Per Korova (1989)
fu Andrej Platonov, per Rusalka (1997) un mito del folklore
slavo-russo, per Il vecchio e il mare (1999) Ernst Hemingway,
per Moya lyubov
(2006) Ivan Shmelyov, per Son smeshnogo cheloveka
(1992) Fedor Dostoevskij con Il sogno di un uomo ridicolo.
È ampiamente constatabile che Aleksandr Petrov abbia fatto originare
tutta la sua carriera artistica da testi letterari, e analizzando ciò
si può notare di come la fonte d’ispirazione abbia giocato un
ruolo importante sulla riuscita complessiva di ogni singolo
cortometraggio. Il lavoro sotto esame è un esempio esplicativo
poiché quest’opera, abbeverandosi ad una sorgente narrativa quanto
mai illustre, risulta molto più complessa e molto più alta di tutti
gli altri prodotti petroviani. I motivi sono a prova di tonto: dentro
a The Dream of a Ridiculous Man ci sono cose
profonde e inintelleggibili come l’aspirazione al suicidio,
l’altrove dopo la morte, la Verità abbacinante e la tossicità
dell’umano, un’infornata di tematiche che obiettivamente non
possono competere con mucche, pseudo-sirene o storielle d’amore. Si
crea dunque uno spessore che oserei definire morale il quale non ha
proprio niente di accomunabile con la levità di fondo che
generalizzando caratterizza la visione di Petrov, dal primo
all’ultimo film. Anzi più che di levità è maggiormente consono
affermare che alla tematizzazione l’animatore russo ha sempre
preferito l’estetizzazione, qui invece le due istanze costituenti
vanno di pari passo.
Perché sul piano tecnico
e sulla conseguente patina formale non c’è nient’altro da dire
che il sottoscritto non abbia già detto in precedenza. Grandi
accelerate oniriche e poderosi squarci surreali, senso di calore e di
sana artigianalità a cui però risponde con fermezza un’assenza di
fluidità che rende “stopposa” la fruizione. Purtroppo tale è lo
stile di Petrov e nel giro di quasi un ventennio c’è da annotare
di quanto poco sia cambiato, palesando perciò short dopo short un
limite che non è stato mai abbattuto.
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