La trama elaborata dal magiaro, che si basa su un libro di Stanislaw Lem (ma a leggere in giro pare non gli sia stato particolarmente fedele), mette o vorrebbe farlo (la discriminante del gradimento si situa qui), in connessione il macroscopico con il microscopico, credo che le due sequenze che fanno da contenitore alla pellicola siano in tal senso significative, è tutta una faccenda di atomi e molecole, di legami consanguinei che vanno a creare corpi, entità, organismi all’interno di un involucro più grande che a sua volta sta dentro ad un altro ancora maggiore e così via fino all’infinito. Sicché la vicenda di una famiglia che indubbiamente è per i suoi componenti il centro di una vita intera, diventa in realtà soltanto un piccolo filo dell’immenso ordito dell’universo, e infatti durante il finale la comparsa sullo schermo di un epocale albero genealogico è lì a ricordarlo, siamo solo granelli di sabbia in un deserto sconfinato o al massimo i simboli numerici di un codice binario proveniente dalle stelle che un ragazzo diversamente abile è impegnato a decrittare. Ecco, questa chiamiamola tensione tra l’essere umano e le sue pene in rapporto ad una struttura misteriosa che lo sovrasta è il nocciolo del film, poi a fare da contorno Pálfi inserisce parecchia altra roba che sovraccarica la visione. Le sensazioni di una progressione sbrindellata e di una mancanza di equilibrio possiamo zittirle a patto di allinearci al mood strampalato che aleggia, solo così si potranno digerire le innumerevoli fuoriuscite dal seminato (le parentesi spaziali: si accettano interpretazioni) al pari delle ingenuità che, ad una lettura razionale, indeboliscono alcuni passaggi narrativi (la “vendetta” di Zsolt). Poi un frullato composto da messaggi extraterrestri, un alter ego da b-movie di Michael Moore, combustioni spontanee e orge immotivate io lo ingollo senza grossi patemi. Menzione speciale alla scena sul motoscafo.
giovedì 30 dicembre 2021
His Master’s Voice
martedì 28 dicembre 2021
Terra de ninguém
domenica 26 dicembre 2021
Manoman
Il folleggiare del duo in una metropoli notturna è molto spassoso perché è altrettanto spassosa (e anche weird) l’anatomia del doppio maligno, praticamente un diavoletto dannydevitesco che ne combina di ogni, ovvero: combina ciò che Glenn, in un luogo recondito del suo essere, vorrebbe fare, che è un liberarsi, scatenarsi, e lo intuiamo senza ricevere informazioni cospicue, è sufficiente vederlo nella stanza della terapia di gruppo per comprendere la vita infelice e appartata che fin lì ha condotto. L’obiettivo di Cartwright non è però il mostrarci una specie di riabilitazione esistenziale, il folletto irsuto è una proiezione distorta di sentimenti sbagliati, difatti la prima e unica azione “cattiva” di Glenn lo distrugge dentro spingendolo al gesto più estremo in assoluto. Ecco che Manoman, alla fine, accantona la sua spinta mattoide per annerirsi quel che tanto che basta, un suicidio è un suicidio, anche in un oggettino misconosciuto, e le motivazioni che lì conducono possono essere un invito a riflettere, al pari delle ultimissime immagini dove la folla, dal nulla, si mette a idolatrare il demone ignudo che, in piedi sul tetto di un grattacielo, insagomato controluce da un sole sorgente, piscia loro in testa. È il male a vincere sempre?
venerdì 24 dicembre 2021
Caja cerrada
Oltre ad una tale potenza evocatica c’è un’altra questione dentro a Caja cerrada, ovvero l’aderenza al film successivo del regista argentino: The Chechen Family (2015), il parallelo parrebbe impossibile vista la distanza che sussiste tra le due ambientazioni di ripresa e gli argomenti toccati, invece, che ci crediate o meno, è assolutamente una roba concreta la sovrapponibilità concettuale tra le due proposte. Non ci sono molte informazioni in giro su Solá, non si sa bene chi sia e cosa faccia, però da questa coppia di doc recante la sua firma emerge la capacità di trasportarci in uno stato ipnotico-meditativo di rara intensità. Se arrivare a suddette altezze è forse più facile occupandosi di un rituale religioso, lo stesso, in teoria, non si potrebbe dire di pescatori che svuotano le reti dentro a delle cassette di legno, eppure le cose stanno proprio così: il blocco centrale di Caja cerrada, lungo, reiterativo, praticamente una catena di montaggio, ci fa compiere un viaggio filmico in prima classe dove la ripetitività lavorativa unita al formicolante sbattacchiare dei pesci nelle casse deborda in un rapimento audio-visivo da cui non è contemplata alcuna via di fuga, e meno male!, l’imperativo è lasciarsi invadere dal mantra ittico, dalle colate di squame e fauci boccheggianti, dalle manciate di sale, in loop continuo e incessante. Poi, dopo, ci sarà anche una chiusura (tra l’altro l’ultimissima istantanea vede un cielo albeggiante attraversato da gabbiani in volo che fa molto Leviathan), ma è il prima che si scolpisce negli occhi e nelle orecchie, in modo, lasciatemi ancora crogiolare nell’entusiasmo a caldo, indelebile.
lunedì 20 dicembre 2021
This Magnificent Cake!
Vero che mettersi a dissertare sulla scrittura di Ce magnifique gâteau! potrebbe apparire la diluizione del brodino recensionistico (… potrebbe?), tuttavia questa scrittura sembra che un messaggio voglia recapitarcelo, e forse anche più di uno. Il primo, il maggiormente constatabile, si riferisce ad una sorta di critica al colonialismo europeo, non è una ramanzina né un perentorio j’accuse, c’è piuttosto dell’ironia, sardonica (qualcosa che, alla lontana, non sarebbe una bestemmia associare a Seidl) e scorretta, i bianchi vengono dipinti come beoti che se ne fottono di chi hanno intorno (è un’immagine triste e al contempo crudele quella del pigmeo usato come posacenere umano). Comunque sia la chiave di lettura del mettere alla berlina il vile sistema delle colonie occidentali nel continente nero attraverso la derisoria caricatura dei suoi interpreti non sembra essere il fine ultimo di De Swaef e Roels perché un altro tipo di feeling viene ad instaurarsi, ed è dovuto ad un maneggiare argomenti che lambiscono l’abisso, come la morte, e ce ne sono parecchie in tre quarti d’ora, anche violente, o come il sogno, tanto che diventa impossibile capire dove finisce e dove inizia la dimensione onirica (si guardi la succosa scenetta weird con la lumaca), e perciò si ritorna sempre al fascino del bizzarro, marcato o meno, di codesti esemplari cinematografici, alla forza che ogni volta possiedono nel ripresentarsi così, oscuri, indecifrabili, teneri, elusivi, e al sentimento di benevolenza che, complice la loro realizzazione, è automatico provare.
mercoledì 8 dicembre 2021
A Lack of Clarity
Il che, ovvero la suddetta morsa nei riguardi di chi assiste, è un aspetto curioso perché non è per nulla semplice dire di che si occupa A Lack of Clarity. Il commento over dà delle imbeccate, parrebbe che si voglia porre alla nostra attenzione una situazione specificatamente contemporanea, l’inondazione di luce che caratterizza le metropoli moderne (si cita Parigi), luce per vedere, per controllare. Il controllo globale mi sembra che sia il tema al centro del discorso, il fatto di essere gli attori involontari di un “cinema panottico” registrato dalle videocamere a circuito chiuso e relative evoluzioni (si pone l’accento su quelle termiche, e forse le riprese adottano tale tecnologia, però in bianco e nero, giusto per disorientare un altro po’) dovrebbe istituire domande di ordine sociale, etico e politico, questioni di privacy, di riconoscimento facciale, di tracciamento. Argomenti intriganti e urgenti, l’approccio del filmmaker verso di essi non è propriamente frontale e ciò confonde, il portamento quasi sperimentale inghiotte le tesi filmiche, e non mi sento affatto di considerarlo come un difetto. Da rivedere con la massima cautela.
lunedì 6 dicembre 2021
In Purgatorio
Più si va avanti, più In Purgatorio lascia che nel topic principale si innestino altre tematiche, legate e slegate al culto dei trapassati. È il caso dei sogni, premonitori o meno che siano (il defunto sognato ha i piedi sulla battigia, significa che nella bara è entrata dell’acqua e bisogna andare ad asciugarla), ed è il caso, anche, dei cosiddetti “assistiti”, ovvero individui che suggeriscono i numeri del lotto da giocare. Un tale rimbalzare da parte di Cioni in contesti che lambiscono frontiere non così terrene e il rapportarsi con soggetti che Matteo Garrone scritturerebbe seduta stante in un suo film (la voce dell’anziano che paragona un cimitero alla Fiat di Torino, solo che la voce, incatramata, dialettale, è storia a sé), fanno dell’opera in esame il pregevole ritratto di una Napoli ricolma di amichevoli ombre (che cosa si può dire della banda che gioca a carte in cucina? Sarebbe piaciuta a Monicelli), di attori della vita che vivono, di anime in attesa, perché a conti fatti la Napoli di Cioni è un piccolo grande Purgatorio in equilibrio tra le fiamme dell’Inferno e il nitore del Paradiso.
lunedì 29 novembre 2021
Damned Summer
Solo che, in fondo, una così netta comprensibilità non è che abbia incendiato l’animo di chi scrive. E dire che Cabeleira aveva iniziato con un mediometraggio che si occupava di altro (Estranhamento, 2013), mentre della materia di Damned Summer se ne sono occupati altri prima di lui, e non pochi. Senza scordare gli alibi di un giovanissimo dietro la mdp, dico che il ritratto di una fascia d’età persa in un qualche limbo e proposta in un contenitore realistico è un manifestarsi già registrato dai nostri occhi, e non bisogna andare troppo lontano perché rimanendo in Portogallo João Salaviza (e qui è presente un “suo” attore, Rodrigo Perdigão) ha sondato il tema in lungo e in largo, e sono convinto che ci saranno innumerevoli autori, lusitani e non, che si sono impegnati in tale direzione (ricordo un film polacco di poco conto dal titolo All These Sleepless Nights [2016] che ha parecchio in comune con Verão Danado). Anche il quid pluris del film, quell’abbandonarsi ai ritmi martellanti della techno e la psichedelia che da lì scaturisce grazie ad un oculato utilizzo delle luci, è sì, come dicevo sopra, notevole, però non raggiunge il top, non sbaraglia letteralmente le percezioni perché comunque Noé è arrivato anni prima ed è tutt’ora inarrivato. C’è quella sensazione di déjà vu che, parlando in modo soggettivo, impedisce un pieno appagamento fruitivo, fermo sempre restando che chi ha, o ha avuto, solo due decadi e poco oltre sulle spalle è generalmente un campione di onanismo e non certo uno che di mestiere vorrebbe fare il regista, il quale, bazzicando tra Locarno e Torino, dimostra già di essere a buon punto, gli auguriamo per il futuro di alzare il tiro della traiettoria.
martedì 23 novembre 2021
Baton
sabato 20 novembre 2021
Die Kinder der Toten
In un certo senso l’opera sotto esame è l’esasperazione trasportata nell’eccesso di un documentario realista quale è The Border Fence (2018). È vero che il tema dei migranti per Copper e Liska non è dominante sebbene inserito attraverso un gioco di parole (Stiria / Siria), però a mio avviso il discorso sa essere cavo ed ampio e si inserisce nella direzione di quel cinema austriaco che negli anni ha indagato il marcio appiccicato alle fondamenta del Paese. Di base è una faccenda di nazionalismi mai sopiti e dall’agghiacciante retaggio che dentro la narrazione si riflette sottotraccia nel rapporto tra genitori e figli, tra passato e presente, infatti il centro, ok, parecchio traballante ma pur sempre centro è, si colloca nello scontro tra una torva e anziana madre con l’attempata figlia che nel suo bislacco percorso tra la vita e la morte condurrà tutto (anche il film stesso) ad un’autodistruzione senza ritorno. Appunto, la morte: altro topic che arriva dritto dritto, è una puzza, fortissima, mascherata dal grottesco che, quando si scosta, offre quel che c’è sotto i celeberrimi sepolcri imbiancati, il lutto, la tragedia, sono esibizioni con il relativo pubblico, alcol, suicidi incrociati, omicidi efferati, grandi abbuffate, al depliant di mostruosità umane non manca praticamente niente. E poi, per aggiungere un ulteriore carico, si sconfina in un metacinema dalle tinte horrorifiche, e non si tratta di una noiosa digressione teoretica ma di una scoppiettante apocalisse terrena che generandosi da una sala cinematografica (grande l’idea di un “cinema del rimpianto”) si riversa nel contesto filmico con potenza carnevalesca e chiassosa, una specie di giudizio universale di anderssoniana memoria ma decisamente più pimpante. Il laccio tra settima arte, dimensione funebre e realtà politica è un cappio che stringe al collo, e siccome tale nodo scorsoio proviene da un film così grezzo e sbilenco l’apprezzamento raddoppia, o addirittura triplica.
giovedì 18 novembre 2021
El viaje del cometa
Il fatto che ci sia un legame sentimentale tra chi la pellicola l’ha diretta e chi è il protagonista della stessa devo ammettere che si sente, il signor Enoc oscilla tra la figura del prof. buono ed il padre che ora diventando nonno è ancora più amorevole di prima, ma soprattutto, dal ritratto che se ne dà, il vero amore è indirizzato alla sua passione che decide di condividere con chi magari nella vita non avrebbe mai avuto l’opportunità di posare l’occhio sul mirino di un telescopio. Non è un processo di esaltazione o di autocelebrazione famigliare, il tono generale è leggero, scorre ad un ritmo naturale dove l’approccio documentaristico esalta le meraviglie paesaggistiche messicane e parimenti si interessa del reale che c’è intorno, ruba dialoghi, istanti futili, ascolta le lezioni di scienza da bravo discente. Ma la regista non si ferma ad una forma scolastica, sono davvero numerose alcune sue intensificazioni che alterano il girato, abbiamo parentesi in un bianco e nero granuloso, inserimenti di fotografie e frame accelerati, insomma si tenta di vivacizzare il tutto e questa voglia di sperimentare ha culmine in un monologo proferito da Enoc dove si affacciano addirittura dei particolari animati, qui l’insegnante si mette a nudo e con un montaggio che pone in sequenza l’album dei ricordi della famiglia, si diffonde una riflessione che non esito a definire toccante, un momento alto che passa dalla propria storia personale al senso di un’esistenza che trova pienezza nel viaggio e negli insegnamenti che se ne possono trarre. Molto, molto bello, per le parole dette, certo, ma anche per la confezione proposta che tali parole le nobilita. Se qualcuno ci vedrà della morale non richiesta amen, a chi scrive non è pesata nemmeno l’ultima lezione, quella di non arrendersi neanche di fronte alla burocrazia che impedisce al Cometa di salire sul traghetto.
domenica 14 novembre 2021
Astrometal
Per giungere a tali suggestioni EKS si avvale di strumenti piuttosto efficaci che gettano il corto nell’inconsueto, prova ne è la scelta di svuotare il club di persone (perché, guardando bottiglie e bicchieri, qualcuno, prima, lì c’è stato) per riempirlo con un disturbante frastuono cacofonico, come se le casse del locale fossero state sfondate, è una trovata weird che si erge un po’ a simbolo del film, sebbene comunque aleggino altri squarci enigmatici, si noti il momento migliore, ossia l’incursione lynchiana nella stanza buia compiuta dal ragazzo rasato che, stalkerato da Sanidis, si volta inaspettatamente verso la camera, verso di noi, oppure la scena appena susseguente dentro ad uno spogliatoio che pare slegata dal resto, forse è avvenuta prima, o forse dopo. Sul rapporto che c’è tra i tre non viene esplicitato nulla, si intrasente però un’ambigua energia intorno al “terzo incomodo”, ed è una sensazione che diventa senso, uno dei tanti possibili o impossibili, d’altronde la direzione da fornire a questo senso spetta a chi guarda.
martedì 9 novembre 2021
Streghe fraterne
Passando al secondo step ecco che registriamo un nuovo genere nelle bizzarre categorie di Volodine, la cantopera, un entr’acte composto da brevi finanche enigmatiche frasi, tutte numerate e tutte, ovviamente, prive di un senso comprensibile. A ben vedere ci era già toccato fronteggiare un espediente simile, mi riferisco agli elenchi puntati dello stupendo Sogni di Mevlidò (66thand2nd, 2019), ma lì le “liste” erano più innervate nella testualità, qui lo sono meno, sappiamo solo che nella realtà letteraria vengono identificate come vociferazioni, sorta di mantra dai poteri oscuri proferibile solo da una ristretta cerchia di persone. Nel complesso tali slogan non hanno chissà quale forza rivelatrice né si distinguono per il loro peso narrativo, però contribuiscono all’unicità di un libro e di uno scrittore che a mio parere ha il grande merito di aver trovato una formula personale estremamente accattivante e che al contempo mantiene inalterata la voglia di rinverdire tale formula scovando piccoli tic, finezze e sciccherie sempre degne della nostra pigra attenzione.
Ma veniamo al terzo atto, un vertiginoso esercizio stilistico che toglie il fiato, un’unica frase priva di punti lunga ben centotré pagine in cui, care amiche e cari amici, si gode di brutto perché questo è puro Volodine, fino all’essenza, al midollo, fino alla più piccola particella visibile e/o invisibile. Leggendo questo stralcio a dir poco impetuoso si ha la sensazione che ci passino davanti agli occhi tutti i paesaggi, umani e non, che Antoine ha creato nella sua carriera, è una rassegna totalmente folle che segue le gesta di quella che è una specie di entità, uno spirito che potrebbe essere malevolo come no, e che, almeno inizialmente, appare parente dell’indimenticato Solovei nell’altrettanto indimenticabile Terminus radioso del 2016 (si cita anche una centrale nucleare, una confutazione più che un indizio), uno spettro eterno che trasmigra di corpo in corpo vivendo avventure che più post-esotiche di così non possono essere. Inoltre il pensiero va un po’ anche all’elefantessa errante di Undici sogni neri (Edizioni Clichy, 2013) perché c’è, implementata, quest’immagine ricorsiva di un Bardo perenne e disastrato, di un limbo fatto di anime impegnate in una stramba lotta di classe o di implicazioni sentimentali che si trascinano da millenni, e tutto vive e muore all’interno di una scrittura sovrannaturale dotata di un sistema zeppo di elementi ricorsivi (giacché) ed espressioni piacevolmente ridondanti (“Io, Jean Ostalnòi...). Di collegamenti diretti con Teatro o morte non mi sembra di averne ravvisati, si tratta di due storie che sarebbero potute essere pubblicate anche separatamente, ma il punto nodale di tutta la faccenda si situa esattamente qua, nell’apparente scarto che sussiste tra i due scritti poiché è solo ad uno sguardo superficiale che essi potrebbero risultare scollati, nei fatti il disegno globale di Volodine ha ormai raggiunto un tale tasso di auto-inclusività che qualunque cosa egli scriva è in grado di connettersi naturalmente con ciò che l’ha preceduta o con ciò che seguirà, senza forzature, senza stonature, senza ripetersi pur ripetendosi. Streghe fraterne è allora l’ennesimo tassello di un mosaico in perpetua costruzione, forse, all’incirca, sappiamo già quale sarà la tessera successiva, ma, quando accadrà, di sicuro non potremo fare a meno di recarci in libreria per comprare il nuovo tomo di turno edito da 66thand2nd.
sabato 6 novembre 2021
Pendular
martedì 2 novembre 2021
Annette
venerdì 29 ottobre 2021
Où en êtes-vous, João Pedro Rodrigues?
La carrellata autobiografica non è tale, nel senso: non vi è la benché minima intenzione a celebrare qua (ci mancherebbe, sarebbe stato strano il contrario), piuttosto abbiamo a che fare con brandelli del curriculum rodriguesiano, sicuramente molti avranno colto le pitture che poi campeggeranno sulla locandina di The Ornithologist (2016), mentre molti meno i colibrì e le farfalle meccaniche di Mahjong (2013) - (ci sarà mica da ragionare sul parallelo con le colleghe monarca che viaggiano da un Paese all’altro? E poi: vita-morte, natura-finzione, essenza-trasformazione, andranno considerati accoppiamenti del genere per un’indagine approfondita di Où en êtes-vous? Probabilmente: sì) -, in generale la commistione tra gli stralci presi direttamente dall’archivio casalingo (la prima visita a Venezia per Parabéns! [1997] e la seconda per Il fantasma [2000]), il dietro le quinte notturno di To Die Like a Man (2009) oltre alle continue citazioni all’amico-collaboratore João Rui Guerra da Mata, puntellano un bel percorso di memorie che, per gli ammiratori del regista che lo hanno accompagnato nelle ultime decadi, diventeranno anche un po’ le loro.
domenica 24 ottobre 2021
Fotográfia
Ecco, nel movimento, esattamente fisico, della combriccola c’è un po’ il senso di Fotográfia (1973), nonché il senso, e la sua spasmodica ricerca, di un cinema che a noi piace romanticamente immaginare così: lontano dalle paillettes e immerso, fino al collo, nella vita che esorbita incontenibile per provare, quindi, a spiegarcela questa vita, a dirci un paio di cose su di lei, o a spalancarci ulteriori abissi, come se non bastassero quelli che già bisogna fronteggiare. Nelle intenzioni di Pál Zolnay (1928 – 1995) ci potrebbe anche stare un tale slancio, quello che il regista fa del resto è allontanarsi dalla massa per inoltrarsi nella singolarità delle persone, nelle loro storie, e il passepartout che gli permette di accedere ad un siffatto scrigno esistenziale è la fotografia. L’intero film si poggia sul pretesto di fotografare esteriormente degli esseri umani, poveri, poverissimi, gente che ha un tetto sopra la testa e un fazzoletto di terra con cui tirare avanti, per poi, in realtà, fotografarle dentro poiché sono loro stessi, mollate le resistenze, ad aprirsi davanti alla cinepresa. Ben presto la questione fotografica diventa periferica, Zolnay, per mezzo dei suoi giovani che vagano per i paesi, si tramuta in un intervistatore/indagatore che cerca di assorbire più che può da chi incontra. La relativa sorpresa è che, nonostante siano passati quasi cinquant’anni, certi racconti sanno eternarsi e mantengono, oggi, il medesimo carico di disperazione (il riferimento è alla madre assassina che si prende il maggior minutaggio della proiezione), insomma qui ci sono vite e trascorsi complicati da raccontare, delusioni, speranze, amori, ecc., tutta materia narrativa buona per una sceneggiatura.
E infatti, se si vuole muovere una critica (per la serie: ma non hai di meglio da fare che additare una pellicola ungherese in bianco e nero del ’73?), lo si può fare nei confronti del registro adottato che, appunto, si rifà ad un impianto sceneggiaturiale, il che stride con l’idea del film, ovvero il perseguimento della verità. Non è che le varie testimonianze siano finzionalizzate (anche se dei dubbiettini sorgono), quello no, è piuttosto la gestione del fotografo e del suo compare che ci viene proposta in una veste da “film”, ad esempio ci sono molti controcampi sui loro volti che sono lì a sottotitolare lo stupore che provano mentre ascoltano le babushke locali, in generale si avverte l’intenzione di costruire una scena, una sequenza, ed anche se in un territorio inevitabilmente rudimentale Zolnay intensifica, si fa “sentire”, se così si può dire. Ovvio che contestualizzando l’epoca ci sono degli alibi, d’altronde non stiamo parlando di Kubrick, come al contempo appoggio la riuscita di talune scene che, pianificate a tavolino o meno, comunicano ancora qualcosa a noi spettatori del ventunesimo secolo (il vecchietto alle prese con l’apparecchio acustico; il monologo fuori campo della mamma killer con primo piano sulla sua foto nuziale), poi concordo con voi sul fatto che effettuare ripescaggi del genere non c’entra niente con la passione per il cinema ma è pura, limpida, tersa misantropia.
lunedì 18 ottobre 2021
Have a Nice Day
Liu, vero factotum dell’animazione, avrà indubbiamente messo grande impegno in ognuna delle sue tavole e parimenti non riusciamo nemmeno ad immaginare le difficoltà che avrà dovuto affrontare, però il risultato globale parla da sé e tecnicamente Have a Nice Day è proprio povero, passino le ambientazioni che trasmettono un senso di accettabile degrado (siamo nei territori de Il lago delle oche selvatiche, 2019), non passi tutta la concreta esecuzione che palesa un’assenza cronica di fluidità, personaggi mono-espressivi, fondali a tinta unita, automobili che si muovono su binari invisibili e labbra fuori sincrono rispetto al parlato. La bidimensionalità che traspare (e che magari potrebbe essere intesa come un segnale di stile e non come una carenza) è per quanto mi riguarda l’esatto corrispettivo che si rintraccia anche nel materiale narrativo, una fiacca storiella dal carattere pulp che affonda nonostante il salvagente dell’ironia, macchiette malavitose si incrociano con anonime figure sulla scena in un gioco dove ho ravvisato una sequela di forzature e coincidenze pressoché dilettantesche. Sarei uno stolto a chiedere veridicità in un’opera del genere, ma lo sarei egualmente se soprassedessi a difetti così marcati. Segnalo solo una discreta parentesi simil-musicale dalla spinta creativa che inneggia a Shangri-La e un’altra “diversa” con il mare increspato, per tutto il resto Jian Liu ha ancora molta strada da fare.
venerdì 15 ottobre 2021
II
mercoledì 13 ottobre 2021
Dog Men
Senza accanirsi troppo che tanto non ne vale la pena ed il film in sé non lo merita neanche, ci sono carenze evidenti, sia sul piano estetico (non sono esperto di videocamere ma a volte il digitale aumentando la definizione sortisce un effetto di quasi appiattimento), e forse è meglio tacere sugli effetti ben poco speciali usati, praticamente un abbecedario del genere fantascientifico che se fosse stato autoironico avrebbe avuto anche un perché, ma messo così proprio no, che su quello del racconto che non ingrana mai, non accende l’interesse, si appesantisce in silenzi che non ce la fanno ad essere “autoriali”, il bighellonare dei due uomini è statico, mi spiace dirlo: un po’ morto, tanto è che la faccenda non si ravviva nemmeno con l’introduzione di personaggi borderline tipo il cieco o il bandito, ed è meglio non aggiungere nulla sulla poverissima caratterizzazione dell’aliena e sugli strumenti tecnologici (?) che la tengono in contatto con il suo compare, davvero, preferisco sorvolare. E niente ragazzi, a parte sottolineare che Dario e Mirko Bischofberger rafforzano il loro feeling con l’Italia (il film è girato in una cava sull’isola di Favignana, ci sono degli ingressi musicali in italiano, i mangiacani sono un riferimento a certe situazioni che si verificavano in passato nel profondo meridione), non so che altro dire, al massimo segnalo la presenza di due filmati d’archivio che rimandano alla questione della preda e del cacciatore che sì e no attraversa il film stesso, e uno di essi, quello africano, mi ha riportato alla mente Miguel Gomes, poi sono subito rinsavito.
domenica 10 ottobre 2021
Venus
Certo è che qua non siamo nel Dipartimento delle pari opportunità, e se vogliamo fornire un’opinione focalizzata sul film è inevitabile affermare quanto non ci sia francamente niente di imprevedibile, le testimonianze sono largamente pronosticabili per cui è difficile stupirci se una donna dice di aver avuto nella sua vita pochissimi uomini o se un’altra invece afferma di averne collezionati a iosa, non c’è poi particolare sconcerto nel sentir conversare di masturbazione o fantasie erotiche né di orgasmi o scappatelle omosessuali, il fatto è che ritengo sia arduo discorrere davvero della propria intimità al cospetto di esimi sconosciuti perché spesso è complicato farlo perfino con se stessi, e quindi ciò che ne risulta è una sequela un po’ superficiale di aneddoti, pensieri, confessioni e via così per circa un’ora e venti. Brave le due registe ad accendere l’attenzione sulla galassia muliebre (e poco importa se siamo a Copenaghen, è plausibile che in ogni altro luogo dell’occidente avremmo sentito le medesime parole), meno brave nell’espletazione del compito filmico con ulteriore nota di demerito per l’inizio con il posticcio dialogo epistolare e per la fine con il “mettersi a nudo” delle ragazze, ambedue le situazioni ricreate risultano scolastiche e non necessarie.