lunedì 26 febbraio 2018

Happy End

Una breve riflessione personale su Happy End (2017), nient’affatto approfondita ed anche un po’ anodina.

Conosciamo bene Michael Haneke, le nere vedute sulla classe agiata occidentale (notate: dall’Austria alla Francia il risultato non è mai cambiato), il marcio che si annida sotto l’apparente candore (sì: anche – e soprattutto – nei bambini/adolescenti) e il metodo reticente lontano da ogni eccesso (beh: i suoi fuori campo hanno incendiato a lungo le discussioni tra cinefili), insomma, connotati del genere hanno fatto sì che oramai “hanekiano” sia un termine di largo uso all’interno di contesti recensionistici, il regista austriaco è il fondatore riconosciuto di un canone con i crismi del caso che, volenti o nolenti, ha segnato il cinema autoriale del vecchio continente dagli anni zero in poi (Lanthimos, ad esempio, gli deve qualcosa). In quest’ottica ci si immagina che, una volta superata la settantina e con già un curriculum bello ricco alle spalle, trovare un’inedita strada espositiva ed argomentativa non rientri nelle sue priorità, e allora pare quasi che Happy End sia una riduzione del proprio modo di fare, non un aggiornamento ma proprio una sintesi di decenni di attività. Se ciò sta tra i pregi o i difetti fate voi, per quanto mi riguarda l’ago del giudizio oscilla incostante senza toccare né la piena soddisfazione né il rifiuto assoluto. E ora osserviamo super rapidamente il comparto tematico per comprendere di come in fondo avevamo già visto tutto:

- borghesia ammuffita: la famiglia Laurent è solo l’ultima di una lunga dinastia anafettiva e problematica che già all’epoca della mirabile trilogia della glaciazione aveva detto molto, e probabilmente meglio

- il male: argomento pregno che non si affronterà qua, tuttavia val la pena sottolineare che Haneke ha spesso cucito l’abito della malvagità addosso a personaggi insospettabili. Eve è la carnefice più recente, o presunta tale, di un club che ha visto l’attore Arno Frisch primo presidente nel duplice ruolo in Benny’s Video (1992) e Funny Games (1997), senza scordare i sospetti de Il nastro bianco (2009)

- la tecnologia: in Happy End i dispositivi multimediali (smartphone e chat) hanno un ruolo funzionale alla narrazione oltre che un ruolo teorico (vedi anche Frost [2017] di Bartas), è una novità nello specifico, non lo è concettualmente, cfr. ancora Benny’s Video, filmare la morte, per gioco (il criceto), per rabbia (ma è la madre quella che durante i titoli di testa è in cucina?), solo per il gusto di filmarla, rimane una costante

- post-colonialismo (chiamiamolo così): essendo la vicenda localizzata a Calais, risaputo crocevia europeo dei flussi migratori, il richiamo alla questione si fa inevitabile sebbene risulti davvero debole il suo innesto dentro la saga famigliare. A tal proposito il discorso era decisamente più centrato, non essendolo affatto nel concreto, in Niente da nascondere (2005)

La riproposizione degli elementi sopramenzionati segna una continuità che non fa avanzare di un palmo il cinema di Haneke. Sebbene sia sempre auspicabile un tentativo di rinnovamento, non è di certo obbligatoria la necessità di percorrere sempre nuove strade, ma, del resto, lo spettatore che apprezza specifiche manifestazioni cinematografiche non può accontentarsi del semplice compendio. Rileggendo ciò che scrissi su Amour (2012) [1] noto una specie di sudditanza psicologica nei confronti dell’autore, adesso le cose sono effettivamente un po’ cambiate anche perché a non essere cambiato è Haneke stesso, l’affermazione potrebbe essere letta in una accezione positiva senonché così facendo Happy End risulta meno radicale rispetto agli altri esemplari che l’hanno anticipato, meno radicale e quindi meno incisivo, meno potente, hanekiano ok, ma con Haneke desidereremmo non vedere un auto-epigono e andare oltre il mero aggettivo.
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[1] Chiunque ha notato l’evidente collegamento con Happy End dalle parole di Trintignant, ma Haneke in questa intervista dice che i due episodi si riconducono più ad un suo fatto privato che ad un link interfilmico.

2 commenti:

  1. Concordo in pieno con la tua analisi, questo film "non fa avanzare di un palmo il cinema di Haneke", ma, forse, avendo già detto tutto è possibile succeda? Oppure assisteremo ad un ruotare sempre più ipnotico attorno ai suoi temi classici, facendo e rifacendo sempre lo stesso film, come i grandi? Tra l'altro ho visto questo film poco prima di vedere The Square, film molto hanekiano.

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  2. Non so se sia possibile che succeda, è quello che però ci si auspica perché in fondo siamo dei cannibali ed un film "normale" non ci basta. Ed Happy End è un film troppo normale, forse, nel mondo di Haneke. L'ho trovato rigoroso, come al solito, ma anche sedato, un po' vecchio nonostante si proponga attraverso chat e social network, quasi come un anziano che vuole apparire giovane (vabbè, esagero). Resta comunque un punto di riferimento che ha fatto scuola in campo autoriale e Östlund deve averlo guardato non poco in passato.

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