In realtà Alberi
(2013) è stata una cineinstallazione che prese più volte
vita qualche anno fa in vari luoghi del pianeta (Milano e New York di
sicuro), oggi, per chi vuole visionare il lavoro di Frammartino, può affidarsi al buon vecchio asinello il quale offrirà
agli interessati un rippaggio non esattamente eccellente di una
qualche terza serata raimoviana (Rai che appoggia da tempo il regista
di origini calabresi), ne consegue che un giudizio sull’opera sarà
giocoforza snaturato vista l’impossibilità di osservarla nel suo
vero habitat (si tentò, pare, di immergere il visitatore con una
proiezione in loop e con la riproduzione di un ambiente agreste a
fare da cornice), detto ciò non credo che qualcuno si indigni se il
sottoscritto proverà comunque a dire la sua nonostante
l’incompletezza della fruizione, e come sempre è utile partire
dall’inizio: la lunga e virtuosa fluttuazione tra le frasche che
approda nel campo lunghissimo del paesino, sembra – sperando di non
sovrainterpretare – il puntuale proseguimento del cinema di
Frammartino tatuato nella diade Uomo-Natura, sicché dopo un incipit
che ci prende per mano dentro la lussureggiante boscaglia fino a
condurci nella civiltà, il discorso prosegue con la suddetta civiltà
che ritorna ad uno stato naturale vestendo panni arborei. Inevitabile
ricorrere con la mente a Il dono (2003) e a Le quattro volte
(2010) per certificare un coeso senso di insieme intarsiato da
tematiche ricorrenti come l’ambiente bucolico, il ritorno alle
origini, l’archetipo e la presenza quasi sciamanica dei rituali.
Allo stesso modo ritengo
necessario affermare che Alberi sia privo dello spessore che
invece elevava i due film precedenti, qui viene meno, anzi non è
proprio pervenuta, quella qualità di saper trovare una strada
narrativa pur non avvalendosi minimamente dei canoni del racconto, quanto rimane allora, oltre alla succitata costanza autoriale e
oltre ad una suggestione visiva data dagli uomini-albero, è il
ritratto folkloristico di un antico rito, che poco potrebbe non
essere se ci si vuole fermare all’immediatezza, ma conosciuta la
carriera di Frammartino a certe altezze con Alberi non si
giunge e la motivazione, giusto per ripetere, è l’assenza di quel
fertile movimento che vede la capacità (o la bravura) di riuscire a
plasmare una storia di “finzione” (prendete con le molle questa
definizione, la finzione di Frammartino non ha niente a che fare con
l’uso comune del termine) avvalendosi soltanto della realtà, una
realtà che nel film in questione è palese che ci sia ma che non
plasma nessuna storia se non quella che esiste già e che al massimo
viene carpita.
Secondo me Alberi riesce molto bene a rendere conto della interdipendenza fra uomo culturale e uomo naturale, e dell'armoniosità della civiltà montana. Interessante, quanto potenzialmente discutibile, anche il tentativo di recuperare un antico rituale.
RispondiEliminama sì, quello che dici è riscontrabile però, come dire, non mi è bastato. Se lo si rapporta alle due opere precedenti dove nella ripresa del reale si trovavano interessanti risvolti narrativi, in Alberi rimaniamo decisamente più sul versante documentaristico senza muoverci di un passo. Mi spiace comunque scadere nel paragone come metro di giudizio, non sono mai riuscito a capire se sia un valido criterio di riferimento o meno. Ad ogni modo, perché "potenzialmente discutibile"?
RispondiEliminaPerchè hanno preso un rituale ormai nel dimenticatoio e lo hanno "risistemato" in un contesto nuovo e simile. A me non dispiace come azione dal punto di vista antropologico, ma certo può generare legittimi dubbi
RispondiEliminaGuarda, proprio qualche giorno fa giro tipo su Rai 3 e becco un programma itinerante dove mostravano varie curiosità tipiche dell'Italia meridionale, e che ti becco? Il paese ripreso da Frammartino, o se non quello un altro in cui viene seguito il medesimo culto degli uomini-alberi, e mi sono chiesto quale fosse la differenza sostanziale tra le due proposte. Chiaro che c'è un abisso tra un'opera artistica (e Alberi lo è a tutto tondo viste le sue apparizioni museali) e un servizio televisivo, il nocciolo rimane però sempre una simile azione divulgativa che accetto senza lasciare che mi entusiasmi.
RispondiEliminaEraser: io provengo dal paese che ha ispirato la storia (o l'abbozzo di storia) di fondo del lavoro di Frammartino.
EliminaStoria mutuata da una tradizione, fortemente sentita e legata indissolubilmente a riti carnavaleschi.
Posso assicurarti che nel lavoro vengono ripresi vari paesi lucani e differenti contesti avulsi dalla maschera (l'uomo-albero, il "Rumit") che diventa la chiave di volta per annuire ad una possibile armonia/distanza tra uomo e natura.
Come te, ho amato molto i lavori precedenti di Frammartino e in questo breve spaccato artistico (nonostante la mia impossibile obiettività) ha delineato una stortura nel messaggio: la divulgazione non deve passare da un'opera artistica, ma da connessioni che chi fruisce l'opera mette in azione.
Mentre ne IL dono la ripetitività dei gesti e della cura della forma impreziosita il contenuto, in Alberi il flusso sinergico di immagini rumorine suggestioni rimane incompleto e privo di forza.
Ti ringrazio per averbe parlato come sempre con parole illuminanti.
Emmegí: il rituale, antico e rinvigorito negli anni, aveva e ha un suo potenziale che il lucido (e curioso) Frammartino voleva approfondire con i suoi strumenti e la sua linea creativa.
Ti assicuro che il rituale sopravvive e sopravviverá anche in futuro e l'uomo albero resta un simbolo che ci inorgoglisce.
La fruizione di una simbologia, tramite un mezzo di intermediazione, non può mai restituire una purezza totale (per questo sono scettico sull'aspetto antropologico da te menzionato, sulla potenza culturale ed evocativa invece spero che il messaggio di Alberi possa arrivare anche fuori dai miei confini).
Il prossimo Carnevale, qualora foste curiosi, potreste venire in Basilicata per scoprire tutta la genuina bellezza de la foresta che cammina e la sua maschera
Forse c'è un equivoco, io parlo del rituale, non del film/ripresa video del rituale ;-)
RispondiEliminaCiao Chand, il concetto che esprimi, ovvero che "la divulgazione non deve passare da un'opera artistica, ma da connessioni che chi fruisce l'opera mette in azione" è un'idea che mi stimola e su cui credo sia doveroso riflettere. In generale sono d'accordo con questa visione e allargando un po' il discorso rimango dell'opinione che dal Cinema io non voglio dei depliant illustrativi, per carità mi stanno anche bene, e difatti sono comunque contento di aver visto Alberi perché mi ha permesso di conoscere una realtà ignorata (giusto per rispondere anche a Emmegì), ma certe stimolazioni, certe vibrazioni non vivono nel semplice esplicativo. Mi fa un pizzico di piacere ritrovarmi su una simile lunghezza d'onda di chi conosce la materia forse meglio del regista stesso.
RispondiEliminaLa penso esattamente come te: una visione cinematografica non Deve sostituire mai l'esercizio e lo studio di un libro/di una materia.
RispondiEliminaDi sicuro può incuriosire o fascinare e, spero, fosse questa l'idea del regista.
Ci ho parlato pochi minuti, nei giorni precedenti al Carnevale in cui girava parte delle riprese: ho avuto la percezione netta che voglia preservare una sua integerrima filosofia nell'avvicinarsi alla materia, nel filmarla, plasmarla e farla assorbire all'occhio di chi guarda.
Senza comprometterla, per quanto possibile.
In un regista, per la mia modesta opionione, questo approccio è una carta vincente.
Anche quando scantona, come nel caso DK Alberi.
Poi tutto è opinabile ma, come nel 99,99% dei casi, le tue recensioni rispecchiano il mio punto di vita e lo corroborano con spunti di riflessioni fondamentali.
Quindi il piacere è sempre mio nel sapere che esisti.
Premessa personale: sono metà lucano, un quarto accetturese, e le mie origini culturali, simboliche e spirituali sono state sempre coltivate al punto da rappresentare delle vere e proprie tracce per il mio cammino :)
EliminaDa quel che ho letto da interviste a Frammartino, ma potrei non ricordare alla perfezione, lui si è inserito in (o ha promosso) un progetto di revival di questo splendido rito arboreo che era in sparizione, effetuando uno spostamento di contesto pur rimanendo in un territorio più o meno uguale. Ciò ha permesso di recuperare e rinnovare un rituale, restituito alla comunità che ha deciso di riprenderselo e farlo rivivere, anche grazie all'attenzione dell'artista. Non è raro in questo periodo che in piccole realtà di provincia possano accadere fenomeni simili, a volte con risultati bislacchi se non detestabili; altre, come in questo caso, con prodotti artistici di rilievo e un lavoro di ispirazione antropologico con la comunità che IO trovo bello e interessante... pur se discutibile da chi non si trova coinvolto e "su un certo cammino" come me.
Emmegi: credo sia bello stimolare un dibattito partendo dalla visione di qualcosa che ha prodotto una reazione in chi guarda, fosse anche confusa o di delusione.
RispondiEliminaIn realtà, non scrivo per correggerti ma solo per una percezione chiara del contesto, Frammartino ha usufruito dei fondi regionali e della locale film commissione per conoscere la materia del suo lavoro e portare avanti il suo progetto e, d'altro canto, la comunità ha dato il suo benestare affinché il rituale fosse ripreso e valorizzato dalla sua arte.
Rituale presente da anni, in differenti forme o caratteristiche, con periodi di relativo smalto ed altri abbastanza obliabili.
Un do ut des che inevitabilmente avrebbe portato a benefici da entrambe le parti.
Adesso che sono passati un po' di anni si può constatare come la diffusione di una tradizione locale abbia raggiunto ambiti diversi, anche grazie al contributo artistico di Frammartino.
La comunità può quindi fregiarsi di una sponda artistica ad un rito sociale e culturale, con la speranza che chi guarda il lavoro di Frammartino, grazie all'eroico Ghezzi o in qualche sporadica installazione, possa farsi trasportare dal demone della curiosità e approfondire il motivo e la persistenza di una maschera arborea presente in uno sperduto villaggio lucano.
Chissà se è stata un'occasione perduta (come io penso) e il connubio arte-antropologia possa davvero incidere sul tessuto formativo di un territorio, di sicuro bisogna continuare a cercare il bello, innamorarsene, valorizzarlo ed avere una mente predisposta a "cambiare cammino talvolta".
Scusate la lunghezza di questi post
condivido tutto. se vuoi condividere ancora informazioni su cosa è successo da te prima durante e dopo, avrai orecchie interessate ad ascoltare!
EliminaLunghezza? I tuoi interventi per quanto mi riguarda sono fin troppo brevi. Questo scambio di commenti mi ha ricordato per cosa può ancora valere la pena scrivere un blog: far sì che tre persone sconosciute si ritrovino a discutere di qualcosa che le ha toccate. Certo, ciò succede anche su facebook e instagram e chissà dove ma l'alta accessibilità di quegli spazi trasforma irrimediabilmente il tutto in un chiassoso pollaio.
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