso. Per fortuna riuscii ad attirare l’attenzione di Tom che passeggiava lì vicino perso nei suoi pensieri, e quando vidi che la vide rimasi di stucco: Tom sembrava un essere umano, non so come fece, giuro, dev’essere quella cosa che chiamano amore, ma io lo vidi che camminava ritto sulla schiena, e le parlava.
Ero felice, ma, ahimè, mi sbagliavo di grosso su Tom… e su Grace.
Quello che accadde nei giorni e poi nei mesi successivi non andrebbe rivelato perché la gente di Dogville ha sempre avuto il cuore marcio. Anche il più candido, il più intelligente, il più buono dei suoi abitanti non sarebbe mai riuscito a soffocare i propri istinti animaleschi. Ero sicuro che Chuck sarebbe stato il primo a venire ubriacato dal fascino del potere, l’ho sentito mentre ricattava Grace e con forza la sbatteva a terra per violentarla mentre lì fuori i bambini giocavano allegri per strada.
Poi a chi è toccato? Al signor McKay che non ci vedeva ma aveva ancora il senso del tatto molto acuto; a Ben che con la sua industria dei trasporti faceva sempre ottimi affari; e poi? Non so, credo che tutti gli “uomini” di Dogville siano andati a letto con Grace. Ciò mi rattristava perché il lato animale dei miei compaesani emergeva sempre di più.

L’inizio della fine fu quando Bill Henson costruì quel collare antifuga per Grace. D’altronde c’era da aspettarselo: avevano legato me, adesso legavano anche lei. Forse loro sentendosi liberi non capivano che erano ingabbiati nel paese come me, come Grace. Questo mi infastidiva molto, i miei concittadini credevano di essere emancipati solo perché non c’era una catena a delimitarne i movimenti. Solo ora comprendo di come Dogville fosse stata una piccola grande prigione per quelle anime nere: un canile, ecco cos’era.
Comunque tutto finì veramente quando vidi Tom uscire dalla casa di Grace dopo che lei aveva raccontato a tutti la verità nella missione. Lo scrutavo mentre era seduto sulla panchina delle vecchiette e pian piano si trasformava. Quella parvenza di umanità lo stava abbandonando per lasciare il posto alla sua, e mia, bestialità.
Il mattino dopo c’era un’aria strana in paese, di attesa. Ma per alcuni interminabili giorni non accadde nulla. Poi, finalmente, arrivarono le auto dei gangster.

Che buffi gli abitanti di Dogville! Scodinzolavano in branco come quando arriva il padrone; dalla mia cuccia notai che i gangster portarono Grace in una Cadillac, e allora drizzai le orecchie più che potei. Del discorso fra lei e quell’uomo capii poco, troppo difficile per un cane come me, ma quando le nuvole si diradarono e la luna sbucò tonda e pallida in mezzo al cielo, un fremito percorse la mia spina dorsale. Dogville si illuminò di una luce che non si era mai vista, sembrò lo scherzo di un qualche dio che stufo delle miserie di questo paesino accese i riflettori sull’ultimo tragico atto.
E Grace? Oh, Grace capì tutto questo, e ritornata in macchina, con la mente sgombra, divenne schiava del potere come gli altri, e quando riscese per parlare con Tom anche lei era diventata un cane.

C’è un grande dubbio che mi affligge. Grace era già un cane quando tentò di rubarmi l’osso, o fu Dogville a farla diventare così?

Ora che questo silenzio irreale è interrotto soltanto dal rumore sordo dei battipalo che laggiù stanno costruendo un nuovo penitenziario, mi chiedo se ce ne sia davvero bisogno. A cosa serve un’altra prigione? Là fuori, oltre Dogville, c’è realmente così tanto dolore? C’è così tanto male nel mondo?

martedì 8 dicembre 2009

Ken Park

Larry Clark, rinomato fotografo col pallino dell’adolescenza deviata, costruisce attraverso la sceneggiatura di Harmony Korine – regista di Gummo (1997) e quindi già un’autorità in questo campo – un film in cui le personalità dei vari characters si plasmano secondo un freddo procedimento algoritmico per cui se un genitore vedovo è ipersensibile, protettivo e religioso la figlia sarà una puttanella che non disdegna rapporti fetish e ménage à trois. Oppure se un padre è un alcolizzato, culturista fai da te, macho ma con tendenze omosessuali latenti e incestuose, il figlio sarà introverso, chiuso, una mammoletta che si stappa bong a iosa con gli amichetti.
Per Clark se il tronco è dritto il ramo crescerà storto. Come in un algoritmo dove ad un passo ne succede un altro, i ragazzi di Ken Park possiedono una personalità sempre opposta a quella dei genitori. Pur mandando a quel paese teorie psico-sociologiche l’idea in sé non sarebbe neanche malvagia, e da sola potrebbe bastare per poter definire il film (abbastanza) provocatorio. Ma evidentemente gli autori non la pensavano così e hanno deciso di spingere sul pedale del voyeurismo scabroso, quello che non omette niente, e mette più di ciò che c’è bisogno. La sensazione è che a Korine sia venuta in mente un’idea eccessiva e abbia fatto di tutto per enfatizzarla, come dire: ”Ehi sarebbe fico che un ragazzino si sparasse una sega con un cappio al collo mentre gurda in tv una partita di tenniste che tra un dritto e un rovescio ansimano come meretrici.” E aggiungendoci una “bella” ripresa ravvicinata di fresco sperma il gioco è fatto.
Ostentare in maniera così chiara le pulsioni sessuali di questi ragazzetti è un autogol clamoroso perché al di là di un’atmosfera pruriginosa che potrebbe anche attizzare la vostra libido, la rappresentazione della realtà condannata da Clark viene raccontata… attraverso i suoi stessi mezzi! La morale invisibile si perde nell’esibizione reiterata di immagini scioccanti messe lì solo per sollazzare il gusto di alcuni spettatori. Urlare è un’azione infantile atta a manifestare la propria presenza, e cercare di impressionare mettendo in mostra quanto l’anima dell’uomo abbia toccato il fondo è sinonimo di scarsa dimestichezza col mezzo cinematografico. Qualche babbeo potrebbe anche abboccare di fronte ad un cunnilingus (ma se davvero si voleva trasgredire perché non mostrare il rapporto tra Shawn e la madre?) o ad un efferato nonnicidio, ma Ken Park sarebbe stato un film di ben altro spessore se il regista ci avesse solo che suggerito almeno la metà delle scene presenti nel film, compresa l’ultima patetica sequenza di sesso a tre in cui si vorrebbe dare un barlume di speranza e dove invece si continua a navigare nelle acque torbide della sgradevolezza. Il mio non è bigottismo, per carità, ma se si voleva aprire uno squarcio positivo sulle loro vite era giusto allontanarli dal degrado sociale in cui ristagnavano senza continuare ad essere così sfacciati, perché così facendo Clark ha finito per mordersi la coda da solo.

sabato 5 dicembre 2009

Nido familiare

Béla Tarr nasce a Pécs, un paese nel sud dell’Ungheria, il 21 Luglio del 1955. Inizia ad impratichirsi con la cinepresa fin da ragazzino realizzando alcuni cortometraggi. I suoi primi lavori lo portano all’attenzione della Fondazione Béla Balázs che nel ‘79 finanzia il suo primo lungometraggio Családi tűzfészek (Family Nest è il titolo internazionale) all’età di soli ventidue anni.
Non particolarmente prolifico, è salito alla ribalta con film come Satantango (1994) della durata di sette ore e Le armonie di Werckmeister (2000).
Il mio viaggio nella sua filmografia, probabilmente uno degli ultimi che farò se non l’ultimo in assoluto, inizia da qui, da questo Nido di famiglia sul quale Tarr ha detto: “Questa è una storia vera, non è accaduta alle persone nel film, ma potrebbe accadere.”

La trama: all’interno di un piccolo appartamento convivono un padre, una madre, il figlio, Irén, la moglie dell’altro figlio e la loro piccola bambina. Quando Laci, marito di Irén, ritorna dal servizio militare la situazione all’interno della casa si fa insostenibile, così la giovane coppia cerca di ottenere dallo Stato la concessione di un’abitazione, ma senza riuscirci. Nel frattempo le discussioni casalinghe si fanno sempre più incandescenti e la tensione esplode quando il padre scontroso caccia di casa sua nuora.

Ruvido. È il primo aggettivo che mi viene in mente per definire lo stile di Tarr. Vedendo a spizzichi e bocconi alcune sue opere successive noto che in futuro la tecnica verrà affinata di parecchio fino a diventare un vero e proprio fuoriclasse del cinema contemporaneo.
Qui siamo oggettivamente lontani da una certa cura estetica, ma non fraintendetemi, il fatto che Family Nest abbia un aspetto grezzo non inficia il valore dell’opera nella sua globalità. Il film pur non avendo una veste memorabile a causa della macchina da presa puntata costantemente sugli attori, riesce a tradurre il disagio di una classe sociale attraverso dialoghi massicci, a tratti straripanti, grazie ai quali tutto il contorno passa in secondo piano.
Il fatto che il film abbondi di primi piani traballanti degni del miglior Von Trier meno compiaciuto, fa sì che l’ambiente divenga seriamente claustrofobico, senza una via d’uscita. Irén, a conti fatti la vera protagonista della pellicola, tocca con mano l’impossibilità di spiccare il volo, in sostanza: di essere libera.

Se, come ho detto, Nido familiare è costituito quasi esclusivamente da dialoghi, allora è giusto ricordare la discussione tra Irén e un funzionario che mette in lista le famiglie che hanno bisogno di una casa. C’è in questa conversazione l’impotenza del piccolo uomo di fronte al grande sistema che decide per lui.
In questo scenario poco incoraggiante si inscrive la figura del padre. Il capofamiglia, colui che fa quadrare i conti, che si spacca il culo in fabbrica. Un esempio di altezza etica, ma solo in apparenza. Dispensa consigli ai suoi due figli, caccia Irén dandole della puttana (magari con ragione, noi non lo sapremo mai) e poi fa spudoratamente il cascamorto con una donna che lo rifiuta ricordandogli che ha una famiglia.

Family Nest è un film sull’annichilimento dei valori. Una riflessione ben imbastita che tocca argomenti quanto mai attuali. Lo stile (negli ultimi minuti diviene palesemente documentaristico con due strazianti monologhi) attraverso il quale tali questioni vengono trattate non è dei più facili da metabolizzare, ma sono convinto che lo spettatore più rodato ne saprà godere.

giovedì 3 dicembre 2009

Drawing Restraint 9

Matthew Barney è un’esponente di quella che oggi viene definita arte contemporanea (ma chissà fra cento anni come verrà chiamata!). Leggo che grazie alle sue opere, sempre in bilico tra cinema e scultura, è riuscito a creare intorno a sé una certa aura che gli ha permesso di essere accostato dagli addetti ai lavori a nientepopodimenoche Andy Warhol.
Il suo progetto più complesso è il cosiddetto Cremaster Cycle (il cremastere è un muscolo dei testicoli che regola la reazione dei genitali maschili), una serie di cinque lungometraggi usciti in maniera non cronologica: Cremaster 4, il primo ad essere girato, è datato 1995, mentre Cremaster 1 è del ’96.
Anche Drawing Restraint è un progetto di Barney a tutt’oggi in corso. Fin’ora sono due i film che vi appartengono: questo del 2005, e il numero 15 del 2008, gli altri capitoli – se non ho capito male – non sono film bensì sculture esposte in alcune gallerie d’arte moderna.
Ok. Probabilmente vi interesserà sapere cosa racconta Drawing Restraint 9, ed è qui che viene il difficile. Per cominciare vi dirò che su due ore e mezza c’è soltanto un breve dialogo a circa metà film tra Barney, la co-protagonista Björk (nella vita reale moglie del regista) e un vecchio giapponese che prepara loro del tè. Tutto il resto è silenzio. Sì, ci sono delle parentesi musicali curate dalla stessa autrice islandese che pubblicò nel medesimo anno un album omonimo, ma è più che altro il rumore, o la sua assenza, dei piccoli gesti filmici a fungere da colonna sonora. Il che è parecchio estenuante, devo ammetterlo.

La vicenda si svolge su una baleniera giapponese. La narrazione si sdoppia appena l’uomo e la donna giungono sulla nave: da una parte vediamo come i due si preparano a quello che sarà una specie di rituale, e dall’altra seguiamo l’equipaggio intento a far cose di cui non sono riuscito a cogliere il significato - e capite bene che non comprendere un’acca per due ore e mezza fa girare un pochetto tutti i muscoli testicolari; a proposito, tutto sembra ruotare intorno ad una vasca che ha la forma del Cremaster Cycle contenente della roba biancastra (foto in fondo) -.
Una volta addobbati seconda la tradizione giapponese (ma siamo sicuri?), Barney e Björk si ritrovano nella stanza in cui hanno bevuto il tè ormai circondati dall’acqua. Questa è la scena madre: mentre in sottofondo scorre Holographic Entrypoint, un testo scritto dal regista, tradotto in giapponese e recitato secondo i dettami del teatro Nō (una discreta mattonata sulle gonadi), i due iniziano a tagliuzzarsi, e, sorpresa!, sotto la loro pelle è comparso uno strato bianco simile alla carne dei cetacei, in più dietro il loro collo si è formato uno sfiatatoio, l’organo respiratorio delle balene et simila.

Ma questo è niente rispetto a ciò che si può vedere in quest’opera ben poco prosaica. Ci sono donne subacquee che pescano chissà cosa con delle tinozze; una sorta di obelisco nero che viene recuperato in mare; una specie di enorme spina dorsale che viene adagiata nella stiva della nave; un bambino che vomita in un secchio con del pelo che gli fuoriesce dalla bocca.
Lo sforzo ermeneutico da fare è immane, e, vi consiglio, di lasciar da parte la vostra sete di sapere se guarderete questo film. Drawing Restraint 9 è prima di tutto un esercizio di stile, e se volete ricercarvi dei significati soggiacenti siete liberi di farlo, ma a vostro rischio e pericolo perché rischierete di fondervi il cervello. Godetevi le immagini finché riuscite, fermatevi, e poi ricominciate. Centoquarantaquattro minuti di silenzio non sono uno scherzo.

lunedì 30 novembre 2009

Dancer in the Dark

Certe volte mi incapponisco nelle piccole cose, nei frammenti, nei dettagli. È più forte di me. Pur riconoscendo che nel film ci sono momenti di maggiore importanza, io non riesco a togliermi dalla testa quel minuto scarso di buio che appare all’inizio del film accompagnato da una musica soave. Un segmento piccolissimo in confronto alle due ore e passa di girato, ma che quando termina con quel crescendo di strumenti apre le porte ad un dramma intenso e intriso di dolore.
Non solo: quei primissimi minuti sono, secondo la mia interpretazione, un flashforwrad che puntuale ritorna nel finale quando Selma, oramai sulla forca, intona l’ultima, o meglio la penultima, straziante canzone dedicata a suo figlio Gene. In quel momento von Trier ci ricongiunge all’incipit dove quella schermata nera altro non è che la visione soggettiva (e uditiva) della protagonista. Selma sente una melodia che gli altri, nel contesto filmico, non riescono a sentire. Accade soltanto nella sua mente, è come se la cecità le permettesse di vedere attraverso la musica. Notate l’ossimoro: “il buio che fa vedere”, l’oscurità rivelatrice. Sarà un dettaglio quella breve sequenza iniziale, eppure sono riuscito a Vedere ciò che sarebbe accaduto, non con gli occhi, ovviamente, ma con il cuore. O qualcosa di simile.

E a proposito di cuore, la suddetta Trilogia si completa così con Dancer in the Dark, il migliore dei tre a mio modesto parere.
Il bello è che l’impianto registico non si discosta poi molto da Le onde del destino (1996): stessa camera a spalla, identico montaggio impercettibilmente scattoso, simile fotografia un po’ meno granulosa. Ma se il film con la Watson non l’ho minimamente digerito, questo con Björk ha magicamente pizzicato le corde giuste fin da subito.
Le motivazioni non sono facili da rintracciare: potrei difendermi dicendo che la cantante islandese è strepitosa nel ruolo di Selma e riesce a comunicare con i suoi passi incerti più della sua “collega” Bess, ma è pur vero che l’attrice britannica ha vinto un Oscar per quel ruolo e quindi tanto male non doveva essere andata.
Allora potrei dire che era dai tempi di The Kingdom (1994) che von Trier non si preoccupava così tanto della storia raccontata piuttosto che del modo in cui raccontarla (in ogni caso la ricerca estetica è sempre maniacale, ma ‘sta volta non scavalca la narrazione), eppure sono macroscopiche alcune facilonerie della sceneggiatura.
Potrebbero essere dunque gli intermezzi musicali? Potrebbero. Tali sequenze sono molto significative sia dal punto di vista della diegesi (come dicevo poc’anzi sono tutte scene che Selma immagina, o forse vede nel buio dei suoi occhi) che della tecnica utilizzata (sono gli unici momenti in cui la mdp è ben fissata e non se ne va in giro sulla spalla di qualche operatore) – fra le altre cose nel finale, durante l’ultima canzone, le riprese abbandonano la geometria dei precedenti stacchetti musicali per omologarsi alle tremolanti inquadrature del film salvo poi salire dolcemente in verticale per morire in quella schermata nera da dove tutto era iniziato, senza musica però, d’altronde Selma non c’è più per poterla sentire, e noi con lei –.

Potrebbero essere queste, insieme a molto altro, le ragioni che mi hanno fatto apprezzare Dancer in the Dark, ma forse le vere motivazioni non possono essere trascritte qui. Non è possibile tradurre l’alfabeto del cuore, e al contempo non lo si può dimenticare.
Guardate questo film. Ad occhi chiusi.

venerdì 27 novembre 2009

Progeny - Il figlio degli alieni

Tutto inizia una notte in cui il dottor Craig Burton (Arnold Vosloo) è a letto con sua moglie Sherry (Jilian McWhirter). Nel bel mezzo dell’amplesso la poveretta viene prelevata dagli alieni e fecondata col loro seme. Chiaramente la gravidanza non è proprio uguale ad una normale ed umana gestazione. Di conseguenza per Craig e consorte iniziano i problemi, soprattutto per lei.

E niente, ordinaria amministrazione direi. Se cercate un film sugli alieni questo non fa per voi.
Il tema ufologico è trattato all’acqua di rose con qualche riferimento più o meno attendibile ad abduzioni “reali”. Qualche elemento stringe la mano alla presunta verità: ominidi che comunicano telepaticamente attraverso una voce corale (“perché tu sei importante per noi”, quante volte viene detto?!) o il missing time che può essere ricordato soltanto dopo una seduta di ipnosi regressiva.
Ma a Yuzna non sembra importare poi molto del lato alieno – vedere come sono rappresentati i suddetti esseri: tentacolari e plasticosi, lontani quindi dall’iconografia classica – per ispezionare (in superficie) il lato umano col drammatico (si fa per dire) calvario di Sherry.

Yuzna è però un regista che sa rimestare nel torbido – ricordate Society - The Horror (1989)? – e piazza qua e là un paio di scenette gore che non sono malaccio. Certo, il budget non doveva essere dei migliori e per apprezzare il lavoro del regista bisogna chiudere almeno un occhio e mezzo, ma qualche spunto ad effetto c’è.
Poca roba eh, comparato ad altre opere Progeny è proprio un filmetto dove anche la sceneggiatura è parecchio raffazzonata. Ad un certo punto, per esempio, il marito lascia da sola la moglie alle prese con una crisi di nervi andandosene al lavoro. Voi penserete che non c'è nulla di male, ma c’è un piccolo particolare: la coppia aveva appena scoperto che Sherry portava in grembo una specie di Alien. Quale cosa migliore se non quella di lasciarla sola in preda ad incubi e dolori lancinanti?
Il finale invece è fico, cioè, più o meno. Almeno non è un finale buonista poiché molto cattivo (ma molto) con doppia beffa inaspettata visto il tenore del film.

Quindi, un breve riassunto di ciò che c’è: alieni tentacolari gelatinosi, le tette della McWhirter (niente di che), le budella della McWhirter (meglio delle tette forse), un tubetto di ferro che zitto zitto se ne va tra le gambe della McWhirter, un buco nel cielo fatto con l’antenato di Paint e Brad Dourif che fa l’ufologo senza sapere che qualche anno dopo diventerà un alieno per Herzog ne L’ignoto spazio profondo (2005).
Se pensate che tutto questo possa essere divertente avete un po’ di ragione, ma non troppa.

martedì 24 novembre 2009

Il nastro bianco

Uscito dalla sala mi ero promesso di non scrivere nulla su questo film.
Spaesamento e delusione: questi erano i sentimenti dominanti. Spaesato perché la mancanza di punti di riferimento è una costante nel cinema hanekiano, ma ‘sta volta anche un po’ deluso perché da Il nastro bianco mi aspettavo qualcosa di differente, non saprei dire precisamente che cosa, ma sicuramente non questo; forse tale scoramento derivava dall’hype che si era notevolmente amplificato con la vittoria di Cannes, e perciò sedendomi sui seggiolini pensavo di andare incontro ad un film sconvolgente quanto e più di Funny Games (1997): mi sbagliavo.
In breve: non mi aspettavo che Il nastro bianco fosse un film così.
E quindi ero fermamente deciso a non scrivere nulla poiché, detto in soldoni, non avrei saputo da dove iniziare.
Poi mi sono venute in mente le parole di un mio professore il quale ci diceva sempre che il vero studio inizia solo quando viene chiuso il libro. Così rientrando a casa ho iniziato a pensare al film, e l’ho fatto anche nei giorni successivi in cui l’eco di Das weisse Band si è diffusa sempre più nella mia testa, facendo sì che io assistessi due volte alla proiezione: una in sala ed una nel mio cervello. Se un film ha il potere di insinuarsi nella mente anche giorni dopo la sua visione significa che ha fatto il suo dovere. E quello scoramento che mi pervadeva all’uscita del cinema si è trasformato pian piano in entusiasmo. Avevo bisogno di metabolizzarlo, digerirlo, assimilarlo: assorbirlo. Solo dopo questo lento passaggio si può penetrare nella diabolica struttura dell’opera.
Una struttura in cui si avvertono gli strascichi dell’ultimo vero lavoro di Haneke: Niente da nascondere (2005). In questi due film l’attenzione non è focalizzata sul colpevole ma sulle dinamiche relazionali pre e post-crimine. Non rivelare l’identità di un assassino capisco che possa essere un colpo basso ai danni dello spettatore, ma ridurre un film di Haneke ad un banale gialletto sarebbe pericolosamente riduttivo e significherebbe mortificare letteralmente il lavoro di un regista che fin da The Seventh Continent (1989) “veste” i suoi film di un abito che in realtà cela significati ben più complessi di quanto lo sono in apparenza.
Rispetto a Caché la mole di materiale umano è maggiore, ed ogni personaggio, dal barone al contadino strabico, ha una caratterizzazione eccellente dovuta anche e soprattutto alla ricostruzione minuziosa che è stata fatta dell’ambiente rurale. La scelta del bianco e nero così perfetto, così lucido, fa da contrasto agli orrendi avvenimenti nella storia. Molti film attuali tendono ad enfatizzare le scene più crude con riprese nel dettaglio, montaggi frenetici e musiche ossessive; Haneke ha una visione totalmente differente della violenza, e ne Il nastro bianco, come in tutti i suoi film, continua a suggerire il male sussurrandolo senza alcun proclamo.

Chi ha teso quella corda? Come è morta la contadina nella segheria? Chi ha violentato il figlio del barone? Chi ha dato fuoco al granaio? Chi ha torturato il piccolo Karli?
Una delle chiavi di lettura adottata da molte recensioni è quella che vorrebbe vedere nel villaggio protestante la culla del nazismo, un’incubatrice della repressione, del sopruso, della violenza. La faccenda può essere interpretata anche così, senza dubbio, ma lo sguardo incolore di Haneke getta ombre che superano cronologicamente le due guerre per insediarsi nei giorni nostri, coprendo un arco temporale che racchiude in sé tutti quei tempi e luoghi in cui il nichilismo ha sopraffatto l’umanesimo. La mentalità nichilista, ormai innestata in maniera capillare nella società moderna, pervade condotte, sentimenti relazioni e azioni. Fanatismo, fondamentalismo e terrorismo sono alcune delle forme estreme di un nichlismo che penetra nella quotidianità annullando l’uomo: dalle banlieu alle bidonville, da Scampia allo ZEN di Palermo, dai lager ai gulag, dalla strage di Beslan al massacro di My Lai, dietro tutto ciò c’è sempre stato un piccolo paese in cui qualcuno ha teso una corda facendo inciampare un cavallo, oppure che ha violentato un bimbo o che ha quasi accecato un handicappato.

Ma chi è stato, allora, a commettere questi crimini? I bambini? Il dottore? Il pastore?
Haneke non ce lo dirà mai. La risposta è dentro di noi, ma dobbiamo fare in fretta a trovarla per non venire inghiottiti da quelle tenebre minacciose che calano nel finale.

domenica 22 novembre 2009

After Life

Cosa accadrebbe se una volta morte le persone della terra si ritrovassero ospiti per una settimana in un vecchio palazzo dove una squadra di consiglieri ha il compito di ricostruire attraverso un set cinematografico il ricordo più bello della loro vita che sarà anche l’unico che potranno portare nell’aldilà?

Da tale malinconico assunto parte questo film del 1998 diretto dal regista giapponese Hirokazu Koreeda. Un film che ha in sé molte delle peculiarità tipiche orientali; un’opera strana, in bilico fra spiritualità ed umanesimo.
In due ore di girato, la prima, almeno, è costituita più o meno esclusivamente dalle testimonianze delle varie persone che raccontano il proprio Ricordo; la camera è fissa su di loro mentre fuori campo si sente la voce di un membro dell’equipe che fa delle domande. Tutto come se fosse un’intervista documentaristica. È strano, appunto.
Il lato più toccante di questi essere umani è la loro serenità nell’accettare la morte: non c’è (quasi mai) il rimpianto della vita, nessuno di loro dà in escandescenza, anzi sono felici nel momento in cui riescono a rivivere il loro amato Ricordo.
Tra tutti i "clienti" si segnala un’adorabile vecchietta che sembra uscita da una manga, ed un triste settantenne che ha scelto… di non scegliere un ricordo. Gli altri "morti" si confondono sullo sfondo, un po’ per le loro storie poco intriganti, un po’ per il taglio da documentario che li vede sempre e solo dialogare con uno dei consiglieri divenendo così impossibile creare un legame empatico con loro.

Nella seconda ora si innestano nella trama principale le vicende di due consiglieri che lavorano nel palazzo: Shiori e Arata. Il loro progressivo ingresso non si amalgama granché all’interno del tessuto narrativo a causa della sopraccitata onnipresenza dei clienti sullo schermo. E così anche il finale risulta debole. Ma solo nella forma. Sì perché se gli elementi negativi da me evidenziati permangono, non posso non sottolineare la profonda riflessione compiuta dal regista con questo film.
Laddove After Life è "piccolo": nella sua messa in scena, nella mancanza di musiche e luci artificiali, si fa "grande" nella metafora rivelando la sua natura intima. C’è il mistero dell’uomo di fronte alla morte e alla vita, e l’inafferrabile Ricordo che diventa eterno grazie al cinema; d’altronde per ricreare quel preciso istante c’è bisogno della pellicola, solo tramite essa la memoria potrà conservare quel Ricordo. Il cinema che supera la morte donando una parvenza di vita. Mi piace.

Sospendo il giudizio, mai come questa volta c’è bisogno del vostro.

venerdì 20 novembre 2009

Back to the roots

Settecentotrenta giorni dopo sono ancora qua.
Sono.
Avere almeno una certezza come Essere è importante perché di (e da) qui si può partire. Quando aprii questo blog di certezze non ne avevo. Sapevo a malapena cos’era un blog, poi il resto è venuto da sé, cioè da me, ma ancora non ero me al tempo, forse non lo sono nemmeno ora, forse non lo sarò mai, ma ora sono, sono e ancora sono. Il viaggio potrebbe essere finito.
Però, prima che questa corsa abbia fine per sempre, ho voluto riportare tutto alla sua origine.
È solo un’illusione formale, non posso più tornare alla radice perché io, nella scrittura, nei miei interessi, nel mio angolo di visuale, sono cambiato in maniera (credo) irreversibile, ma almeno una parvenza d’amarcord non ho voluto negar(me)la. E quindi quell’headlines (si chiama così?) di Oldboy che ora campeggia sopra queste parole è la stessa di due anni fa, quando ancora Oltre il fondo non si chiamava Oltre il fondo, e quando ancora non avrei mai immaginato fino a dove sarei potuto arrivare, che non è niente ma al contempo è tanto, almeno per me.
Anche i colori dei link e del testo sono gli stessi dell’inizio, e come accennato fra le righe, saranno anche gli ultimi. Sì, non ci sarà un dopo, un qualcos’altro o un altroquando, resterà cristallizzato nel tempo, chiudendo ipoteticamente quel cerchio che avevo aperto mesi e mesi fa.

Lo so che vi starete domando quando chiuderò il blog - se non ve lo state chiedendo perché non ve ne frega un cazzo va bene uguale - e me lo chiedo anch’io. Una chiusura teatrale fra un anno esatto sarebbe una degna conclusione, avrei già in mente quale sarebbe l’ultimo film da recensire, quello definitivo oltre il quale non ci sarebbe più niente da scrivere. La speranza di arrivare fin là mi dà la spinta necessaria.
Ecco, il cinema. Questo blog è sorto dalle ceneri di un rapporto, storie di incendi e di ustioni permanenti, è nato in un periodo in cui non-ero, vivevo, sì, ma non-ero. E allora lasciavo segni della mia esistenza su internet. Testimonianze di una vita che rifacevo mia post dopo post. Poi lentamente tutto mi è scivolato dalle mani diventando sempre più impersonale. L’ho voluto io, anche inconsciamente, mi sono rifugiato in un mondo di cellulosa che ho scoperto pian piano, che ho amato ed amo, ma che dopo tante parole riversate su questo confortante spazio virtuale ora ha perso un po’ del suo fascino. Stanchezza, sì. Che nasce da una relazione quasi satura… dev’essere la crisi del settimo anno ridotto al secondo; si sa, son tempi duri questi, come lo sono sempre stati.

Eh, due anni di cazzate sincere.
Due anni oh, mica due giorni. Quante ore sono passate? Quante domande mi sono posto? Quante risposte ho trovato? Quante volte ho sorriso? Quante volte ho bestemmiato? Quanta pioggia mi ha bagnato? Quanto vento mi ha sfiorato? Quanto amore ho dato? Quanto ne ho ricevuto? Quanta paura ho avuto?
Quanta vita ho vissuto?
Quanto.
SONO.
Stato.
Vivo?

giovedì 19 novembre 2009

The Puzzle

L’avevo già detto, ma lo ripeterò. Il titolo di un’opera possiede sempre, e sottolineo sempre, una forza ostensiva. Che sia un libro, un racconto, una poesia, una canzone o un film, il titolo attesta e circoscrive un preciso argomento che verrà poi esteso con il svilupparsi della narrazione. Vale per tutto, anche per un cortometraggio di appena quattro minuti e qualche secondo.
The Puzzle (2008) è il terzo corto di Davide Melini, regista romano classe ’79 che ha girato questo film in una sola notte e in quattro lingue diverse.

La protagonista, interpretata da Cachito Noguera, riceve una telefonata da suo figlio che le chiede dei soldi. La donna, stizzita, riaggancia e decide di rilassarsi costruendo un puzzle. Il disegno che verrà composto sarà agghiacciante.

Il titolo del corto gioca su due piani. Uno più “basso” che richiama con semplicità il rompicapo con cui gioca la donna, ed uno più “alto” che avvolge dentro sé l’intera vicenda rendendola, appunto, un puzzle. I tasselli del mosaico non sono soltanto quelli che la donna incastra sul suo tavolo, ma sono anche, e soprattutto, i fotogrammi disseminati nella pellicola che compongono una sciarada quantomeno inquietante con la sua soluzione finale.
L’opera ha una sua dignità stilistica che affonda nelle pieghe baviane del tempo – mi ha ricordato tantissimo l’episodio Il telefono de I tre volti della paura (1963) – senza disdegnare i più recenti montaggi accelerati alla Kevin Greutert (montatore di tutti e cinque gli episodi di Saw nonché regista del sesto capitolo) accompagnati dalle musiche incalzanti del gruppo italiano Visioni Gotiche. Buono l’uso delle luci soprattutto quando esse non ci sono più, illuminando il volto della donna con l’alone tremolante di una candela.

Dimenticavo, sottolineo con piacere una minuscola citazione che spero non sia il frutto di una mia sovrimpressione: appena dopo la prima e unica dissolvenza in nero appare il Dettaglio di una spirale rossa che si rivelerà la piastra di un fornello. Quel ghirigoro, oltre a rafforzare il concetto di “labirinto” in cui versa il film, mi ha felicemente riportato alle spirali di Saul Bass in La donna che visse due volte (1958).

Se vi va potete vedere The Puzzle cliccando QUI.
E ingrazio sentitamente Davide Melini per avermi contattato.

martedì 17 novembre 2009

Bullet Ballet

Tokyo è un sogno, siamo tutti in un maledetto sogno.

No, il capo della gang criminale si sbaglia di grosso: non è un sogno, ma “solo” l’ennesimo incubo di Tsukamoto che getta il classico uomo medio (interpretato da lui stesso) negli ingranaggi sporchi e marci di una metropoli. Goda, questo è il suo nome, è alla disperata ricerca di una pistola, l’arma con la quale la sua compagna si è sparata un colpo in testa. In questa drammatica caccia incontra un gruppo di spietati delinquenti che lo riscucchieranno nella loro discesa all’inferno.

Non è mai facile parlare di Tsukamoto perché ogni volta che si conclude un suo film si è ancora lì a cercare di comprendere cosa sia successo. La sua narrazione, o forse meglio dire la sua “non-narrazione”, è psicotica, caotica, a tratti seriamente incomprensibile perché va troppo veloce. Noi, pigri spettatori occidentali, non siamo abituati ad un tale bombardamento di immagini + suoni. Però è doveroso provare a capire poiché Tsukamoto sa il fatto suo e non butta mai sullo schermo cose a caso.
Per l’occasione il regista rispolvera un bianco e nero alla Tetsuo (1989) ma qui più pulito, e come per le sue opere precedenti l’uso della mdp è frenetico, i movimenti sono concitati anche nelle scene di raccordo togliendo il respiro per tutta la durata del film. Lo spettatore precipita nello stesso delirio di violenza in cui finisce Goda, un labirinto urbano senza regole se non quelle dettate dalla sopraffazione e dal sopruso. Se il protagonista cerca una pistola per capire il passato e se stesso, noi inevitabilmente seguiamo il suo martirio senza redenzione. Intorno e con lui si muovono figure sinistre, non-vivi che iniettano nel loro corpo una sostanza chiamata speed (un nome un perché) illudendosi di essere vivi mentre in realtà sono più morti che mai. La conferma della propria esistenza è il leitmotiv nascosto della pellicola: tentano di Essere i membri della banda giocando con la vita sul ciglio della metropolitana, e cerca in egual maniera di dire Sono anche Goda, ma per lui accade qualcosa che va al di là dell’ontologia: si trasforma, come sempre per Tsukamoto. Anzi, si identifica con l’arma come il James Woods di Videodrome (1983). Non è più in grado di decidere la propria vita o la propria morte, chi lo decide è la pistola.

Bullet Ballet: la danza delle pallottole, una danza macabra degna del poeta francese François Villon il quale mi suggerisce le parole giuste per concludere: “La pioggia ci ha lavati abbastanza/e il sole ci ha anneriti e seccati; […]/Mai un solo istante restiamo seduti;/ di qua e di là, come fa il vento soffiando/a suo agio, senza tregua siam sballottati”.
Gli impiccati del poeta francese si credono vivi come i personaggi di Tsukamoto; lasciamoli sognare, tanto al loro risveglio si troveranno in un incubo... o all’inferno.

sabato 14 novembre 2009

Good Dick

Se guardo indietro mi accorgo che quel poco di inglese che so l’ho imparato in luoghi di apprendimento informale lontano dai banchi di scuola. E senza vergogna ammetto che, almeno per quanto riguarda le parti anatomiche dell’essere umano, una grossa mano me l’hanno data siti di divulgazione culturale come Pornhub o Youjizz. E quindi quando ho letto Good Dick ho subito drizzato le antenne, un po’ per il titolo in sé (oddio, non fraintendetemi) ma soprattutto perché fu presentato al Sundance 2008, ovvero il più grande Festival americano che tratta cinema indipendente dal quale ogni anno escono fuori dei piccoli gioielli.
Sundance + porno? Piatto ricco mi ci ficco.

Ma con relativo dispiacere sono venuto a scoprire che Good Dick di porno o pseudotale non ha assolutamente niente poiché racconta una storia d’amore anticonvenzionale fra il commesso di un videonoleggio (Jason Ritter) e una ragazza introversa (Marianna Palka, regista e sosia di Claudia Pandolfi) che esce solo per affittare film erotici. Lui, d’origini polacche e senza una casa fissa, insiste nel corteggiamento fino a trasferirsi in casa di lei che si dimostra sempre più indisponente nei suoi confronti. La loro relazione non ha intimità. L’unico, flebile, punto di contatto è la passione per il cinema.
Il tutto è velato da sottile ironia.

Insomma, una commedia romantica in piena regola… ma anche no.
Ciò che differenzia Good Dick da una qualunque pellicola con Hugh Grant o chicchessia è che in questo film non avviene una catarsi materiale dei sentimenti. Anche se l’amore trionfa (in sordina), sullo schermo i due protagonisti non consumano carnalmente il loro rapporto: né durante il film dove il massimo livello di avvicinamento è un “schiena contro schiena” nel letto, né alla fine dove non ci è concesso sentire il bisbiglio di lei nell’orecchio di lui. Dunque c’è sì un rilascio di sentimenti, ma che fortunatamente non si traduce nella canonica scena di sesso, pardon d’amore, tipica delle romcom. E questo è bene, per una volta ci si allontana un po’ dal modello Pretty Woman (1990).
La componente “commedia” si limita a strappare qualche sorriso, va bene così, dovuto più che altro a Ritter che come ogni innamorato cronico calpesta la sua dignità più e più volte. La gag più riuscita è quella della scommessa sul pisello del ragazzo (da qui il titolo?) in cui la gestione dei tempi comici è ben indirizzata nei confronti dello spettatore.

Qualcosa che invece non ho apprezzato granché (ma che tutto sommato non inficia più di tanto il valore dell’opera): i quattro colleghi della videoteca sono proprio delle macchiette di sfondo, il loro compito diegetico sarebbe quello di alleggerire la narrazione principale con qualche siparietto, ma non ci riescono perché sono personaggi troppo poco “caricati”, quasi anonimi.
Altra cosa non piaciuta: l’improvviso e frettoloso cambio di atteggiamento della ragazza. Il motivo scatenante del cambiamento sembra essere la finta prozia che le passa affianco mentre prende la posta, troppo poco per giustificare un tale cambio di rotta; serviva un elemento più presente durante lo svolgimento della storia, qualcosa che riproposto alla fine fosse in grado di legittimare la sua rinascita.

E vabbè, credevo fosse un porno invece era una commedia sentimentale, tra l’altro abbastanza gradevole. Ogni tanto ci vuole…

… un porno o una romcom? Ai posteri l’ardua sentenza.

mercoledì 11 novembre 2009

Encounters at the End of the World

A conti fatti gli mancava solo il Polo Sud.
Innamoratosi dalle riprese subacquee realizzate per L’ignoto spazio profondo (2005), Herzog nel 2007 parte destinazione Antartide con il suo fido operatore Peter Zeitlinger, un uomo che ha preso parte a praticamente tutti i film di Herzog degli ultimi dieci anni come direttore della fotografia.
Scopo di questa gita fuori porta è incontrare, quindi raccontare, esseri umani, e non solo, che vivono alla fine del mondo. Ma di quale mondo si tratti non lo sappiamo, perché di certo non sembra il nostro.

Herzog inizia la sua esplorazione da McMurdo, una base statunitense permanente situata sull’isola di Ross. Poi si reca da alcuni biologi che studiano le creature marine del mare sottostante, poi s’intrattiene con uno studioso di pinguini, poi fa visita ad alcuni vulcanologi concentrati sull’attività di un grosso vulcano.
In questo errare Herzog incontra (quante volte ritorna questa parola?) persone che potrebbero essere dei tanti piccoli Kinski, o dei stralunati Bruno S., oppure degli inguaribili ottimisti come Tim Treadwell. Insomma, le solite storie ai margini della società, routine in pieno Herzog style che ho sentito già decine di volte ma di cui non mi stancherò né ora né mai.
Questa volta hanno colpito la mia attenzione due personaggi. Il primo è un meccanico d’origine azteca che si vanta di aver il dito medio e l’anulare della stessa lunghezza, non so perché ma quel panzone ha un’aria sottilmente inquietante. Il secondo non è propriamente un attore - con Herzog, lo ricordo, anche la natura assume gli stessi connotati del cast – in quanto animale, nella fattispecie pinguino. L’uccello è protagonista della sequenza più toccante del documentario in cui si disegna metafora della poetica herzoghiana allontanandosi dal gruppo di pinguini per viaggiare solitario incontro ad una morte certa. Che sotto quelle piume ci sia stato Cobra Verde, il soldato Woyzeck o il vampiro Nosferatu? Lasciatemi immaginare di sì.

Il taglio registico è il solito. Si alternano panoramiche paesaggistiche (molto suggestive visto l’ambiente ripreso) ad interviste condotte da Herzog stesso che come d’abitudine si cala anche nelle vesti di narratore con quell’adorabile inglese teutonico.
Non il migliore dei suoi doc, ma di certo non sprecherete la vostra esistenza guardandolo.

Il documentario a tutt’oggi non ha ancora avuto una distribuzione ufficiale in Italia.

domenica 8 novembre 2009

Idioti

Che cosa sia Dogma 95 non verrò di certo a dirvelo io, e non perché abbia così tanta fiducia nelle vostre conoscenze cinematografiche, ma perché rischierei seriamente di scrivere delle castronerie avendo visto soltanto uno dei molti film che hanno aderito al manifesto: questo. Il secondo, cronologicamente parlando, anticipato da Festen – Festa in famiglia (1998, ma sono usciti entrambi nello stesso anno) diretto da Thomas Vinterberg, fondatore del movimento insieme a Von Trier.
Il Voto di Castità consiste nell’attenersi rigidamente (ma anche no) alle regole del Dogma che impongono l’uso della camera a mano per le riprese ed il divieto di utilizzare scenografie e musiche extradiegetiche, più altre quisquiglie. In realtà non sempre le norme dogmatiche sono state seguite alla lettera, Idioti ne è un esempio, poiché l’interpretazione del manifesto è a discrezione di ogni singolo regista.
Mi rendo conto che è più adeguato parlare al passato in quanto Dogma 95 ha chiuso i battenti esattamente dieci anni dopo la sua nascita, e mi rendo conto di aver tradito immediatamente il mio incipit illustrandovi sbrigatamene che cosa sia questo movimento cinematografico. Ma vabbè.

Non so se sbuffare dopo la visione di Idioti, non so se gioire, non so che fare.
Mi viene impossibile gridare al capolavoro perché io sono uno strenuo sostenitore del racconto, preferisco una solida narrazione ad un’eccessiva cura formale. Che qui, per inciso, di tatto estetico non ce n’è, ma Von Trier attenendosi ai principi dogmatici crea un film con una propria forma – tremolante, obliqua, rabberciata – che nell’apparire brutta, per non dire fastidiosa, alla vista, diviene la sintomatica espressione di una precisa ricerca stilistica, attraente o no che sia.
L’impressione, del tutto personale, è che il divertimento (leggi: coinvolgimento) in Idioti propenda più dalle parti di Von Trier che questo film l’ha fatto, piuttosto che dalle parti dello spettatore che il film l’ha guardato.
Tutto questo infiacchisce la narrazione, sicuramente l’ultima delle preoccupazioni nel suo cinema, che ha un discreto assunto di base supportato da un cast coraggioso, ma che si perde dentro se stesso e dentro le sue stesse regole.
Io parto dal presupposto che un film venga ideato per suscitare nel cuore di chi lo guarda un qualche sentimento, dal più nobile al più infimo. Idioti produce una reazione pericolosa: l’indifferenza che nasce dalla paura. L’indifferenza è inevitabile perché è la natura costitutiva dell’opera ad essere così. Fredda e grezza. Non ci sarà mai empatia per questo gruppo di persone che si fingono dementi, né odio né amore, solo profonda indifferenza.
E da questa angolazione la pellicola acquista punti perché riproduce la non-opinione che in fondo la società ha dei deviati, ritenuti diversi e quindi “spaventosi” al punto di essere apatici nei loro confronti. Non per niente le scene migliori sono quelle in cui il gruppo di idioti interagisce con le persone “normali” che hanno sempre reazioni distaccate o finte perbeniste nei loro confronti.
Moralismo da due soldi o meno, Von Trier sotto questo punto di vista ha centrato il bersaglio, e lo ha fatto utilizzando il metodo come fine. Attraverso il filtro cinematografico del dogma ha modellato l’opera e le sue componenti.
Siamo indifferenti come lo saremmo nella realtà di fronte a quegli idioti? Bravo Lars, ma lo dico in maniera distaccata, non posso fare altrimenti.

Idioti è il capitolo centrale della Trilogia del Cuore d'Oro. I due estremi sono Le onde del destino (1996) e Dancer in the Dark (2000).

Inoltre il regista Jesper Jargil ha girato un documentario intitolato The Humiliated (1998) che riprende il dietro le quinte del film.

giovedì 5 novembre 2009

Intruders

Film per la tv americana del 1992 (occhio che la data è molto importante) diretto da Dan Curtis (1928 – 2006), regista e sceneggiatore televisivo che girò parecchie serie nel corso della sua carriera spaziando dalle atmosfere dark di Trilogia del terrore (1975) a quelle belliche di Venti di guerra (1983).

L’argomento trattato in Intruders è presto detto: abductions, ossia rapimenti alieni.
Il fatto che questo film sia una produzione a stelle e strisce mi faceva tremare i polsi prima della visione, non foss’altro perché temevo due ore e quaranta minuti di mostri mostruosi che saltavano da una parte all’altra dello schermo. Invece posso affermare con un certo sollievo che l’approccio di Curtis al tema ufologico è abbastanza lontano dal voler spettacolarizzare tutto ad ogni costo, ed anzi, la pertinenza degli argomenti trattati lascia intendere che dietro alle storie rappresentate ci sia stata una ricerca accurata se non nei minimi particolari, almeno in linea di massima. Questo è significativo perché nel 1992 non erano ancora successi due eventi fondamentali per gli appassionati di alieni: il video (tarocco, a quanto si dice) di Santilli del 1995 che ha dato un impulso senza precedenti al fenomeno in questione, ma soprattutto internet! Oggi, attraverso la rete, è possibile sapere in tempo reale se un contadino della Patagonia ha visto delle sfere luminose nel cielo, e le probabilità che in quel momento il suddetto contadino sia devastato dall’alcol non limitano il fatto che un ragazzino dall’altra parte del globo possa venire a saperlo. Tutto ciò alimenta inevitabilmente falsi miti che si gonfiano col passaparola, ma se davvero quel contadino avesse visto “qualcosa” nel cielo?
Nel ’92, di certo, non era così. Degli alieni si sapeva poco (in confronto a oggi), e ancora meno si sapeva delle cosiddette abduzioni (non che oggi se ne parli troppo in giro, forse perché non c’è niente di cui parlare, ma su internet ci sono storie mirabolanti). E la cosa che più mi ha stupito è che ci sono delle grandi similitudini fra la storia di Mary (desunta da fatti presumibilmente accaduti) e le molteplici storie che possono essere consultate nei siti appositi.
Qualche esempio di ciò che accade nel film: gli alieni prelevano le due donne principalmente di notte; inoltre esse hanno un missing time, ovvero un vuoto temporale nella memoria di qualche ora che viene ricordato tramite l’ipnosi regressiva; gli alieni comunicano con i rapiti solo ed esclusivamente attraverso il pensiero; la scelta di “chi prelevare” avviene attraverso una pseudo discendenza, cosicché il figlio verrà rapito così come lo è stato per la madre, per la nonna e così via; nel film vengono mostrati i canonici “grigi” ed anche i famigerati “biondi”; infine viene illustrato uno degli scopi di questi rapimenti: la creazione di una specie ibrida.
Tali somiglianze sono rintracciabili in qualunque testimonianza di abduction. Da questo punto di vista il film è fatto molto bene perché è attinente all’argomento, che poi… beh, non si tratta di un qualcosa scientificamente comprovato e dunque la fedeltà logica non è una verità assoluta come potrebbe essere un film sui bradipi. Se uno nel suo film mette dei bradipi che superano sulla sinistra dei ghepardi ecco che l’opera non è fedele alla realtà. Ma qui si tratta di un qualcosa che a conti fatti non esiste ufficialmente, e quindi che un alieno venga rappresentato bassetto e grigio o che invece sia il sosia di Michael Jackson, non falsifica né invera la realtà, semplicemente perché non sappiamo quale sia. Insomma voglio dire che il film ha una coerenza… illogica, si basa su fatti che non sono riscontrabili empiricamente ma solo per sentito dire (certo, ora potranno venire qua centinaia di addotti a presentarmi le loro prove, e io lo spero perché voglio crederci, ma che siano concrete queste prove!); magari un giorno l’etichetta qua sotto diventerà “Drammatico” e non più “Fantascienza”, nel frattempo non può che restare così com’è.

Ormai dubito che qualcuno sia arrivato fin qui nella lettura, ma comunque se del film si deve parlare è giusto dire che al di là delle cose buone qua sopra, tecnicamente è tutto da dimenticare. Anche lo sguardo di un neofita riconoscerebbe subito una fotografia da porno anni ’80 con nebbiolina misteriosa che si dipana sulla scena, uguale a quella di Communion (1989).
Inquadrature dozzinali e sceneggiatura così così (alcuni punti troppo approfonditi, altri troppo poco) ne fanno un’opera non memorabile, ma se cercate un film che tratta in maniera decente il tema delle abduzioni questo è quello che fa per voi.