giovedì 14 novembre 2019

Black Village

Lutz Bassmann
2019
66thand2nd; 212 p.

Avvilito, Quantz andò col pensiero a un irritante romanzo post-esotico che aveva letto qualche anno prima in prigione, la storia di un viandante che non giungeva mai a destinazione e passava la propria esistenza a vagare da un punto all’altro, integrandosi grazie a un travestimento qua, cambiando sesso là, quindi sposandosi con una strega, poi diventando un bandito di strada. Il romanzo, come spesso accade in opere di questo genere, non aveva né capo né coda, e Quantz lo aveva chiuso senza volerne conoscere la fine.

Come non spendere due parole sull’ultimo esemplare post-esotico pubblicato da 66thand2nd nell’ottobre del 2019? Parole che non possono che essere positive (c’era da aspettarselo visti i precedenti) e che necessitano di una premessa: il nome campeggiante sulla copertina è quello di Lutz Bassmann e ormai tutti gli appassionati sanno che questo scrittore non è nient’altro che un eteronimo di Volodine stesso, nulla di eclatante (nel progetto volodiniano, si intende) se ricordiamo che in Italia era uscito nel 2013 Undici sogni neri, libro recante la firma di Manuela Draeger (sebbene alle Edizioni Clichy furono un pochino più pavidi piazzando tra parentesi il padre biologico dell’opera) e che strutturalmente non si discostava troppo da Black Village. Ma a prescindere dai discorsi sulla forma, su cui tornerò sotto, vorrei richiamare la vostra attenzione sull’esplicitazione dell’eteronimia applicata al post-esotismo di Volodine. Ovvero: concretizzando la pubblicazione di volumi con nomi diversi dal suo, Volodine permette a questa corrente letteraria di sbocciare e proliferare anche al di là del proprio volere, se stiamo al gioco, ammesso che sia un gioco, Bassmann e Draeger hanno uno stile personale che si affranca dai lavori sottoscritti da Volodine, e quindi ecco che si attua un processo di inveramento, reale e tangibile (così tangibile che tra poco metterò Black Village nella mia libreria accanto ai suoi simili per arricchire il blocco post-esotico), di un movimento sulla carta esclusivamente finzionale, “sulla carta” in senso figurato perché è proprio sulla carta (stampata) che i testi post-esotici acquistano vita e presenza nel nostro mondo. Non possiamo più nasconderci, il post-esotismo esiste per davvero.

Esiste ed ha una natura proteiforme con tutta una serie di deliziosi canoni e codici interni, veri e propri dispositivi formali che delineano sagome di narrazione composte nel loro nucleo da tematiche comunque altamente accomunabili. Lo avevo già detto quando scrissi del superbo Sogni di Mevlidò (66thand2nd, 2019), Volodine, in fondo, non inventa nulla, piuttosto si sta dimostrando un formidabile re-inventore che lavora su oggetti letterari normali applicandovi il suo inconfondibile marchio. Il discorso è ben traslabile su Black Village, il quale, seccando un po’ l’afflato lirico, non è niente di più e niente di meno che una raccolta di racconti. Ora, Volodine non è nuovo a soluzioni del genere, il già citato libro della Draeger o anche Angeli minori (L’orma, 2016) sono banalmente un insieme di storie poste in sequenza. Lo scarto che li fa allontanare dall’ordinarietà è l’etichetta che Volodine fornisce, che poi non è solo una faccenda di superficie ma è, anche, una messa in scena di segni connotativi. E così abbiamo avuto, ad esempio, i narrat, mentre qui dobbiamo fronteggiare la categoria dei zaconti. L’escamotage per farci leggere trentuno zaconti è semplice quanto bello: tre tizi vagano in una dimensione oscura che forse è una specie di aldilà, per misurare il tempo che passa decidono di raccontars(/c)i delle storie. Il succo delle suddette storie è ovviamente nero e bituminoso (aggettivo calzante che rubo dalle ultime pagine) e possiamo ritrovare molte delle ossessioni che ci hanno accompagnato in questi anni di avventure post-esotiche. Il sottoscritto, pur ammettendo una certa ripetizione, di Volodine non ne ha mai abbastanza per cui ben vengano questi surreali spaccati di estrema desolazione da leggere tutti d’un fiato. È chiaro che come sempre accade in una raccolta non tutti i testi hanno la medesima presa, però mi sento di dire che si può rimanere soddisfatti anche perché sussiste l’eventualità di un dialogo tra i zaconti stessi, si noti che il numero 4 ed il numero 32 sono l’uno la continuazione dell’altro ma è possibile che mi siano sfuggiti ulteriori collegamenti. Il confronto poi esce dal libro stesso citando ulteriori riferimenti dell’opus magnum post-esotico, nuovamente: ho il sentore di essermi perso degli agganci ma di sicuro ho beccato il rimando all’elefantessa immortale di Undici sogni neri.

Ho lasciato alla fine un ragionamento sulla peculiarità principe del zaconto. Per farlo mi riallaccio al concetto del Volodine re-inventore perché qui abbiamo delle storie che non hanno una conclusione, o meglio, una conclusione ce l’hanno ma è letteralmente mozzata in modo che non vi sia uno scioglimento delle premesse fatte. È una trovata che non può considerarsi rivoluzionaria, personalmente mi sono sovvenuti almeno altri due episodi di troncatura del finale nel panorama letterario recente e non, lo ha fatto Wallace ne La scopa del sistema e, andando ancora più indietro, lo ha fatto anche Kafka che si è divertito con Il castello a lasciarci con un palmo di naso arrivati all’ultima pagina. I paragoni non sono forse troppo calzanti perché la scelta di Volodine è sistemica, le sue narrazioni possiedono una cifra quasi provocatoria laddove le linee di costruzione non hanno necessità di canalizzarsi in un preciso compimento, sono addizioni di numeri estranei a cui riusciamo a dare un valore impreciso, potrei dire che i finali saremmo in grado di scriverli noi lettori con la nostra immaginazione rinvigorendo la connessione instaurata col libro, ma non ne sono troppo convinto, del resto

[nota a margine di Black Village in quanto prodotto acquistabile in libreria o dove vi vien più comodo: questo autunno è, ed è stato, dal punto di vista delle uscite editoriali semplicemente clamoroso per i miei gusti di lettore. In pratica le cose sono andate così: a settembre minimum fax ha ristampato Storie della farfalla di Vollmann (bello, più bello nelle ultime trenta/quaranta pagine), poi a ottobre è arrivato il qui presente Volodine insieme alla favoletta illustrata Volpe 8 di George Saunders e a Il ritorno del barone Wenckheim per Bompiani, a conti fatti il primo vero Krasznahorkai letterario non trasposto in alcuna pellicola di Tarr. Infine il 7 novembre sempre 66thand2nd ha riemesso nel mercato italiano Casa di foglie di Mark Z. Danielewski dopo che la prima edizione Mondadori era da tempo fuori catalogo e si trovava solo su eBay a cifre irragionevoli. Quindi, cari ragazzi, io nei prossimi mesi avrò il comodino piuttosto occupato, spero che voi facciate altrettanto]

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