giovedì 30 dicembre 2021

His Master’s Voice

Come per il collega e connazionale Kornél Mundruczó, in tempi recenti pure György Pálfi ha fatto il salto continentale girando il suo primo film in lingua inglese, certo, anche ad un occhio poco avvezzo a notare le sottigliezze la differenza che c’è tra Pieces of a Woman (2020) e His Master’s Voice (2018) è notevole ed è costituita dai soldi che Netflix ha messo a disposizione per KM rispetto a quelli racimolati da GP, però il buon Pálfi ha cercato di far necessità virtù e alla fine l’opera che ha partorito, nella traiettoria sbilenca percorsa, nella pseudo-artigianalità che la modella, nell’invasione di spazi disallineati dalla traccia principale, ha a mio avviso una dignità che si rafforza nel non prendersi troppo sul serio, in una autoironia che medica le slabbrature, le velleità, i timidi tentavi, dopotutto l’ho trovato un titolo divertente, perlomeno molto di più della fatica precedente Free Fall (2014). Ok, il diletto derivante da una proiezione non è un metro di giudizio consono, diciamo allora che parliamo di un oggetto... vivace, un po’ come le sgargianti camicie indossate dal protagonista, e questa vivacità è sfaccettata in approcci e tecniche diverse che confermano lo spirito d’inventiva che caratterizza l’ungherese fin dagli albori (chi si ricorda Hukkle [2002]?). Abbiamo un cospicuo uso di computer grafica (vedere le iper-regressioni nel prologo e nell’epilogo), una trasversalità di generi (dramma famigliare, fantascienza, mockumentary) e aperture su una surrealtà abbastanza spinta (l’apparizione del gigante mi è parso un tributo al dipinto di Francisco Goya Saturno che divora i suoi figli), insomma l’aria che spira è frizzantina, e dato che al film, in fondo, con sfrontatezza non importa di finire per mostrarsi goffo e pasticciato, il mio sentimento di benevolenza si è alzato di una tacca. Giusto per fare un parallelo non richiesto, alcuni esemplari della filmografia di Gabriel Abrantes si avvicinano a Az Úr hangja, sebbene il portoghese stazioni ad un livello consapevolmente al di là del concetto di postmoderno.

La trama elaborata dal magiaro, che si basa su un libro di Stanislaw Lem (ma a leggere in giro pare non gli sia stato particolarmente fedele), mette o vorrebbe farlo (la discriminante del gradimento si situa qui), in connessione il macroscopico con il microscopico, credo che le due sequenze che fanno da contenitore alla pellicola siano in tal senso significative, è tutta una faccenda di atomi e molecole, di legami consanguinei che vanno a creare corpi, entità, organismi all’interno di un involucro più grande che a sua volta sta dentro ad un altro ancora maggiore e così via fino all’infinito. Sicché la vicenda di una famiglia che indubbiamente è per i suoi componenti il centro di una vita intera, diventa in realtà soltanto un piccolo filo dell’immenso ordito dell’universo, e infatti durante il finale la comparsa sullo schermo di un epocale albero genealogico è lì a ricordarlo, siamo solo granelli di sabbia in un deserto sconfinato o al massimo i simboli numerici di un codice binario proveniente dalle stelle che un ragazzo diversamente abile è impegnato a decrittare. Ecco, questa chiamiamola tensione tra l’essere umano e le sue pene in rapporto ad una struttura misteriosa che lo sovrasta è il nocciolo del film, poi a fare da contorno Pálfi inserisce parecchia altra roba che sovraccarica la visione. Le sensazioni di una progressione sbrindellata e di una mancanza di equilibrio possiamo zittirle a patto di allinearci al mood strampalato che aleggia, solo così si potranno digerire le innumerevoli fuoriuscite dal seminato (le parentesi spaziali: si accettano interpretazioni) al pari delle ingenuità che, ad una lettura razionale, indeboliscono alcuni passaggi narrativi (la “vendetta” di Zsolt). Poi un frullato composto da messaggi extraterrestri, un alter ego da b-movie di Michael Moore, combustioni spontanee e orge immotivate io lo ingollo senza grossi patemi. Menzione speciale alla scena sul motoscafo.

martedì 28 dicembre 2021

Terra de ninguém

Piacere di conoscerti Salomé Lamas, ho letto che sei nata nel 1987 in un Paese che dagli anni ’10 in poi è diventato un centro gravitazionale del cinema autoriale contemporaneo, il Portogallo, che hai studiato a Lisbona, Praga e Amsterdam, che la tua visione artistica non si riduce solo ai film, che hai allestito mostre fotografiche e video installazioni in alcuni dei più importanti musei del globo, che Terra de ninguém (2012) è uno dei tuoi primi lavori, e io sono ben felice di entrare in contatto con queste possibili nuove prospettive, ad occhio e croce direi che le opere seguenti potrebbero meritare attenzione, nel frattempo concentriamoci su No Man’s Land per descrivere subito a che cosa andiamo incontro: un piccolo parallelo lo si può avanzare con El Sicario, Room 164 (2010), anche qui si ha una pellicola che vive nella frontalità di un’intervista, e anche qui l’intervistato è un uomo che ha ucciso, senza provare rimorso perché era il suo lavoro, si tratta di Paulo de Figueiredo, un all’apparenza comune pensionato portoghese con i baffi che, a detta sua, è stato invece un feroce mercenario al soldo di varie organizzazioni che lo “affittavano” per liquidare qualche malcapitato. La differenza col sicario di Rosi è che quello della Lamas parla di sé a volto scoperto e ci racconta di un’esistenza turbolenta iniziata nelle colonie africane, proseguita nelle file del GAL (un gruppo paramilitare istituito illegalmente in terra spagnola per fronteggiare i terroristi dell’ETA) e arrivata perfino oltre l’Atlantico nella guerrilla di El Salvador, una lunga scia di sangue, di memorie che scorrono di fronte alla mdp della regista, sebbene non sia facilissimo orientarsi tra nomi di politici, fazioni, e qualunque altro riferimento alle tensioni dell’epoca, arriva, più o meno nitidamente, una narrazione atipica, ovviamente terribile e ancora più ovviamente affascinante. 

Nel colloquio le domande di Salomé sono state tagliate dal montaggio finale (sentiamo solo le sue riflessioni in voce over che scandiscono gli incontri avvenuti con de Figueiredo tra il 2011 ed il 2012 strutturati poi attraverso una sequenza di ottantotto brevissimi capitoli), però si evince che al di là del cronachistico si tenta di scendere in profondità sbrogliando questioncine giusto un poco esorbitanti perché non dobbiamo scordarci che chi abbiamo di fronte è un assassino e quindi sarebbe interessante capire il punto di vista di un professionista del settore omicidi & affini in merito alla religione, all’etica, all’empatia. Ma l’uomo seduto sullo sgabello con dietro un telo nero appeso in un ambiente spoglio, abbandonato, di cui vediamo un paio di frame e che risulta una cornice a dir poco perfetta, non si sbottona granché, è un tizio disilluso dalla vita, cinico, con ancora un barlume di umanità solo quando parla della sua famiglia che un giorno vorrebbe riabbracciare, per il resto non c’è nessun rimpianto, nessuna intenzione di redimersi, verso la fine dice che di tutte le persone che ha fatto fuori non ce n’è stata nemmeno una in grado di togliergli il sonno. È una testimonianza truce, cruda, diretta, forse perfino rara, e in un certo senso sarebbe stata sufficiente a tenere in piedi la baracca, eppure la Lamas negli ultimi dieci minuti di Terra de ninguém ci fa imboccare un’altra strada, lascia la casa diroccata per seguire un senzatetto di colore, si allontana da de Figueiredo per insinuare un dubbio, enorme, che riguarda la verità, quella che il sessantaseienne ci ha detto senza però che venisse avvalorata da nessun documento, nessuna controprova [1]. Poi, il signor Paulo, compare in video scherzando con il barbone, ed è qui che il film termina, in un punto interrogativo, nell’ambiguità di un racconto che oscillando tra la sincerità e la menzogna soddisfa chi è arrivato fino lì perché l’incertezza è sempre meglio della certezza. 
A presto Salomé, sono sicuro che ci sentiremo spesso. 
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[1] Facendo una rapida ricerca spunta un articolo di El Pais del 1991 dove si attesta il suo effettivo arresto (link).

domenica 26 dicembre 2021

Manoman

Qui (Oh Willy... del 2012) e là (Edmond del 2015), si ritrova qualcosa in Manoman (2015), però meglio non farsi trarre in inganno dall’apparato realizzativo, infatti il regista britannico Simon Cartwright, a differenza dei colleghi del settore, non usa lo stop-motion, o almeno non in maniera preponderante, il suo allestimento è fatto di un mix tra marionette di cui vediamo i bastoncini che le sorreggono e digitale usato per dare espressività ai pupazzi (occhi e forse anche bocche) e, impressione personale di uno che ignora abbastanza, maggiore profondità ad alcuni ambienti. Poco cambia comunque perché ad arrivarci è nuovamente quella piacevolissima sensazione di artigianalità che oltrepassa lo schermo (e il mostrare allegramente i supporti dei pupi, utilizzandoli addirittura per schiaffeggiare un malcapitato, è una dichiarazione di ludica consapevolezza) insieme ad un ingegno che si manifesta nei soliti dettagli tutti da gustare. Ok, la smetto di incensare il comparto tecnico perché ormai risulto un disco rotto quando si tratta di corti animati, piuttosto vale la pena spendere due parole sulla storia contenuta nei dieci minuti di girato, di fatto, e non è una novità, agli animatori contemporanei piace porre al centro della scena personaggi fragili, timidi, solitari, un identikit che combacia perfettamente con Glenn, il protagonista di Manoman, il quale è suo malgrado fautore di un cambio marcia narrativo nel momento in cui Cartwright decide di far vomitare fuori dall’omino la sua parte oscura che gli si annidava nello stomaco.

Il folleggiare del duo in una metropoli notturna è molto spassoso perché è altrettanto spassosa (e anche weird) l’anatomia del doppio maligno, praticamente un diavoletto dannydevitesco che ne combina di ogni, ovvero: combina ciò che Glenn, in un luogo recondito del suo essere, vorrebbe fare, che è un liberarsi, scatenarsi, e lo intuiamo senza ricevere informazioni cospicue, è sufficiente vederlo nella stanza della terapia di gruppo per comprendere la vita infelice e appartata che fin lì ha condotto. L’obiettivo di Cartwright non è però il mostrarci una specie di riabilitazione esistenziale, il folletto irsuto è una proiezione distorta di sentimenti sbagliati, difatti la prima e unica azione “cattiva” di Glenn lo distrugge dentro spingendolo al gesto più estremo in assoluto. Ecco che Manoman, alla fine, accantona la sua spinta mattoide per annerirsi quel che tanto che basta, un suicidio è un suicidio, anche in un oggettino misconosciuto, e le motivazioni che lì conducono possono essere un invito a riflettere, al pari delle ultimissime immagini dove la folla, dal nulla, si mette a idolatrare il demone ignudo che, in piedi sul tetto di un grattacielo, insagomato controluce da un sole sorgente, piscia loro in testa. È il male a vincere sempre?

venerdì 24 dicembre 2021

Caja cerrada

Salire a bordo di un peschereccio, nel bel mezzo di un mare nero e sconosciuto (in realtà è il Mediterraneo ma questa è un’informazione che estrapoliamo dagli schermi dei radar, a conti fatti potremmo essere ovunque), assistere ad una battuta di pesca con queste reti che sembrano enormi ovuli ricolmi di pesci scodanti, ascoltare le conversazioni dell’equipaggio marocchino e il loro arabo danzante, ecco dove è arrivato Martín Solá, ecco dove, di riflesso, siamo arrivati noi, e certo che messa così sembrerebbe di poterci trovare al cospetto di un’altra indimenticabile cinesperienza come fu quella di Leviathan (2012), e l’impressione è condivisibile sebbene Caja cerrada (2008) si fermi un paio di passi prima, più o meno nelle stesse zone di Dead Slow Ahead (2015) ma con minore propensione estetizzante, il che, comunque, non leva nulla all’esordio di Solá. Chi scrive si è goduto al massimo l’immersione salina offerta, un’apnea visiva che funziona grazie ad un dispositivo documentaristico da vero e silente testimone sul campo, da sguardo che scruta e che scrutando trova angoli e scorci che trascendono il genere di riferimento, come per il capolavoro di Castaing-Taylor e Verena Paravel l’oceano fa paura perché è la dimora di incubi sguscianti che vivono nell’oscurità ondulante dell’acqua, nel buio si aprono rettangoli abitati da novelli Cappuccetto Rosso e Giallo che manovrano intricati orditi da spedire negli abissi. Il fatto è solo uno: la suggestione, una forza stimolante che insemina il vedere, che lo spinge oltre le immagini a cui assistiamo per richiamarne altre. È il cinema, baby.

Oltre ad una tale potenza evocatica c’è un’altra questione dentro a Caja cerrada, ovvero l’aderenza al film successivo del regista argentino: The Chechen Family (2015), il parallelo parrebbe impossibile vista la distanza che sussiste tra le due ambientazioni di ripresa e gli argomenti toccati, invece, che ci crediate o meno, è assolutamente una roba concreta la sovrapponibilità concettuale tra le due proposte. Non ci sono molte informazioni in giro su Solá, non si sa bene chi sia e cosa faccia, però da questa coppia di doc recante la sua firma emerge la capacità di trasportarci in uno stato ipnotico-meditativo di rara intensità. Se arrivare a suddette altezze è forse più facile occupandosi di un rituale religioso, lo stesso, in teoria, non si potrebbe dire di pescatori che svuotano le reti dentro a delle cassette di legno, eppure le cose stanno proprio così: il blocco centrale di Caja cerrada, lungo, reiterativo, praticamente una catena di montaggio, ci fa compiere un viaggio filmico in prima classe dove la ripetitività lavorativa unita al formicolante sbattacchiare dei pesci nelle casse deborda in un rapimento audio-visivo da cui non è contemplata alcuna via di fuga, e meno male!, l’imperativo è lasciarsi invadere dal mantra ittico, dalle colate di squame e fauci boccheggianti, dalle manciate di sale, in loop continuo e incessante. Poi, dopo, ci sarà anche una chiusura (tra l’altro l’ultimissima istantanea vede un cielo albeggiante attraversato da gabbiani in volo che fa molto Leviathan), ma è il prima che si scolpisce negli occhi e nelle orecchie, in modo, lasciatemi ancora crogiolare nell’entusiasmo a caldo, indelebile.

lunedì 20 dicembre 2021

This Magnificent Cake!

Perché non accogliere la proposta di artisti che fino ad un certo punto razzolavano nel sottobosco dell’animazione e poi ad un altro di punto decidono di lanciarsi in un’opera più lunga e quindi più strutturata? La domanda ha risposta ovvia, soprattutto se i registi in questione sono Emma De Swaef e Marc James Roels, chi?!, domanderete voi accigliati, ma ovviamente gli autori di un ottimo corto animato che rispondeva al nome di Oh Willy... (2012), adesso per il duo è diventato il momento di diventare “grandi”, o almeno di crescere quel tanto che basta per staccarsi dal mordi e fuggi del cortometraggio, il risultato è Ce magnifique gâteau! (2018) un oggetto che sta in bilico tra il medio ed il lungo e che, per impostazione narrativa, si fa apprezzare: occhio, non è il cosa ma il come: ri-occhio, il film è suddiviso in capitoli brevi tutti riguardanti la realtà ottocentesca delle colonie belga in Africa, non abbiamo connessioni dirette, cause, concause e relativi effetti, ma leggere epifanie, rimandi trasparenti che uniscono, a modo loro, l’essenza episodica di This Magnificent Cake!. Ma se stiamo parlando di animazione, quella bella, in stop-motion, zeppa di inventiva e trovate pregevoli, allora le tattiche del racconto utilizzate, alla fin fine, non interessano nemmeno troppo, difatti è molto più appagante ammirare il lavoro manuale dei filmmaker che si traduce sullo schermo in un ricercato affresco “casalingo” inevitabilmente di maggior impatto rispetto al titolo precedente. Ancora lana e feltro sia per ometti dalle guance rosse che per ambienti esterni quali grotte o giungle, però con cura e maestria ulteriore, nelle luci, nella fluidità dei pupazzi, nelle angolazioni di ripresa, ora esagero: a tratti quasi ci si scorda di stare guardando un prodotto animato.

Vero che mettersi a dissertare sulla scrittura di Ce magnifique gâteau! potrebbe apparire la diluizione del brodino recensionistico (… potrebbe?), tuttavia questa scrittura sembra che un messaggio voglia recapitarcelo, e forse anche più di uno. Il primo, il maggiormente constatabile, si riferisce ad una sorta di critica al colonialismo europeo, non è una ramanzina né un perentorio j’accuse, c’è piuttosto dell’ironia, sardonica (qualcosa che, alla lontana, non sarebbe una bestemmia associare a Seidl) e scorretta, i bianchi vengono dipinti come beoti che se ne fottono di chi hanno intorno (è un’immagine triste e al contempo crudele quella del pigmeo usato come posacenere umano). Comunque sia la chiave di lettura del mettere alla berlina il vile sistema delle colonie occidentali nel continente nero attraverso la derisoria caricatura dei suoi interpreti non sembra essere il fine ultimo di De Swaef e Roels perché un altro tipo di feeling viene ad instaurarsi, ed è dovuto ad un maneggiare argomenti che lambiscono l’abisso, come la morte, e ce ne sono parecchie in tre quarti d’ora, anche violente, o come il sogno, tanto che diventa impossibile capire dove finisce e dove inizia la dimensione onirica (si guardi la succosa scenetta weird con la lumaca), e perciò si ritorna sempre al fascino del bizzarro, marcato o meno, di codesti esemplari cinematografici, alla forza che ogni volta possiedono nel ripresentarsi così, oscuri, indecifrabili, teneri, elusivi, e al sentimento di benevolenza che, complice la loro realizzazione, è automatico provare.

mercoledì 8 dicembre 2021

A Lack of Clarity

Di sicuro il senso che si annida in A Lack of Clarity (2020) fa fede al suo titolo, questa “mancanza di chiarezza” aleggia in effetti per i venti e spiccioli minuti che compongono il cortometraggio sotto esame firmato da un ragazzo danese di nome Stefan Kruse Jørgensen. Guardiamo le cose più facili proprio perché legate al guardare: l’apparato estetico scelto dal regista in realtà, come dire, non è una sua scelta diretta, tutto il materiale che compone il film proviene dal sistema di telecamere di sorveglianza appartenenti ad un’azienda situata a Las Vegas, d’inverso la manipolazione formale offerta presumo sia farina del suo sacco e concorre ad astrarre immagini di schietto realismo per trasportarle in una zona ibrida, indefinita, dove anche un etereo sound design contribuisce a gettare banali squarci urbani in un limbo simil-onirico. Pensando a qualche possibile similitudine l’impatto visivo che il corto ha potrebbe assomigliare vagamente alla patina in negativo di Noite Sem Distância (2015) oppure, ancor più vagamente, alle angolazioni aeree di Dene wos guet geit (2017), però, nel concreto, mancando qui qualsiasi riferimento ad una drammaturgia, ad un testo, il lavoro di Kruse si distacca abbastanza nettamente dagli esempi sopraccitati. Complice una voce fuori campo che sembra quasi provenire da un telefono posto nell’aldilà, l’opera ha una presa sullo spettatore, suscita interesse e, se non vero e proprio magnetismo, qualcosa che gli si avvicina.

Il che, ovvero la suddetta morsa nei riguardi di chi assiste, è un aspetto curioso perché non è per nulla semplice dire di che si occupa A Lack of Clarity. Il commento over dà delle imbeccate, parrebbe che si voglia porre alla nostra attenzione una situazione specificatamente contemporanea, l’inondazione di luce che caratterizza le metropoli moderne (si cita Parigi), luce per vedere, per controllare. Il controllo globale mi sembra che sia il tema al centro del discorso, il fatto di essere gli attori involontari di un “cinema panottico” registrato dalle videocamere a circuito chiuso e relative evoluzioni (si pone l’accento su quelle termiche, e forse le riprese adottano tale tecnologia, però in bianco e nero, giusto per disorientare un altro po’) dovrebbe istituire domande di ordine sociale, etico e politico, questioni di privacy, di riconoscimento facciale, di tracciamento. Argomenti intriganti e urgenti, l’approccio del filmmaker verso di essi non è propriamente frontale e ciò confonde, il portamento quasi sperimentale inghiotte le tesi filmiche, e non mi sento affatto di considerarlo come un difetto. Da rivedere con la massima cautela.

lunedì 6 dicembre 2021

In Purgatorio

Spesso l’esterofilia imperante ci fa vedere il bello solo oltre i nostri confini nazionali, molte volte è così ma per le restanti altre ci sono dei Giovanni Cioni da scoprire, non che sia garantito automaticamente l’apprezzamento ma almeno il riconoscere dei tentativi che vanno al di là del solito cinema è un atto, nei panni di spettatori con il cervello acceso, doveroso. Cioni, nato a Parigi nel ’62 e transitato in vari altri Paesi europei dove ha affinato la propria professione, sembra un tipo a cui non piace stare con le mani in mano, basta farsi un giro sul suo sito ufficiale per farsene un’idea (link), e questo movimento, questo passaggio continuo, lo si percepisce anche dentro In Purgatorio (2009), un documentario che esplora in maniera semplice ma ben strutturata (divisione in capitoletti; didascalie arricchenti apposte dal regista) la pasta magica di una Napoli sacra e profana, e lo fa arruolando persone che sono personaggi, cantastorie, ladruncoli, poveracci, esseri umani interpreti di sé stessi in una commedia neo-neorealista. Come da titolo, si comprende l’attenzione che la città e chi la abita ripone verso una forma di credenza che non so nemmeno se può essere definita “religione”, almeno non nel concetto moderno che si ha di essa, perché c’è qualcosa di arcaico nei culti popolari che vediamo, nell’affidarsi a morti senza nome, a mucchietti di ossa accatastati da secoli nel cimitero delle Fontanelle, è una fede pagana che si mescola in un folklore squisitamente partenopeo dove sentendo le varie confessioni sullo schermo emerge una filosofia di strada che non ha niente da invidiare a quella accademica, una saggezza immersa in una dimensione ritualistica, calata nel presente e al contempo intrisa di antiche superstizioni.

Più si va avanti, più In Purgatorio lascia che nel topic principale si innestino altre tematiche, legate e slegate al culto dei trapassati. È il caso dei sogni, premonitori o meno che siano (il defunto sognato ha i piedi sulla battigia, significa che nella bara è entrata dell’acqua e bisogna andare ad asciugarla), ed è il caso, anche, dei cosiddetti “assistiti”, ovvero individui che suggeriscono i numeri del lotto da giocare. Un tale rimbalzare da parte di Cioni in contesti che lambiscono frontiere non così terrene e il rapportarsi con soggetti che Matteo Garrone scritturerebbe seduta stante in un suo film (la voce dell’anziano che paragona un cimitero alla Fiat di Torino, solo che la voce, incatramata, dialettale, è storia a sé), fanno dell’opera in esame il pregevole ritratto di una Napoli ricolma di amichevoli ombre (che cosa si può dire della banda che gioca a carte in cucina? Sarebbe piaciuta a Monicelli), di attori della vita che vivono, di anime in attesa, perché a conti fatti la Napoli di Cioni è un piccolo grande Purgatorio in equilibrio tra le fiamme dell’Inferno e il nitore del Paradiso.

lunedì 29 novembre 2021

Damned Summer

Verão Danado (2017) è un film comprensibile, lo è, prima di ogni cosa, nell’innesco creativo/ispirativo che l’ha generato: non si fa alcuna fatica, infatti, a mettersi nei panni di Pedro Cabeleira, regista portoghese che al momento di girare questo suo lungometraggio di debutto era poco più che ventenne, per capire che il protagonista, Chico, è lui, così come è potenzialmente qualunque altro dei ragazzi che entrano ed escono dal film. Sì, è un’opera generazionale ma lo è con grande consapevolezza perché Cabeleira sa bene cosa fa e dove vuole andare, ovvero nella rappresentazione il più aderente possibile alla concretezza di una gioventù elettrica e sempre in botta, un tumulto continuo fatto di bpm e luci stroboscopiche, di droghe e amori fatui che durano una notte e poi se ne partono per Londra, lontano da una Lisbona che, per paradosso poiché Cabeleira mira al reale, si trasfigura in un lungo sogno lisergico. È roba autobiografica, è il rimettere eventi e situazioni vissute sulla propria pelle in un contesto cinematografico, è un’espressione singola e molteplice che accomuna un po’ tutti gli studenti fuori sede del mondo. E quindi Verão Danado è parimenti comprensibile anche nell’offrirsi allo spettatore, non ci vuole molto ad afferrare la struttura disordinata che lo permea, apprezzabile corrispondenza di un’esistenza sregolata che vive di rave in rave, a tal proposito le prolungate sequenze all’interno dei club (casalinghi o meno) hanno un forte potere immersivo, sono scene efficaci che si distinguono e che fanno distinguere la pellicola da molte altre che hanno tentato approcci simili.

Solo che, in fondo, una così netta comprensibilità non è che abbia incendiato l’animo di chi scrive. E dire che Cabeleira aveva iniziato con un mediometraggio che si occupava di altro (Estranhamento, 2013), mentre della materia di Damned Summer se ne sono occupati altri prima di lui, e non pochi. Senza scordare gli alibi di un giovanissimo dietro la mdp, dico che il ritratto di una fascia d’età persa in un qualche limbo e proposta in un contenitore realistico è un manifestarsi già registrato dai nostri occhi, e non bisogna andare troppo lontano perché rimanendo in Portogallo João Salaviza (e qui è presente un “suo” attore, Rodrigo Perdigão) ha sondato il tema in lungo e in largo, e sono convinto che ci saranno innumerevoli autori, lusitani e non, che si sono impegnati in tale direzione (ricordo un film polacco di poco conto dal titolo All These Sleepless Nights [2016] che ha parecchio in comune con Verão Danado). Anche il quid pluris del film, quell’abbandonarsi ai ritmi martellanti della techno e la psichedelia che da lì scaturisce grazie ad un oculato utilizzo delle luci, è sì, come dicevo sopra, notevole, però non raggiunge il top, non sbaraglia letteralmente le percezioni perché comunque Noé è arrivato anni prima ed è tutt’ora inarrivato. C’è quella sensazione di déjà vu che, parlando in modo soggettivo, impedisce un pieno appagamento fruitivo, fermo sempre restando che chi ha, o ha avuto, solo due decadi e poco oltre sulle spalle è generalmente un campione di onanismo e non certo uno che di mestiere vorrebbe fare il regista, il quale, bazzicando tra Locarno e Torino, dimostra già di essere a buon punto, gli auguriamo per il futuro di alzare il tiro della traiettoria.

martedì 23 novembre 2021

Baton

Baton (2016) sarebbe potuto tranquillamente rimanere nell’oceano dell’anonimato se non avesse annoverato alla voce “sceneggiatura” quel Efthymis Filippou già penna fondamentale di Lanthimos e di buona parte della new wave greca. C’è però un fatto curioso perché in sostanza, qui, non vi è alcuna sceneggiatura, per cui da un lato abbiamo un Filippou che non ingabbia il film in una struttura metaforica, mentre dall’altro non si hanno tracce effettive di una scrittura. Il corto, diretto da un ragazzo spagnolo di nome Albert Moya, vive di e in un surrealismo finemente laccato che può ricordare o un videoclip (il direttore della fotografia si chiama Evan Prosofsky e nel suo curriculum vanta collaborazioni nei video musicali di artisti come Grimes, Arcade Fire e Paul McCartney) o lo spot di un qualche fashion brand di lusso (e non è un caso che gli abiti siano stati curati da Dries van Noten, noto stilista belga). Chiude il cerchio di questa reunion multi-artististica la presenza attoriale di un musicista canadese, Sean Nicholas Savage, che pare essere piuttosto apprezzato in giro. 

Che cosa rimane al di là di un’estetica oltranzista è presto detto: nulla. Moya colloca la forma su un piedistallo e noi, senza possibilità di controbattere, ce ne stiamo zitti zitti a guardare. Certo, lo spettacolo (che a tratti sembra realmente tale nella diegesi visto che alcune sequenze si svolgono all’interno di un bellissimo teatro) possiede qualche milligrammo di fascino perché per impostazione scenica, palette di colori e briciole visionarie (il tappeto di bucce di banana) Baton ha sufficiente forza per farsi vedere fino alla fine (capirai... non sono neanche dodici minuti), il fatto è che arrivati alla suddetta fine l’impressione è di aver assistito a qualcosa di davvero effimero, senza spessore, narciso, e come tutto ciò che si specchia, che è vanitoso, anche fatto di un vuoto che le strambe parole messe in bocca a Savage (scritte da Filippou?) non riescono a colmare.    

sabato 20 novembre 2021

Die Kinder der Toten

Die Kinder der Toten (2019), uno degli oggetti più strambi (ma anche più vivi) che vi possano capitare tra le mani oggidì, è un film tratto dal libro omonimo recante la firma del Premio Nobel Elfriede Jelinek (colei che ispirò Haneke per La pianista, 2001), ma la cosa buffa, e che mette già in guardia dall’inizio sul tipo di progetto, riguarda il fatto che la coppia registica, gli americani Kelly Copper e Pavol Liska, il romanzo in questione non lo hanno mai letto. Sotto l’ala protettiva di un sempre demoniaco Ulrich Seidl qui nelle vesti di produttore, il duo costruisce un apparato formale che ricalca i protocolli del muto, sicché non vi sono conversazioni parlate bensì dialoghi scritti sulle schermate nere che fanno da intermittenze all’interno del girato, di contro viene effettuata una massiccia sonorizzazione che in alcuni casi esacerba l’audio (penso a quando in scena c’è del cibo), mentre il comparto visivo è costituito solo da immagini in super 8, quelle dall’aspetto amatoriale, “brutte”, rovinate, un flusso sporco che però, nella sua repulsione, sa essere efficace. Ma che ci racconta di bello codesta pellicola? Diciamo che innanzitutto si ha la possibilità di vedere un tipico paesaggio alpino come non l’abbiamo mai visto, tra birra, salsicce e jodel striscia qualcosa di molto sordido, azzardo ripugnante, solo che, almeno fino all’incidente, non vi è mai nulla di particolarmente esplicito, eppure vuoi per l’impiego di attori non professionisti dalla fisionomia perfettamente seidliana, vuoi per un torbidume che affiora (i vecchietti che limonano duro), non si assiste con tranquillità alla proiezione, traspira del sulfureo, essuda del siero nero, sembra, impressione squisitamente soggettiva, di guardare un Benny Hill Show ambientato su una sponda dello Stige. Nonostante appaia arruffone, sconnesso e pasticciato in Die Kinder der Toten il sottoscritto ha sentito un ribollio avvertito anche altrove, magari in esemplari maggiormente raffinati (vedi – per sparare alto – Post Tenebras Lux [2012] o Fausto [2018]) che comunque condividono un magnetico richiamo all’oscurità, del resto, come dice la pagina IMDb, non è un dettaglio se per le riprese sono stati impiegati 666 rulli così come 666 sono le pagine che compongono il volume della Jelinek...

In un certo senso l’opera sotto esame è l’esasperazione trasportata nell’eccesso di un documentario realista quale è The Border Fence (2018). È vero che il tema dei migranti per Copper e Liska non è dominante sebbene inserito attraverso un gioco di parole (Stiria / Siria), però a mio avviso il discorso sa essere cavo ed ampio e si inserisce nella direzione di quel cinema austriaco che negli anni ha indagato il marcio appiccicato alle fondamenta del Paese. Di base è una faccenda di nazionalismi mai sopiti e dall’agghiacciante retaggio che dentro la narrazione si riflette sottotraccia nel rapporto tra genitori e figli, tra passato e presente, infatti il centro, ok, parecchio traballante ma pur sempre centro è, si colloca nello scontro tra una torva e anziana madre con l’attempata figlia che nel suo bislacco percorso tra la vita e la morte condurrà tutto (anche il film stesso) ad un’autodistruzione senza ritorno. Appunto, la morte: altro topic che arriva dritto dritto, è una puzza, fortissima, mascherata dal grottesco che, quando si scosta, offre quel che c’è sotto i celeberrimi sepolcri imbiancati, il lutto, la tragedia, sono esibizioni con il relativo pubblico, alcol, suicidi incrociati, omicidi efferati, grandi abbuffate, al depliant di mostruosità umane non manca praticamente niente. E poi, per aggiungere un ulteriore carico, si sconfina in un metacinema dalle tinte horrorifiche, e non si tratta di una noiosa digressione teoretica ma di una scoppiettante apocalisse terrena che generandosi da una sala cinematografica (grande l’idea di un “cinema del rimpianto”) si riversa nel contesto filmico con potenza carnevalesca e chiassosa, una specie di giudizio universale di anderssoniana memoria ma decisamente più pimpante. Il laccio tra settima arte, dimensione funebre e realtà politica è un cappio che stringe al collo, e siccome tale nodo scorsoio proviene da un film così grezzo e sbilenco l’apprezzamento raddoppia, o addirittura triplica.

giovedì 18 novembre 2021

El viaje del cometa

La “cometa” del titolo non si rifà ad un corpo celeste bensì al girovagare di un camper super accessoriato guidato da una coppia di mezz’età mossa da un nobilissimo intento pedagogico: viaggiare in lungo e in largo per il Messico proponendo lezioni di astronomia gratuite ai bambini delle cittadine che incontrano lungo il cammino, quindi se il Cometa... non è una cometa, metaforicamente è un po’ come se lo fosse perché il suo passaggio porta comunque una luce che ha sembianze divulgative e umanitarie. Così El viaje del cometa (2009) è il resoconto di questo progetto, una specie di diario visivo con tanto di mappa sovrimpressa tenuto da Ivonne Fuentes, una professionista della settima arte che, oltre ad essere la figlia di Enoc Fuentes, l’ex professore a capo del Cometa, si occupa principalmente di direzione artistica (c’è una sua collaborazione in La sangre iluminada [2007] di Iván Ávila Dueñas, a sua volta produttore del film in oggetto), la regia non deve essere il suo campo di lavoro preferito perché dal 2009 ad oggi non risultano altri titoli a sua firma, ciò non toglie il fatto che El viaje del cometa sia un’opera a cui si guarda con rispetto perché, prima di qualunque ragionamento tecnico possibile, ci mostra una sacca di umanità rara, una bellezza umile di cui c’è sempre bisogno e che risponde ad una domanda che fa grossomodo così: “ma io, sì proprio io, cosa posso fare per gli altri?”, ce lo dice Enoc e la sua compagna che cosa si può fare, innanzitutto partire, andare, lasciarsi dietro qualcosa per guardare avanti e poi far alzare la testa dei bimbi verso il cielo, verso il sogno, perché come dice l’anziana donna in zapoteco all’inizio “la vita è fatta di sogni. L’unica cosa che una persona deve fare è inseguirli fino a che non diventano veri”, a leggerla suona come una massima banalotta, ma nel contesto filmico se ne ha una percezione diversa, lo giuro.

Il fatto che ci sia un legame sentimentale tra chi la pellicola l’ha diretta e chi è il protagonista della stessa devo ammettere che si sente, il signor Enoc oscilla tra la figura del prof. buono ed il padre che ora diventando nonno è ancora più amorevole di prima, ma soprattutto, dal ritratto che se ne dà, il vero amore è indirizzato alla sua passione che decide di condividere con chi magari nella vita non avrebbe mai avuto l’opportunità di posare l’occhio sul mirino di un telescopio. Non è un processo di esaltazione o di autocelebrazione famigliare, il tono generale è leggero, scorre ad un ritmo naturale dove l’approccio documentaristico esalta le meraviglie paesaggistiche messicane e parimenti si interessa del reale che c’è intorno, ruba dialoghi, istanti futili, ascolta le lezioni di scienza da bravo discente. Ma la regista non si ferma ad una forma scolastica, sono davvero numerose alcune sue intensificazioni che alterano il girato, abbiamo parentesi in un bianco e nero granuloso, inserimenti di fotografie e frame accelerati, insomma si tenta di vivacizzare il tutto e questa voglia di sperimentare ha culmine in un monologo proferito da Enoc dove si affacciano addirittura dei particolari animati, qui l’insegnante si mette a nudo e con un montaggio che pone in sequenza l’album dei ricordi della famiglia, si diffonde una riflessione che non esito a definire toccante, un momento alto che passa dalla propria storia personale al senso di un’esistenza che trova pienezza nel viaggio e negli insegnamenti che se ne possono trarre. Molto, molto bello, per le parole dette, certo, ma anche per la confezione proposta che tali parole le nobilita. Se qualcuno ci vedrà della morale non richiesta amen, a chi scrive non è pesata nemmeno l’ultima lezione, quella di non arrendersi neanche di fronte alla burocrazia che impedisce al Cometa di salire sul traghetto.

domenica 14 novembre 2021

Astrometal

Cambia lo scenario, cambia in parte l’approccio alla materia cinema rispetto a II (2014), ma per Efthimis Kosemund Sanidis la cripticità rimane un credo a cui attenersi per modellare la propria opera, difatti anche di Astrometal (2017), detta papale papale, si comprende poco, quel poco è dato dagli elementi più in vista, ovvero che il film è contenuto nello spazio temporale di una notte dove due ragazzi e una ragazza si recano in una discoteca per passare la serata. Questo è quanto vediamo che però non è abbastanza, perché il regista, anche alla luce del corto precedente, è uno che invita ad andare oltre la patina delle immagini e al tentativo di dare loro una consequenzialità logica, pur non avendo un metodo contemplativo integralista (soprattutto Astrometal) la sua visione delle cose si mette più a disposizione del nostro sentire che del nostro osservare, qui abbiamo un oggetto che punta ad un’atmosfera e non ad un racconto, che si prefigge di evocare certi stati d’animo, certe sottili inquietudini, che flirta con una dimensione onirica (la catalessi del finale, loro dormono in macchina e la città si risveglia), mai netta né totalmente da escludere.

Per giungere a tali suggestioni EKS si avvale di strumenti piuttosto efficaci che gettano il corto nell’inconsueto, prova ne è la scelta di svuotare il club di persone (perché, guardando bottiglie e bicchieri, qualcuno, prima, lì c’è stato) per riempirlo con un disturbante frastuono cacofonico, come se le casse del locale fossero state sfondate, è una trovata weird che si erge un po’ a simbolo del film, sebbene comunque aleggino altri squarci enigmatici, si noti il momento migliore, ossia l’incursione lynchiana nella stanza buia compiuta dal ragazzo rasato che, stalkerato da Sanidis, si volta inaspettatamente verso la camera, verso di noi, oppure la scena appena susseguente dentro ad uno spogliatoio che pare slegata dal resto, forse è avvenuta prima, o forse dopo. Sul rapporto che c’è tra i tre non viene esplicitato nulla, si intrasente però un’ambigua energia intorno al “terzo incomodo”, ed è una sensazione che diventa senso, uno dei tanti possibili o impossibili, d’altronde la direzione da fornire a questo senso spetta a chi guarda.

martedì 9 novembre 2021

Streghe fraterne

Antoine Volodine
2021
66thand2nd; 272 p. 

DOPO LA FINE DI OGNI VIAGGIO, RIPRENDI IL CAMMINO!
DOPO LA FINE DEL CAMMINO, RIPRENDI IL CAMMINO!
METTI I TUOI RESTI AL RIPARO!
TORNA ALLA GRAN NIDIANTE!

Post-esoticamente parlando, dove eravamo rimasti? Al 2019, con l’uscita di Black Village, dopodiché, presumo per motivi legati alla pandemia, nel 2020 66thand2nd non ha pubblicato nessun libro di Antoine Volodine, abbiamo dovuto attendere aprile 2021 affinché sui nostri scaffali ricomparisse un testo recante la firma dello scrittore francese. Attesa ripagata? Sì, e molto. Streghe fraterne (in originale ha ben altra musicalità: Frères sorcières, uscito in Francia nel ’19 e ciò significa che questo è il Volodine, ad oggi, più recente che possiamo leggere in italiano) mi è piaciuto parecchio per almeno due ragioni: stile e struttura, che detta così sembra una cosa da poco trattandosi di un professionista riconosciuto e apprezzato, però se pensiamo alla penna che sta dietro a tutto il progetto, e non mi metterò a ripetere il solito ritornello riguardante la ludica permeabilità del post-esotismo, sfogliare un’ulteriore nonché gradita conferma fa bene al proprio io-lettore. Il libro è suddiviso in tre sezioni, nella prima troviamo un Volodine arzillo, non irresistibile, non straripante, arzillo: viene imbastita una storia che mescola, al solito, resistenza e sopraffazione, servendosi di un valido stratagemma: un’intervista, o meglio, un interrogatorio, il risultato è convincente e delinea la divergenza caratteriale tra chi pone le domande in maniera secca, concisa, neutra, e chi risponde, Éliane Schubert, un’attrice girovaga prolissa e certamente non parca nelle descrizioni coinvolta in una brutta faccenda di banditi sanguinari. Il punto centrale si situa proprio in questa variazione del racconto, nella modalità con cui veniamo edotti delle vicissitudini di Éliane e della sua combriccola che si incastrano in un universo volodiniano (non ad un livello quintessenziale perché ciò lo si ritroverà nell’ultima parte, ma comunque riconoscibile per i canoni dell’autore). Sulla natura di quello che a tratti pare quasi l’accusa in un procedimento giudiziario, a mano a mano che i fatti prendono una precisa direzione il velo di mistero si dissolve e non è così difficile prevedere del perché si è giunti a quel momento inquisitorio, non spoilererò nulla ma, davvero, si intuisce abbastanza agevolmente dove si andrà a parare, a tal proposito c’è un vecchio film di Hirokazu Kore’eda dal titolo After Life (1998) che si basa un po’ sul medesimo principio. Il mio è solo un avvertimento per chi vuole essere sempre sorpreso in ogni ambito artistico, nulla si toglie all’efficacia e alla qualità di questo primo blocco.

Passando al secondo step ecco che registriamo un nuovo genere nelle bizzarre categorie di Volodine, la cantopera, un entr’acte composto da brevi finanche enigmatiche frasi, tutte numerate e tutte, ovviamente, prive di un senso comprensibile. A ben vedere ci era già toccato fronteggiare un espediente simile, mi riferisco agli elenchi puntati dello stupendo Sogni di Mevlidò (66thand2nd, 2019), ma lì le “liste” erano più innervate nella testualità, qui lo sono meno, sappiamo solo che nella realtà letteraria vengono identificate come vociferazioni, sorta di mantra dai poteri oscuri proferibile solo da una ristretta cerchia di persone. Nel complesso tali slogan non hanno chissà quale forza rivelatrice né si distinguono per il loro peso narrativo, però contribuiscono all’unicità di un libro e di uno scrittore che a mio parere ha il grande merito di aver trovato una formula personale estremamente accattivante e che al contempo mantiene inalterata la voglia di rinverdire tale formula scovando piccoli tic, finezze e sciccherie sempre degne della nostra pigra attenzione.

Ma veniamo al terzo atto, un vertiginoso esercizio stilistico che toglie il fiato, un’unica frase priva di punti lunga ben centotré pagine in cui, care amiche e cari amici, si gode di brutto perché questo è puro Volodine, fino all’essenza, al midollo, fino alla più piccola particella visibile e/o invisibile. Leggendo questo stralcio a dir poco impetuoso si ha la sensazione che ci passino davanti agli occhi tutti i paesaggi, umani e non, che Antoine ha creato nella sua carriera, è una rassegna totalmente folle che segue le gesta di quella che è una specie di entità, uno spirito che potrebbe essere malevolo come no, e che, almeno inizialmente, appare parente dell’indimenticato Solovei nell’altrettanto indimenticabile Terminus radioso del 2016 (si cita anche una centrale nucleare, una confutazione più che un indizio), uno spettro eterno che trasmigra di corpo in corpo vivendo avventure che più post-esotiche di così non possono essere. Inoltre il pensiero va un po’ anche all’elefantessa errante di Undici sogni neri (Edizioni Clichy, 2013) perché c’è, implementata, quest’immagine ricorsiva di un Bardo perenne e disastrato, di un limbo fatto di anime impegnate in una stramba lotta di classe o di implicazioni sentimentali che si trascinano da millenni, e tutto vive e muore all’interno di una scrittura sovrannaturale dotata di un sistema zeppo di elementi ricorsivi (giacché) ed espressioni piacevolmente ridondanti (“Io, Jean Ostalnòi...). Di collegamenti diretti con Teatro o morte non mi sembra di averne ravvisati, si tratta di due storie che sarebbero potute essere pubblicate anche separatamente, ma il punto nodale di tutta la faccenda si situa esattamente qua, nell’apparente scarto che sussiste tra i due scritti poiché è solo ad uno sguardo superficiale che essi potrebbero risultare scollati, nei fatti il disegno globale di Volodine ha ormai raggiunto un tale tasso di auto-inclusività che qualunque cosa egli scriva è in grado di connettersi naturalmente con ciò che l’ha preceduta o con ciò che seguirà, senza forzature, senza stonature, senza ripetersi pur ripetendosi. Streghe fraterne è allora l’ennesimo tassello di un mosaico in perpetua costruzione, forse, all’incirca, sappiamo già quale sarà la tessera successiva, ma, quando accadrà, di sicuro non potremo fare a meno di recarci in libreria per comprare il nuovo tomo di turno edito da 66thand2nd.

sabato 6 novembre 2021

Pendular

Non è che qui si vuole scivolare sul confronto come unico metro di giudizio, però, visto che Júlia Murat, ad oggi, di lungometraggi ne ha girati solo due, e uno, tra l’altro, davvero notevole, viene facile compararli anche perché l’altro, cioè questo Pendular (2017), di notevole per quanto mi riguarda ha ben poco. Il fatto è che Found Memories (2011) aveva tutt’altro respiro, sia nel cosa che toccava certe profondità esistenziali, sia nel come attraverso intuizioni stilistiche che pur non risultando innovative facevano il loro dovere, qui, al contrario, non vi è granché che possa essere ricordato né sul fronte tematico né su quello tecnico. La situazione che si presenta è la seguente: una coppia formata da un lui scultore e da una lei ballerina decidono di vivere e lavorare all’interno di una specie di fabbrica in disuso, fin da subito non pare un mistero che l’ambiente intorno a loro sia più uno spazio mentale tanto caro al cinema moderno che uno spazio fisico, comunque, constatato ciò, abbiamo un’altra imboccatura non propriamente richiesta: è immediata la divisione che, chiaramente, non è soltanto dettata dalla riga rossa sul pavimento ma bensì da qualcosa di maggiormente invisibile. Quindi i due innamorati e il loro rapporto a sua volta raffrontato alla produzione artistica, Pendular si occupa di sondare una tale interdipendenza, per il sottoscritto non riesce ad essere convincente in nessuno dei due campi.

Sulla prospettiva sentimentale la resa (dis)amorosa non ha guizzi, ci sono miriadi di ritratti simili nell’autorialità odierna, un po’ di non detto, un po’ di sviamento dalla banalità, un po’ di erotismo senza filtri, il duo della Murat è sostanzialmente così: poca roba. Vieppiù che come da copione arriva sempre puntualissimo un elemento che sconvolge l’equilibrio instauratosi, in Pendular si tratta della maternità, desiderata da lui ma non da lei. Dal momento in cui l’uomo esprime il suo sogno paterno non corrisposto il legame inizia a perdere colpi, si allontanano, discutono, una certa tensione cala nel capannone, e in una scena nuovamente troppo istantanea si invertono perfino i ruoli a letto con lui che diventa passivo. Però, che monotonia! Manca proprio un ritmo, e non mi riferisco a un qualcosa legato alla velocità, un ritmo, magari sensoriale, ci può anche essere in un film contemplativo, Pendular è una linea piatta  che nell’illustrarci gli alti e bassi dei due fidanzati non trasmette il minimo pathos, puoi girare per sottrazione quanto vuoi ma se parti sottraendo da uno zero ti rimarrà ben poco in mano alla fine. Non pervenuto il correlato discorso artistico, o, se pervenuto, per nulla fertile, dovremmo starcene del fatto che una crisi personale comporta anche una crisi creativa? Sbadiglio. Niente da fare nemmeno la faccenda del cavo di ferro che sembra piazzata lì giusto per intorbidire le acque. 

Il picco drammatico (lei abortisce se ho ben inteso) è una telefonata, il fatto che dopo la spaccatura o simil tale i due si vedano in un bar fuori dal deposito fatiscente è un’ulteriore ovvietà che sottolinea quanto la loro relazione “vivesse” in quel preciso luogo. Le professioni che fanno non hanno un’influenza effettiva nella storia, ho percepito che avrebbero potuto svolgere qualsiasi altra mansione che il succo sarebbe rimasto lo stesso. 
Indubbiamente, e lo dico con un filo di amarezza, un’opera seconda non all’altezza della prima.

martedì 2 novembre 2021

Annette

La megalomania è una prerogativa ineliminabile del e nel cinema di Leos Carax. In teoria, per gli amanti duri e puri della settima arte, tutto questo imperterrito sovrabbondare, dilagare, esondare, non rientrerebbe esattamente nella ristretta cerchia degli amori folli. I fatti però dicono che  escludendo (forse) Holy Motors (2012), gli altri lungometraggi del francese si sono rivelati dei maestosi fallimenti, il che, in fondo, ci ha reso questo cineasta più “simpatico” di quanto lo sarebbe stato se i suoi film avessero avuto un successo planetario. Se ci guardiamo indietro scopriamo che Alex Christophe Dupont è un autore che flirta con il mainstream pur avendo la piena consapevolezza che non potrà mai nascere niente di concreto da un’eventuale unione, e Annette (2021) mi pare che incarni più che mai questa tendenza ad arrivare al grande pubblico per poi fermarsi con coscienza qualche metro prima dall’ipotetica platea, troppo ricolma quest’opera, troppo indocile e ribelle per poter piacere alle masse, e di certo, almeno il sottoscritto, non riesce a considerarlo un difetto. Mentre lo guardavo mi è sovvenuto un altro film recente: Climax (2018), e mi sono chiesto: perché due cavalli di razza come Carax e Noé che hanno le capacità per fare qualunque (ma qualunque!) cosa nello spazio-cinema, si sono, passatemi il termine, ingabbiati in contesti musical-danzerecci? Ok, Leos ha sempre avuto un occhio di riguardo verso la musica nei suoi lavori però perché edificare un’intera pellicola sui principi del musical? Lo ammetto con onestà: ho una profondissima idiosincrasia verso questo genere, non amo la spiccata teatralità che sbuca da ogni fotogramma, mi irritano le ostinate coreografie e mal digerisco l’ostentata recitazione,  Annette non mi ha fatto cambiare idea, anzi, a tratti l’ho trovato insopportabile, lui e i suoi due protagonisti, ma altrettanto onestamente devo dire che il castello di carte non crolla perché, al pari di Climax, c’è dietro uno zampino autoriale di prima fascia, e a fronte di estese seccature c’è della bellezza, e non poca.

Oltre che megalomane Carax è anche un amabile egocentrico. Per anni ha mandato in trincea il suo alter ego, il Golem tascabile Denis Lavant, negli ultimi due film, invece, è lui in carne e ossa a dare il ciak nella diegesi, e qui, ad accompagnarlo nel tragitto, c’è anche sua figlia Nastya, tenete tale dettaglio a mente perché visto il dispiegarsi della storia la cosa fa pensare. Osservando Annette come titolo impersonale (ma è possibile farlo? Si può diseredare un manufatto dal suo creatore? Non credo) si profila davvero un oggetto improbabile, che c’entra uno come Carax con le paillettes e i lustrini di Brodway? Come può uno che ha raccontato di amori totalmente scentrati e quasi astratti (Gli amanti del Pont-Neuf, 1991) interessarsi a una coppia da tappeto rosso con peraltro riferimenti (un po’ tirati?) all’attualità del Me Too? In realtà io penso che l’ambaradan messo in piedi, dall’imponenza della messa in scena alle esagerazioni narrative, sia uno specchietto per le allodole. Voglio che sia così. Perché se al contrario prendiamo Annette dal suo centro, dall’ombelico, ecco che troviamo il famigerato cordone nient’affatto reciso, ecco che la rappresentazione parossistica di una famiglia sotto i riflettori del jet set diventa il riflesso distorto di una vicenda strettamente intima e personale. A questo punto non ho potuto fare a meno che pensare di nuovo ad un altro film che in apparenza non ci azzecca nulla: Peace to Us in Our Dreams (2015). C’è un filo potentissimo che li lega, e questo filo non può che essere Ekaterina Nikolaevna Golubeva. Nelle rispettive opere Bartas e Carax hanno impresso in video i propri ectoplasmi coniugali portando sullo schermo le figlie avute con l’attrice-musa Katja [1]. In quest’ottica, che è quella che prediligo, Annette assume ben altri colori che non sono più quelli sbrilluccicanti di un cineasta estroso, si scende, si va giù in gradazioni scure. Ci sono similitudini troppo evidenti per essere casuali, seppur mascherate dal teatrino ridondante, il rapporto tra Henry/Leos e Ann/Katya esce dall’imperante finzione: l’amore, la piccola Annette, il distacco, la morte, il fantasma. Alla fine, durante il confronto conclusivo in prigione, Adam Driver ha un taglio e un colore di capelli molto, molto simile a quelli di Carax.

E quindi il film c’è, e c’è nel suo tendere verso una dimensione inevitabilmente mortuaria [2]. Dall’impianto melodramatico leviamo il melò e ci teniamo un dramma camuffato  negli sbalzi canterini di un Driver all’apice del fastidio e una Cotillard d’essenza femminea e angelica. Certo è che a scansionare con razionalità l’andamento filmico si rimane un pelo interdetti, la svolta più evidente, ovvero la scelta di far esibire Annette come un freak allo sbaraglio, è una sterzata che ho faticato ad accettare, lì per lì mi è sembrata solo una costrizione nata della necessità di fornire una continuità mamma-figlia, e anche ora, a visione ultimata, non riesco ad accogliere con entusiasmo l’accentramento di attenzione verso la bambina burattino in siffatti termini, che dovesse salire alla ribalta del racconto era scontato, le modalità con cui ciò avviene, modalità anche un po’ collodiane se vogliamo viaggiare di fantasia, non mi hanno appagato in pieno. E ci sono anche altri episodi che a mio avviso sbilanciano la proiezione, ma le traiettorie sghembe sono il pane quotidiano di Carax e del resto ci piace proprio per questo motivo. Il duetto finale rimarrà a lungo nella memoria.   
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[1] Purtroppo ho appreso scrivendo questo commento che Ina Marija Bartaitė, la figlia avuta da Sharunas Bartas con Katja Golubeva, è rimasta vittima di un incidente stradale il 7 aprile 2021 a soli venticinque anni. Una nuova tragedia che insanguina ulteriormente la ferita di questa famiglia allargata franco-lituana. Il mio inutile pensiero va a loro.   

[2] Sull’argomento consiglio la lettura della recensione di Holy Motors a firma di Alessandro Baratti (link).

venerdì 29 ottobre 2021

Où en êtes-vous, João Pedro Rodrigues?

Où en êtes-vous, João Pedro Rodrigues? (2017) si genera da una domanda a sua volta scaturita da una richiesta, quella del Centre Pompidou che nel 2016 dedicò a Rodrigues una personale retrospettiva, ed il quesito che alberga nel titolo è l’innesco del cortometraggio: dove sei João? Superato il mezzo secolo di vita per l’autore portoghese, semplicemente uno dei migliori autori in circolazione, sembra essere arrivato il momento di fare un piccolo bilancio artistico-esistenziale e per mettere in pratica questa necessità viene posta subito una condizione che sta alla base di tutto il cinema del lusitano, è una questione di corpi, maschili, di pelle e di muscoli, di peni e scroti, per cui non stupisce il fatto che il film si apra sul sesso di Rodrigues perché lui, e il riflesso che appare e scompare nel vetro su una grana visiva che pare quasi da vecchia pellicola, è un’emanazione della sua arte, uno dei tanti ectoplasmi carnali che la popolano. L’impostazione dell’opera guarda ad un passato che collima con il trascorso umano e professionale di JPR, però il flusso così costruito non si dà, per fortuna, in maniera agevole perché è reso accidentato da un ingrediente para-narrativo costituito da dei brani di Thoreau e Hawthorne e da uno simil-documentaristico che riprenderebbe la migrazione di alcune farfalle dagli Stati Uniti al Messico (ma codesta informazione nel film non c’è, la si legge solo nelle pigre sinossi in Rete). L’unione dei vari elementi ci restituisce il Rodrigues più riflessivo di sempre (e l’immagine del sé stesso allo specchio risulta esemplare), ed è un atteggiamento che potremmo addirittura definire inaspettato ma che vista la cornice culturale in cui il film è sorto e visti gli anni di carriera ormai accumulati non stona affatto.

La carrellata autobiografica non è tale, nel senso: non vi è la benché minima intenzione a celebrare qua (ci mancherebbe, sarebbe stato strano il contrario), piuttosto abbiamo a che fare con brandelli del curriculum rodriguesiano, sicuramente molti avranno colto le pitture che poi campeggeranno sulla locandina di The Ornithologist (2016), mentre molti meno i colibrì e le farfalle meccaniche di Mahjong (2013) - (ci sarà mica da ragionare sul parallelo con le colleghe monarca che viaggiano da un Paese all’altro? E poi: vita-morte, natura-finzione, essenza-trasformazione, andranno considerati accoppiamenti del genere per un’indagine approfondita di Où en êtes-vous? Probabilmente: sì) -, in generale la commistione tra gli stralci presi direttamente dall’archivio casalingo (la prima visita a Venezia per Parabéns! [1997] e la seconda per Il fantasma [2000]), il dietro le quinte notturno di To Die Like a Man (2009) oltre alle continue citazioni all’amico-collaboratore João Rui Guerra da Mata, puntellano un bel percorso di memorie che, per gli ammiratori del regista che lo hanno accompagnato nelle ultime decadi, diventeranno anche un po’ le loro.

domenica 24 ottobre 2021

Fotográfia

Un gruppetto di ragazzi fotografa la folla festante durante un Capodanno a Budapest. Dopodiché salgono su una barchetta per scattare altre foto, questa volta nei villaggi sperduti dell’Ungheria anni ’70.

Ecco, nel movimento, esattamente fisico, della combriccola c’è un po’ il senso di Fotográfia (1973), nonché il senso, e la sua spasmodica ricerca, di un cinema che a noi piace romanticamente immaginare così: lontano dalle paillettes e immerso, fino al collo, nella vita che esorbita incontenibile per provare, quindi, a spiegarcela questa vita, a dirci un paio di cose su di lei, o a spalancarci ulteriori abissi, come se non bastassero quelli che già bisogna fronteggiare. Nelle intenzioni di Pál Zolnay (1928 – 1995) ci potrebbe anche stare un tale slancio, quello che il regista fa del resto è allontanarsi dalla massa per inoltrarsi nella singolarità delle persone, nelle loro storie, e il passepartout che gli permette di accedere ad un siffatto scrigno esistenziale è la fotografia. L’intero film si poggia sul pretesto di fotografare esteriormente degli esseri umani, poveri, poverissimi, gente che ha un tetto sopra la testa e un fazzoletto di terra con cui tirare avanti, per poi, in realtà, fotografarle dentro poiché sono loro stessi, mollate le resistenze, ad aprirsi davanti alla cinepresa. Ben presto la questione fotografica diventa periferica, Zolnay, per mezzo dei suoi giovani che vagano per i paesi, si tramuta in un intervistatore/indagatore che cerca di assorbire più che può da chi incontra. La relativa sorpresa è che, nonostante siano passati quasi cinquant’anni, certi racconti sanno eternarsi e mantengono, oggi, il medesimo carico di disperazione (il riferimento è alla madre assassina che si prende il maggior minutaggio della proiezione), insomma qui ci sono vite e trascorsi complicati da raccontare, delusioni, speranze, amori, ecc., tutta materia narrativa buona per una sceneggiatura.

E infatti, se si vuole muovere una critica (per la serie: ma non hai di meglio da fare che additare una pellicola ungherese in bianco e nero del ’73?), lo si può fare nei confronti del registro adottato che, appunto, si rifà ad un impianto sceneggiaturiale, il che stride con l’idea del film, ovvero il perseguimento della verità. Non è che le varie testimonianze siano finzionalizzate (anche se dei dubbiettini sorgono), quello no, è piuttosto la gestione del fotografo e del suo compare che ci viene proposta in una veste da “film”, ad esempio ci sono molti controcampi sui loro volti che sono lì a sottotitolare lo stupore che provano mentre ascoltano le babushke locali, in generale si avverte l’intenzione di costruire una scena, una sequenza, ed anche se in un territorio inevitabilmente rudimentale Zolnay intensifica, si fa “sentire”, se così si può dire. Ovvio che contestualizzando l’epoca ci sono degli alibi, d’altronde non stiamo parlando di Kubrick, come al contempo appoggio la riuscita di talune scene che, pianificate a tavolino o meno, comunicano ancora qualcosa a noi spettatori del ventunesimo secolo (il vecchietto alle prese con l’apparecchio acustico; il monologo fuori campo della mamma killer con primo piano sulla sua foto nuziale), poi concordo con voi sul fatto che effettuare ripescaggi del genere non c’entra niente con la passione per il cinema ma è pura, limpida, tersa misantropia.

lunedì 18 ottobre 2021

Have a Nice Day

Un prodotto d’animazione cinese con le caratteristiche di Hao jile (2017) non può che avere come sottotitolo un “ehi, che fai? Non mi guardi?”, perché la curiosità di visionare un oggetto proveniente da un Paese così controverso è un’occasione rara per il cinefilo di turno, però, se mi si permette di essere un po’ cattivello, la portata concettuale del film e le riflessioni extra-filmiche che gli ruotano attorno si schiantano con l’effettività della realizzazione che è, ahimè, scarsa. Accetto e comprendo tutti i discorsi che possono fiorire da Have a Nice Day, a partire dalla scintilla narrativa che vede un ragazzo rubare una borsa piena di soldi per un motivo quasi puerile, il regista Jian Liu sembra chiedersi che posto sia diventato la Cina se un futuro sposo è disposto a ficcarsi nei guai per pagare la correzione di un intervento chirurgico alla moglie, sicuramente l’Occidente che è filtrato dopo anni di rigido socialismo non è certo il meglio che potesse arrivare lì (e la voce di Trump sputata dalla radio fa da monito), una divinità ben più potente di Dio o Buddha (divertente la disputa a proposito) è scesa in questo angolo urbano (e qualcosa suggerisce che non sia solo lì), ed è la moneta, solo il denaro muove le persone come pedine cieche su una scacchiera d’abisso, in sostanza Liu ci fa vedere che a nessuno frega un cazzo di niente dell’altro, neanche se è un suo parente, importa solo il grano. La morale, per noi, non è così illuminante, ma se calata nel contesto cinese e rapportata alla sua Storia sociale ed economica qualche ragionamento lo tira via.

Liu, vero factotum dell’animazione, avrà indubbiamente messo grande impegno in ognuna delle sue tavole e parimenti non riusciamo nemmeno ad immaginare le difficoltà che avrà dovuto affrontare, però il risultato globale parla da sé e tecnicamente Have a Nice Day è proprio povero, passino le ambientazioni che trasmettono un senso di accettabile degrado (siamo nei territori de Il lago delle oche selvatiche, 2019), non passi tutta la concreta esecuzione che palesa un’assenza cronica di fluidità, personaggi mono-espressivi, fondali a tinta unita, automobili che si muovono su binari invisibili e labbra fuori sincrono rispetto al parlato. La bidimensionalità che traspare (e che magari potrebbe essere intesa come un segnale di stile e non come una carenza) è per quanto mi riguarda l’esatto corrispettivo che si rintraccia anche nel materiale narrativo, una fiacca storiella dal carattere pulp che affonda nonostante il salvagente dell’ironia, macchiette malavitose si incrociano con anonime figure sulla scena in un gioco dove ho ravvisato una sequela di forzature e coincidenze pressoché dilettantesche. Sarei uno stolto a chiedere veridicità in un’opera del genere, ma lo sarei egualmente se soprassedessi a difetti così marcati. Segnalo solo una discreta parentesi simil-musicale dalla spinta creativa che inneggia a Shangri-La e un’altra “diversa” con il mare increspato, per tutto il resto Jian Liu ha ancora molta strada da fare.

venerdì 15 ottobre 2021

II

Il deserto, una roulotte, una giovane donna che aspetta, un anziano che, claudicante, arriva.

Punta tutto sull’atmosfera il cortometraggio d’esordio di Efthimis Kosemund Sanidis, regista diviso a metà: un po’ tedesco un po’ greco, un po’ ingegnere informatico e un po’ artista (ha frequentato in Francia il centro multidisciplinare Le Fresnoy), e se lo può permettere perché II (2014) si sostanzia in un luogo-non-luogo per eccellenza come può essere una zona desertica: orizzonte sterminato, vento che soffia, non sappiamo dove siamo né, ad esclusione dell’unica linea di dialogo che ci suggerisce un micro appiglio interpretativo, che cosa stia precisamente per accadere. E tale indeterminatezza non si può non avvalorare perché fa presto a trasformarsi in suggestione, il che è indubbiamente più intrigante rispetto a quella letteralità di un cinema prostrato alla tirannia del racconto. 

Kosemund Sanidis si avvale di un impianto contemplativo per mostrarci un incontro tra due persone (saranno le due I del titolo?), di chiarezza ve ne è pochissima: perché l’accompagnatore dello sposo dice che il di lì a poco marito la sta aspettando di sotto quando non può esserci un “sotto” nel deserto? E poi il vecchio è sempre seduto al tavolino, non si è mosso, siamo sicuri che sia lui il consorte designato? E la schiena presumibilmente femminile che apre e chiude il film a chi appartiene? Ovvio che non ci siano risposte per queste domande ed il bello, se accettate che la bellezza assuma la forma di un punto interrogativo, sta proprio nell’opportunità che si ha di esplorare un piccolo enigma che non tocca nemmeno i quindici minuti di durata. Non so ancora cosa  Kosemund Sanidis avrà combinato in futuro (oltre ad altri corti ho letto di commercial per importanti brand mondiali), ma l’inizio lascia intravedere del potenziale. 

mercoledì 13 ottobre 2021

Dog Men

Dubito fortemente che qualcuno vedrà mai Dog Men (2014), opera seconda dei fratelli svizzeri Dario e Mirko Bischofberger, ma se così non fosse, se quel qualcuno spenderà un’ora e dieci minuti della sua vita davanti ad uno schermo, penso proprio che concorderà con me nell’affermare che va bene, va benissimo l’indipendenza, l’approccio low-budget e via discorrendo, però anche in casi come questo si richiede sempre un minimo sindacale nel campo della professionalità. Con ciò spero non me ne vogliano troppo Dario e Mirko se bollo il loro lavoro come amatoriale (cosa che in buona parte è visto che Mirko è un chimico mentre Dario si occupa di musica, e quindi il cinema sembra essere più che altro un’attività collaterale), in fondo li posso anche capire, con le poche finanze a disposizione si sono messi a giocare con gli apparati sci-fi e non potendo filmare una specie di invasione alinea à la Villeneuve, hanno ripiegato su un simil-western che appare l’imitazione dell’universo scentrato creato da Davide Manuli, quindi ok, comprendo tutto, anche se, comprendo meno, molto meno, tale scelta se rapportata al film d’esordio, Old Is the New (2012). Il punto di partenza è il medesimo: la scarsità di mezzi utilizzabili. Se nel precedente lungometraggio oscillante tra il documentaristico e non si faceva dell’indigenza una virtù perché si lavorava sul reale nudo e crudo cucendo, estrapolando, captando delle possibili storie, in Dog Men i Bischofberger si impuntano nella finzione, e non è una grande notizia perché anche all’occhio di un non appassionato salta immediatamente all’attenzione di quanto si sia lontani, qui, dagli standard indispensabili per poter parlare di cinema.

Senza accanirsi troppo che tanto non ne vale la pena ed il film in sé non lo merita neanche, ci sono carenze evidenti, sia sul piano estetico (non sono esperto di videocamere ma a volte il digitale aumentando la definizione sortisce un effetto di quasi appiattimento), e forse è meglio tacere sugli effetti ben poco speciali usati, praticamente un abbecedario del genere fantascientifico che se fosse stato autoironico avrebbe avuto anche un perché, ma messo così proprio no, che su quello del racconto che non ingrana mai, non accende l’interesse, si appesantisce in silenzi che non ce la fanno ad essere “autoriali”, il bighellonare dei due uomini è statico, mi spiace dirlo: un po’ morto, tanto è che la faccenda non si ravviva nemmeno con l’introduzione di personaggi borderline tipo il cieco o il bandito, ed è meglio non aggiungere nulla sulla poverissima caratterizzazione dell’aliena e sugli strumenti tecnologici (?) che la tengono in contatto con il suo compare, davvero, preferisco sorvolare. E niente ragazzi, a parte sottolineare che Dario e Mirko Bischofberger rafforzano il loro feeling con l’Italia (il film è girato in una cava sull’isola di Favignana, ci sono degli ingressi musicali in italiano, i mangiacani sono un riferimento a certe situazioni che si verificavano in passato nel profondo meridione), non so che altro dire, al massimo segnalo la presenza di due filmati d’archivio che rimandano alla questione della preda e del cacciatore che sì e no attraversa il film stesso, e uno di essi, quello africano, mi ha riportato alla mente Miguel Gomes, poi sono subito rinsavito.

domenica 10 ottobre 2021

Venus

Prendi una dozzina di donne danesi e mettile di fronte ad una videocamera chiedendo loro di parlare della sessualità a trecentosessanta gradi, l’intento sarebbe quello di fare un casting per un film che tratta l’argomento delle interviste, solo che, tutto ad un tratto, le due registe dietro al progetto, Mette Carla Albrechtsen e Lea Glob (quest’ultima già intercettata in passato per la co-direzione di Olmo e il gabbiano, 2015), si rendono conto di come le audizioni che stanno effettuando siano esse stesse un film, Venus (2016), appunto. Perciò abbiamo un’opera che, con camera fissa sulle protagoniste e le domande fuori campo di Albrechtsen e Glob, è concentrata esclusivamente sulle ragazze che si avvicendano sopra lo sgabello, storicamente penso che di operazioni equivalenti ne sia strapieno il cinema, ricordo ad esempio il nostro Silvano Agosti che con D’amore si vive (1984) aveva affrontato temi avvicinabili con modalità similari, certo è che chiaramente i tempi cambiano rapidamente e nella nostra società in cui non si riesce mai a dare il giusto spazio alle quote rosa (l’inutilità di questo blog è una cartina tornasole: quanti registi uomini e quante registe donne ci sono in archivio? A naso direi che c’è una netta preponderanza dei primi sulle seconde), ben vengano approfondimenti che danno voce a chi la merita, soprattutto nell’area sessuale che nel pensiero comune sembra più una prerogativa del maschio lasciando la femmina nelle retrovie. Ovviamente tutti sappiamo che non c’è differenza di genere in fatto di desiderio, eccitazione, trasgressione ma anche paura, timidezza, insicurezza quando si parla di sesso, Venus non fa altro che ricordarcelo.

Certo è che qua non siamo nel Dipartimento delle pari opportunità, e se vogliamo fornire un’opinione focalizzata sul film è inevitabile affermare quanto non ci sia francamente niente di imprevedibile, le testimonianze sono largamente pronosticabili per cui è difficile stupirci se una donna dice di aver avuto nella sua vita pochissimi uomini o se un’altra invece afferma di averne collezionati a iosa, non c’è poi particolare sconcerto nel sentir conversare di masturbazione o fantasie erotiche né di orgasmi o scappatelle omosessuali, il fatto è che ritengo sia arduo discorrere davvero della propria intimità al cospetto di esimi sconosciuti perché spesso è complicato farlo perfino con se stessi, e quindi ciò che ne risulta è una sequela un po’ superficiale di aneddoti, pensieri, confessioni e via così per circa un’ora e venti. Brave le due registe ad accendere l’attenzione sulla galassia muliebre (e poco importa se siamo a Copenaghen, è plausibile che in ogni altro luogo dell’occidente avremmo sentito le medesime parole), meno brave nell’espletazione del compito filmico con ulteriore nota di demerito per l’inizio con il posticcio dialogo epistolare e per la fine con il “mettersi a nudo” delle ragazze, ambedue le situazioni ricreate risultano scolastiche e non necessarie.