Per via delle poche informazioni reperibili ci si affida alle sensazioni e a quanto gli occhi riescono a captare: i triangoli sopraccitati ora sono due solidi futuristici posti l’uno sopra l’altro, nello spazio libero c’è l’uomo, o meglio un gruppo di uomini in boxer assembrati su se stessi, un’altra voce over, questa volta più nitida, ci parla di naufraghi (da qui il collegamento con il quadro di Théodore Géricault), di acqua alta, di una situazione altamente problematica, e al contempo, tra le righe, suggerisce che tale situazione sia da intendere su scala maggiore, praticamente universale nonché radicata nel presente. Non ne sono convinto al 100% ma il parallelo potrebbe volgersi al sempre attuale dramma dei migranti poiché nella descrizione del progetto leggibile sul sito della Lamas (link) si afferma che: “[...] è un’allegoria per quegli stati di emergenza relativi a politica ambientale, clima e migrazione, con uno scopo etico-politico”. Va da sé che visionare solo una piccola parte dell’intero è veramente troppo limitante e di conseguenza c’è da sospendere in automatico qualsivoglia giudizio (il finale in 3D, che non so se dipenda dalle altre componenti artistiche di Extraction, non l’ho proprio capito), resta comunque acceso l’interesse per la regista portoghese.
lunedì 21 febbraio 2022
Extraction: The Raft of the Medusa
venerdì 11 febbraio 2022
Il buco
Tutti sappiamo che la visione di Frammartino è quanto di più documentaristico ci possa essere, eppure riconosciamo, con medesima fermezza, che all’interno del suo reale ci sono dei rigagnolo finzionali a cui bisogna dare conto. Anche il primissimo lavoro del filmmaker (Il dono, 2003) possedeva questa caratteristica e parimenti ce l’ha anche Il buco, solo che qui il discorso si fa molto più interessante. Viene inserito infatti un pastore il quale, oltre a rappresentare un po’ l’archetipo del cinema frammartiniano che ricerca da sempre una connessione tra l’uomo e la natura, diventa l’antropomorfizzazione del luogo in cui vive, ma non vorrei ridurre la cosa al paesino arroccato sui monti, il pastore è una figura che racchiude in sé qualcosa di molto più grande, ed è qui che la pellicola alza il proprio tiro, è qui che guarda, e ci permette di guardare, più lontano. Se notate si imbastisce un sottile parallelo tra il gruppo di speleologi e l’anziano, quest’ultimo, nel momento in cui gli esploratori cominciano ad andare nelle profondità dell’inghiottitoio, cade in uno stato comatoso che lo porterà alla morte. Non è e non può essere un caso, ciò che Frammartino sembra dirci è che la probabilmente inevitabile violazione di una riserva di naturalità comporta sempre delle conseguenze, la deflorazione della cavità sotterranea segna il passaggio verso un altro periodo storico (in tal senso il bruciare la rivista Epoca per fare luce mi è sembrata una trovata da applausi), il nuovo avanza, il vecchio muore, il futuro si stabilizza, il passato si fantasmatizza (la nebbia del finale e quell’ultima eco che si propaga nella valle).
Dato che Frammartino, pur avendo girato solo due lungometraggi negli ultimi undici anni con l’intermezzo di Alberi (2013), si è guadagnato un’ampia rispettabilità da parte della critica che conta e dai Festival più prestigiosi, che può aggiungere un blog scritto da un ectoplasma al cospetto di un ammirevolissimo sforzo tecnico e della complessità derivante dal fare un film nel sottosuolo? Nulla, se non ricordare per pura cronaca che esiste un’opera cilena avvezza a destreggiarsi in angusti simili territori (Viejo calavera, 2016) e che il cinema di MF, in buona sostanza, è rimasto inalterato fin dagli albori, pregio o difetto? Non lo so.