mercoledì 7 febbraio 2018

The Square

Più che la presenza ricorsiva del “quadrato” (è davvero una figura costante all’interno del film, da Christian ripreso fuori dal portone di casa ingabbiato nel triplice vetro a sua figlia che durante il saggio di danza balla su un grosso tappeto rettangolare), è opportuno concentrarci sul significato di “piazza” che non è, almeno non soltanto, il nome dell’installazione artistica di lì a venire, ma un’idea-base che Ruben Östlund utilizza per centrare The Square (2017), e se la intendiamo come un luogo aperto ecco che una piazza, percepibile come spazio comune, area di incontro, diventa il focus concettuale attraverso il quale tematizzare alcuni argomenti dell’odierna società, non a caso l’innesco narrativo si aziona in una affollata zona di Stoccolma dove il protagonista incappa in un’estraneità immotivata e investente (notare il gongolamento successivo trascurante il fatto che, con il furto del portafoglio, la collisione tra due sistemi è appena avvenuta). Sarà una costante: Östlund allestisce una sorta di ring (tanto per rimanere nel campo dei quadrilateri) in cui fa interagire elementi sociali idiosincratici che, banalmente, pur credendosi lontani risultano inevitabilmente, urgentemente vicini. Per arrivare a trasmettere la sua tesi il regista svedese utilizza un personaggio elitario, un alto borghese, un uomo identificabile nel ceto abbiente, snob, privilegiato. L’inserimento visivo di questuanti, la scelta del reparto marketing del museo di far letteralmente esplodere una bimba poverella, sono i primi segnali che mi sovvengono atti a corroborare l’impressione che il film offra una lettura, sardonica, come da tradizione per il regista, delle tensioni contemporanee tra le classi e non incide nemmeno troppo il fatto di trovarci geograficamente in Svezia, quanto si evince, e probabilmente l’avranno evinto anche i giurati di Cannes, è che la faccenda sia applicabile all’Europa intera.

Ma mettiamo più a fuoco la persona-Christian: è lui il vero moto costante dell’opera ed è lui che si fa un po’ sineddoche delle agitazioni pubbliche in un procedimento che prende eventi diversi, piccoli e quasi inessenziali a mo’ di paradigma, il fatto più evidente è quello legato alla ricerca di un colpevole attraverso il blitz nel quartiere periferico, pur nascendo in modo giocoso su suggerimento del collega (i due che se la ridono ascoltando i Justice – nomen omen – senza sapere a cosa andranno incontro) l’azione finisce per avere risvolti morali che Östlund si prodiga nel mostrarci, non ce ne accorgiamo in modo evidente perché The Square ama tenere vivi più fili del racconto, ma Christian compie una sorta di percorso conoscitivo verso gli “altri” che popolano la piazza, l’occasione si certifica con l’autoconfessione, preceduta dalla ripresa aerea in cui l’uomo rovista in un mare di immondizia (ripeto: un esperto d’arte che fruga nella spazzatura: è il cambio di prospettive), dove il mea culpa, un filo forzato, va dal singolare al collettivo (leggi: occidentale) che è un attimo. La vita di Christian è inoltre teatro di un ulteriore ruggine che paradossalmente va nella direzione opposta al senso teorico che l’opera museale vuole promulgare, mi riferisco al rapporto che si instaura con la giornalista americana la quale lo accusa (probabilmente a ragione) di sfruttare la sua posizione professionale per fare colpo sulle donne, è un altro esemplare di iniquità che costella un’esistenza (non troppo dissimile dalla nostra, a prescindere dalla propria condizione) punteggiata dall’assenza cronica di “fiducia e altruismo”.

A questo punto sento però di accodarmi alle non poche recensioni in Rete che una volta snidati i contenuti supportanti hanno chiosato spostando l’ago del giudizio più sul nì che sul sì pieno. Ad Östlund, l’autore che forse più di ogni altro ha digerito la lezione di Roy Andersson, non è che possiamo rimproverare chissà che, nemmeno la corposa durata o quell’aria sottilmente infruttuosa che in qualche modo captiamo, forse è che i vincitori stanno sempre invisi perché non è mai automatico che siano i migliori, forse, molto più semplicemente, non è questo il cinema che vogliamo, e quale sarebbe allora? Ad esempio quello che non concede gratuitamente una sequenza appetibile giusto da un palato indulgente, mi riferisco alla scena dell’irruzione alla cena di gala da parte di Terry Notary, a mio avviso uno scivolone in cui l’ostentazione la fa da padrona ed il carattere estemporaneo (sì, si vede ad un tratto il viso scimmiesco sullo sfondo, sebbene non sia sufficiente) accentua l’inconciliabilità con il resto della storia (chiaro che è conciliabile, ma ad un livello esclusivamente associativo, Östlund ci fa il disegnino nel caso non avessimo capito). Al di là dell’episodio infelice che magari non inficerà globalmente la visione, The Square ha, se così si può dire, la colpa di non essere una Visione, non si vede niente, al massimo si comprende, si legge, si interpreta, si annota, azioni rispettabili che però non hanno troppo da spartire con il Vedere, e non solo con gli occhi, anzi praticamente mai con gli occhi. Ad ogni modo la carriera di Östlund è davvero curiosa, dall’esordio Gitarrmongot (2004) alle incursioni nei territori del primo Seidl (Play [2011] che rimane il titolo preferito) fino al successo internazionale di The Square, chi l’avrebbe mai detto?

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