lunedì 21 febbraio 2022

Extraction: The Raft of the Medusa

Ci sono ben sette anni di differenza tra Terra de ninguém (2012) e Extraction: The Raft of the Medusa (2019), periodo nel quale Salomé Lamas si è data molto da fare tra film e progetti che vanno al di là del cinema, purtroppo di tutte queste produzioni non si è ancora potuto vedere nulla per cui l’arrivo ad Extraction ci vede privi di appigli, di sicuro è un lavoro che ha cornice, impostazione e direzione completamente diverse rispetto al documentario precedente, parliamo di un’opera multidisciplinare presentata a cavallo tra il 2019 e il 2020 presso la Fundación Luís Seoane a La Coruña composta da due cortometraggi, una installazione e un libro. Il titolo riprende il dipinto omonimo del 1818 La zattera della Medusa, attualmente conservato al Louvre, che compare in bianco e nero all’inizio della visione sia in forma intera che sezionato nel perimetro di due triangoli, sullo sfondo abbiamo poi un’immagine spaziale della Terra unita a una voce robotica inglese che sembra provenire da un lontano altrove.

Per via delle poche informazioni reperibili ci si affida alle sensazioni e a quanto gli occhi riescono a captare: i triangoli sopraccitati ora sono due solidi futuristici posti l’uno sopra l’altro, nello spazio libero c’è l’uomo, o meglio un gruppo di uomini in boxer assembrati su se stessi, un’altra voce over, questa volta più nitida, ci parla di naufraghi (da qui il collegamento con il quadro di Théodore Géricault), di acqua alta, di una situazione altamente problematica, e al contempo, tra le righe, suggerisce che tale situazione sia da intendere su scala maggiore, praticamente universale nonché radicata nel presente. Non ne sono convinto al 100% ma il parallelo potrebbe volgersi al sempre attuale dramma dei migranti poiché nella descrizione del progetto leggibile sul sito della Lamas (link) si afferma che: “[...] è un’allegoria per quegli stati di emergenza relativi a politica ambientale, clima e migrazione, con uno scopo etico-politico”. Va da sé che visionare solo una piccola parte dell’intero è veramente troppo limitante e di conseguenza c’è da sospendere in automatico qualsivoglia giudizio (il finale in 3D, che non so se dipenda dalle altre componenti artistiche di Extraction, non l’ho proprio capito), resta comunque acceso l’interesse per la regista portoghese.

venerdì 11 febbraio 2022

Il buco

Il buco (2021) ci parla di un buco, che è nella Terra e che si inoltra per oltre seicento metri verso il centro di essa, constatazione facile così come è facile inquadrare l’approccio di colui che sta dietro la macchina da presa, ovvero quel Michelangelo Frammartino che ormai più di due lustri fa irruppe nel panorama autoriale con Le quattro volte (2010), un film che aprì nuovi scenari per il cinema italiano e che creò un vero e proprio filone ancora oggi piuttosto in auge. È forse meno facile, invece, rispondere al quesito che abbraccia l’intero film: perché il regista lombardo, ma calabrese d’origine, ha scelto l’Abisso del Bifurto come nucleo della sua opera? È un simbolo? È una metafora? Allora, credo che ci sia una certezza sotto gli occhi dello spettatore: che Frammartino, per la prima volta in carriera, fornisce delle coordinate temporali, siamo nell’Italia degli anni ’60 che va a due velocità (ah... e invece adesso come stanno le cose?), a Milano si ascende su per un moderno grattacielo, in Calabria si scende giù nelle viscere di una grotta inesplorata, questo mettere in esposizione due istanze contrapposte, questa anabasi vs. catabasi, è ciò che struttura il film, l’autore pone in dialogo due realtà che si trovano a latitudini differenti e che corrispondono al riflesso di un Paese inevitabilmente sbilanciato. È, se vogliamo, un ritratto sociale d’epoca (ma ripeto: oggidì sarebbe diverso? Sarà che l’Italia ha una perenne spaccatura endemica?) in trasparenza, un confronto suggerito e diluito nell’impostazione contemplativa, ma nulla mi vieta di pensare che tale comparazione è talmente evidente da essere troppo evidente, perciò, analizzando più a fondo la questione, ritengo ci sia un ulteriore piano di lettura che sintetizzo qui sotto.

Tutti sappiamo che la visione di Frammartino è quanto di più documentaristico ci possa essere, eppure riconosciamo, con medesima fermezza, che all’interno del suo reale ci sono dei rigagnolo finzionali a cui bisogna dare conto. Anche il primissimo lavoro del filmmaker (Il dono, 2003) possedeva questa caratteristica e parimenti ce l’ha anche Il buco, solo che qui il discorso si fa molto più interessante. Viene inserito infatti un pastore il quale, oltre a rappresentare un po’ l’archetipo del cinema frammartiniano che ricerca da sempre una connessione tra l’uomo e la natura, diventa l’antropomorfizzazione del luogo in cui vive, ma non vorrei ridurre la cosa al paesino arroccato sui monti, il pastore è una figura che racchiude in sé qualcosa di molto più grande, ed è qui che la pellicola alza il proprio tiro, è qui che guarda, e ci permette di guardare, più lontano. Se notate si imbastisce un sottile parallelo tra il gruppo di speleologi e l’anziano, quest’ultimo, nel momento in cui gli esploratori cominciano ad andare nelle profondità dell’inghiottitoio, cade in uno stato comatoso che lo porterà alla morte. Non è e non può essere un caso, ciò che Frammartino sembra dirci è che la probabilmente inevitabile violazione di una riserva di naturalità comporta sempre delle conseguenze, la deflorazione della cavità sotterranea segna il passaggio verso un altro periodo storico (in tal senso il bruciare la rivista Epoca per fare luce mi è sembrata una trovata da applausi), il nuovo avanza, il vecchio muore, il futuro si stabilizza, il passato si fantasmatizza (la nebbia del finale e quell’ultima eco che si propaga nella valle).

Dato che Frammartino, pur avendo girato solo due lungometraggi negli ultimi undici anni con l’intermezzo di Alberi (2013), si è guadagnato un’ampia rispettabilità da parte della critica che conta e dai Festival più prestigiosi, che può aggiungere un blog scritto da un ectoplasma al cospetto di un ammirevolissimo sforzo tecnico e della complessità derivante dal fare un film nel sottosuolo? Nulla, se non ricordare per pura cronaca che esiste un’opera cilena avvezza a destreggiarsi in angusti simili territori (Viejo calavera, 2016) e che il cinema di MF, in buona sostanza, è rimasto inalterato fin dagli albori, pregio o difetto? Non lo so.