domenica 31 gennaio 2016

Alumbramiento

Secondo capitolo della trilogia A contraluz, Alumbramiento (2007) si muove in senso opposto al discreto Contracuerpo (2005): questa volta Chapero-Jackson mette in piedi un corto a cui non preme l’urgenza della metafora o dello scompaginamento temporale, la linearità è il dogma a cui si attiene fregiandosi di un minimalismo che ben si sposa con l’argomento strettamente intimo rappresentato. Perché sebbene il titolo significhi in spagnolo “nascita”, il regista si colloca all’antitesi riprendendo una morte, quella di una signora anziana, e i famigliari presenti al capezzale; l’atmosfera resa è da estrema unzione e votata ad un’introversione che dà credibilità alle sofferenze della povera donna e a tutto il peso nostalgico degli ultimi e definitivi ricordi (rivolti per buona parte, come spesso accade per chi è ormai ad un passo dal traguardo della vita, alla propria madre) che sovrappongono nebulosamente presente e passato (“mettete via quei giocattoli!”).

Per il comparto tecnico Chapero-Jackson manifesta capacità di buon livello impreziosite da un cast decisamente professionale (sono tutti attori dal corposo curriculum) e da almeno due piccolissime trovate che il sottoscritto ha apprezzato (il cellulare che squilla nel buio all’inizio e il breve pianosequenza a ritroso che chiude il film). Dove il regista ispanoamericano persuade molto meno a confronto del lavoro precedente è sul piano contenutistico, l’intenzione parrebbe essere quella di inscenare l’annosa questione del vuoto che intercorre tra l’accanimento terapeutico e la morte assistita, inseguendo questa meta si dimentica però di fornire spessore, di concatenare cause ed effetti, di legittimare il comportamento della nuora che inspiegabilmente allevia di sua sponte i patimenti della suocera assumendo dunque i connotati della pietà o qualcosa di simile contrapposti al criterio scientifico del figlio-dottore che tenta di iniettare qualsiasi tipo di medicinale nel corpo di sua mamma, ricreando allora su pellicola un vespiano dibattito etico poco stringente, disossato dalla sua stessa natura elementare che si concentra esclusivamente sull’esposizione del tema, un trattatello sull’eutanasia di cui si può prescindere.

venerdì 29 gennaio 2016

Jitensha toiki

Del Sion Sono pre-trilogia del suicidio non si sa moltissimo (per fortuna un po’ di luce è stata fatta con la retrospettiva a lui dedicata in quel di Torino ’11) e perfino lo stesso regista giapponese affermava in un’intervista (non riesco più a rintracciarla, pardon) che in teoria la sua carriera doveva necessariamente essere intesa a partire da Suicide Club (2001) in avanti. Ma prima del film che lo rivelò per quello che è, c’è una carrellata di titoli su cui è doveroso porre più di uno sguardo, non foss’altro perché spesse volte negli esordi di un autore è facile (nonché piacevole) rintracciare sottoforma embrionale quel cinema che in futuro si manifesterà in maniera compiuta. E Jitensha toiki (1990), terzo lungometraggio uscito in concomitanza al trentesimo compleanno di Sono, è un calderone dove ribollono segnali inequivocabilmente sononiani: il primo di questi è l’introduzione autobiografica di Shiro, un tipico espediente narrativo che diventerà marchio di fabbrica del cineasta, la storia poi si concentra su una realtà prettamente giovanile (il campo d’azione è il limbo tra scuola e università) e si articola seguendo le pulsioni dei due protagonisti divisi tra amori scolastici (ciò ricorda Hazard, 2005), prospettive a breve termine e velleità cinematografiche. Nello sciorinare le personalità dei ragazzi, non senza un certo caos lontano parente della torrenzialità artistica a cui assisteremo attoniti, si nota un primitivo accenno sulla disidentificazione vissuta in prima persona dalla gioventù sullo schermo, le cause non sono ben chiare (mancano riferimenti espliciti alla società o alla famiglia [cardine assoluto di Sono], ma occhio alla collocazione geografica, un’anonima provincia il cui nome viene ripetuto di continuo) mentre al contrario gli effetti sono evidenti: per dire che si esiste bisogna salire sopra un tetto ed urlare il proprio nome o girare per la città con una bandiera che riporta la scritta “io”.

Il tasso di acerbità è comunque elevato e per cause evidenti inficia la riuscita dell’opera a cui manca un mastice capace di tenere i novantatre minuti di durata. Questo è davvero un sintomo di immaturità visto che Sono dimostrerà ampiamente di essere una penna talmente sostanziosa da strabordare nell’esagerazione senza perdere un briciolo di credibilità; qui non è che la trama sia asciutta o che si proceda per sottrazione, d’altronde la sola presenza di un film parallelo all’interno del film stesso schiude porticine piuttosto fertili, ed anche gli avvicendamenti categoriali (dalla commedia al dramma finale che ha un qualcosa della scena madre di Be Sure to Share, 2009) e le immancabili stramberie (genitori travestiti da orsi, copricapi mostruosi) garantiscono un’energia che a prescindere dai primordi registici pur avendo vent’anni in più sulle spalle non molla di un centimetro, il punto è che una mancata omogeneità (da intendere come costruzione sequenziale [e non] saldante) indebolisce il fervore di Sono limitato in una frammentarietà di eventi privi di raccordi (o magari è chi scrive a non averli colti), e da un tale andamento discontinuo si genera un oggettino che tra le altre cose non fa sicuramente del coinvolgimento il suo punto di forza, ma si sa, a Sion Sono gli si può perdonare tutto e Jitensha toiki o meno lui resta un peso massimo del cinema orientale.

mercoledì 27 gennaio 2016

Teddy Bear

La contrapposizione lapalissiana di Dennis (2007) tra ciò che il suo protagonista era all’esterno e ciò che realmente era all’interno si dimostrava fallace e nemmeno in grado di reggere il peso esiguo di un cortometraggio. Evidentemente Matthiesen al tempo non condivideva tale opinione e così cinque anni dopo se ne uscì con 10 timer til Paradis, film che riprende nuovamente la vita del culturista Dennis (la prima manciata di minuti con l’uscita galante e il rientro a casa con bugia è infatti una sintesi di quanto accadeva nel corto) il quale nonostante sia passato del tempo è ancora alla ricerca dell’anima gemella. Se però niente è cambiato nella caratterizzazione generale della dimensione filmica, allora la mono-idea che tentava di sorreggere ogni principio senza riuscirci palesa una serie di difficoltà anche qua; certo, trattandosi di un’opera più lunga il regista danese ha potuto approfondire talune questioni e dare un respiro più ampio alla vicenda con la trasferta asiatica, tuttavia, strizzando strizzando, il risultato complessivo lambisce un’orizzontalità insoddisfacente.

E proprio la parte ambientata in Thailandia risulta parecchio banalotta soprattutto a causa di una scrittura ampiamente anticipabile per via dello scarso spessore (ovviamente non fisico) di Dennis, sicché nell’assistere alle avances di giovani disinibite rifiutate dal bodybuilder è facile prevedere che la donna da lui agognata nulla avrà a che vedere con quelle sgallettate imprenditrici di se stesse nel commercio sessuale. E l’ovvietà sopraggiunge quando le predizioni trovano conferma: Dennis scopre finalmente l’altra metà della mela in una tipa qualunque che non ha niente in comune con le sue uscite danesi e men che meno con quelle thailandesi. Al ritorno in Europa il film si ravviva: lasciati da parte i sonnolenti episodi sentimentali affiora il tema indubitabilmente più interessante del rapporto-campana di vetro fra Dennis e la mamma messo per la prima volta in dubbio dalla presenza di una fidanzata. Se fosse stato dato più spazio a questa sorta di triangolo combattuto da due differenti tipologie di amore (materno vs. relazionale) Teddy Bear avrebbe avuto una misura più ampia, invece concentrato com’è ad evidenziare la timidezza di Dennis perde nel tragitto l’auspicata deflagrazione del genitore-chioccia ridotta ad un breve segmento, l’unico centrato, dove i tre pianeti si allineano in un negozio di biancheria intima femminile.

Per ripetere l’antifona: la figura di Dennis funziona al massimo per qualche scena, appena comprese le motivazioni di Matthiesen il quadro scolora nel mettere in atto un insipido teatrino piuttosto conformato e prevedibile, e allo stesso tempo lo sviluppo che avrebbe dato una vera direzione al film viene relegato negli ultimi venti minuti di proiezione sfibrando di potenziale.

mercoledì 20 gennaio 2016

Anna

Dall’Islanda una piccola storia di solitudine/i; prima di sbadigliare ed abbandonare la lettura sappiate almeno che la regista Helena Stefánsdóttir in questo Anna (2007) batte strade che sono, o almeno ci provano, alternative: prendiamo la manciata di minuti iniziale: c’è un’atmosfera strana nella cameretta di Anna, il suo risveglio si aggira tra un’Amélie sclerata e un Gilliam all’acqua di rose, poi la vediamo accendere svariati carillon disseminati per la stanza, la melodia che ne consegue non è per nulla armoniosa e indica un andamento fuori (dal) tempo che si dimostrerà sintomo, quasi patologico, della Nostra. Prova ne sono le chiavi appese ai muri (ma quante porte dovrebbero esserci?) e la “colazione invisibile” da bambina che gioca con le bambole. Insomma, Anna non sembra avere il reparto rotelle come effettivamente dovrebbe essere, e la Stefansdottir si prodiga nel ricordarcelo attraverso inquadrature sghembe che ritraggono la protagonista di rosso vestita in comportamenti alquanto bizzarri. Su questo punto permane il dubbio se le imitazioni di Anna dei passanti che incontra per la strada (un bacio schioccato con la mano, uno starnuto, un pianto isterico: tutto ripetuto in sequenza fino all’acme della follia) siano aride sciocchezzuole messe lì per disorientare oppure rappresentino aperture al possibile, del tipo che Anna, così sola e desiderosa di avere una persona al suo fianco (la sua mano che sfiora la porta di Adam), sia talmente sensibile alla vicinanza umana che senza volerlo ne imita automaticamente i gesti, il che rappresenta al contempo una condanna che la spinge all’isolamento per evitare di apparire in pubblico una schizzata da internare.

Supposizioni. Il cui scioglimento non è importante, almeno non per chi scrive, in quanto è più interessante notare di come a monte Anna sia in grado di generare delle ipotesi sulla propria natura, un’indeterminatezza che fa bene, che cancella la didascalia ripresa invece nel finale non brillantassimo: l’immagine frontale dei due vicini di casa in equilibrio sul cornicione è propria volta a spiegare la condizione di Anna e Adam, una facilitazione per apprendere informazioni già recepite: che la ragazza fosse sul ciglio del dirupo era evidente, il riepilogo conclusivo ci sta senza entusiasmare, la risata che li salverà anche.

Piesse: alcune sinossi in Rete affermano che la donna sia affetta dalla sindrome di Tourette, ma nel film non viene fatto alcun riferimento esplicito a questo disordine neurologico.

domenica 17 gennaio 2016

Camille Claudel 1915

Era pronosticabile che giunto ad un punto artisticamente espanso oltre i limiti come Hors Satan (2011), il cinema di Dumont potesse subire un rinculo, Camille Claudel 1915 (2013) è una scossa di assestamento, uno sguardo più vicino agli stilemi classici, un film forse più accessibile in confronto al mistico curriculum del regista nato a Bailleul. È un’opera orientata ad un’attorialità e ad una messa in scena che fino ad oggi non avevamo mai visto, d’altronde è la prima collaborazione tra Dumont e un’étoile come Juliette Binoche la quale, a differenza dei suoi colleghi non professionisti che l’hanno preceduta, deve mettere davanti alla mdp tutto il repertorio di cui è dotata oltre che una certa loquacità (i dialoghi/monologhi col direttore e con il fratello) mai udita prima. E poi la latitanza della Natura, cuore immoto dell’intera filmografia, qui ridotta nell’apparizione scheletrica di un albero avvizzito, e l’opposta costante presenza degli interni dell’ospedale psichiatrico, anonimi e plumbei. Un punto di vista che quasi si normalizza soffoca a mio avviso quella potenza estatica che ben abbiamo saputo adorare nel corso degli anni, il plus dumontiano è sempre stato quello di riuscire a comunicare un investente flusso narrativo/emotivo/sensitivo facendosi carico lui stesso di ogni azione ostensiva, i personaggi nei film del francese, in sostanza, non hanno mai dovuto fare niente, bastava un semplice primo piano a far esplodere il nostro semantic-detector. Di contro, se all’interno del film vi è, ad esempio, un’interpretazione così forte come la Binoche ha dimostrato, il vigore primigenio della visione (del già citato Hors Satan, ma anche di Flanders [2006]) non (ci fa) (imm)emerge(re).

Dal punto di vista tematico, invece, Dumont rimane fedele alla propria linea. Si è ripetuto innumerevoli volte che l’argomento presente più d’ogni altro nella sua carriera è stato la religione. Lo scarto netto tra un approccio ordinario ed uno terroristico che gli si confà perfettamente ha permesso di creare voragini dentro il senso di concetti come Dio, Miracolo, Fede, Sacrificio, Diavolo, Visione, e sempre tramite figure giustamente definite cristologiche, un team che si arricchisce della presenza di Camille: la prima inquadratura vede la donna ripresa di spalle, benvenuti nel suo mondo: provate a soffrire come sta soffrendo lei. In assenza dell’ispirazione paesaggistica, il regista punta il mirino sul paesaggio corporale della Binoche, sfigurata ed emaciata, nel bel mezzo della sua via crucis. La centralità Binoche/Claudel, rimarcata dalla locandina, si evince anche dal fatto che la protagonista, circondata da infermi mentali dai tratti lombrosiani, deformi, quando invece di solito le figure lombrosiane, ad esclusione di Hadewijch (2009), giustappunto un’altra storia con intenti biografici, erano gli attori principali, spicca per lucidità e regolarità, anche anatomica, al cospetto della follia circostante. Alla dimensione solitaria si subordina la questione religiosa, per la prima volta, forse, questo non è più un Dumont che svela l’insondabile lasciandoci attoniti, piuttosto un Dumont che addita la sterilità della fede: uno dei pazienti domanda ad una suora dove sia Dio, il fratello Paul, putrida declinazione dell’indrottinato: il fanatico-egotico, sproloquia insensatamente verso il Signore. E Camille, una versione muliebre del Pharaon de L’umanità (1999), che si affida ostinatamente alla preghiera. Noi sappiamo che non c’è speranza lì dentro, ma lei no, ed è per questo che per chi scrive Camille Claudel 1915 ha una portata più accusatoria della fede che esplorativa.

In questi termini è inevitabile che lo spettro analitico non raggiunga profondità così inesplorate, parimenti l’inesausta ricerca di Bruno Dumont della religiosità attraverso il cinema può anche contemplare esemplari meno radicali. E comunque, a prescindere dalla minor estasi, nel finale, con l’immagine frontale di Camille per la prima volta rischiarata da un timido sole, presenziamo alla plausibile nonché unica stimolazione del tessuto percettivo, quel raggio di luce sembra essere il solo segno di pietas dell’intero film, la cifra del divario incolmabile tra chi sta in cielo e chi sta in terra.

domenica 10 gennaio 2016

Volcano

Era evidente che dopo una serie di cortometraggi (e per quanto abbiamo potuto vedere uno di essi sa il fatto suo: Two Birds, 2008) il grande passo per l’islandese Rúnar Rúnarsson sarebbe stato il debutto nel lungometraggio, Eldfjall arriva nel 2011 e si prende una vetrina di lusso come Cannes (da dove il regista era comunque già passato con Smáfuglar) più un cospicuo numero di premi vinti (IMDb ne conta oltre una dozzina) in svariati Festival. Per questo film Rúnarsson sceglie la via della semplicità, né la trama in sé è particolarmente elaborata (un uomo di mezza età che proprio quando va in pensione deve fronteggiare una disgrazia familiare) né il suo stile che con assoluta discrezione carpisce il mood del sentimento stagionato, della rassegnazione, dell’accettare i titoli di coda sulla vita. Interessante notare l’atteggiamento del protagonista che nei primi trenta minuti con quei due episodi che lo portano ad un passo dalla morte ha un qualcosa di inconsapevole in relazione alle azioni che è sul punto di compiere, la condotta è figlia di un malessere personale che una volta messo di fronte al vero ed incombente trapasso svanisce, si volatilizza lasciando filtrare quell’umanità che non se ne era mai andata ma che fino a quel momento era stata oscurata da nubi nere, e il ritorno al sorriso oltre a riguardare il prendersi cura della moglie-vegetale comprende anche la condivisione di un’esperienza (molto nobile peraltro, visto che la barca apparteneva al bisnonno del bimbo) con il nipotino che ad inizio film si era beccato un rimbrotto tra i denti per aver giocato a pallone in giardino.

La mutazione relazionale da parte del marito è senza dubbio l’architrave del film e permette di lasciarsi andare a congetture che in soldoni riguardano o riguarderanno tutti noi, senza dimenticare che grazie alla prova attoriale di Theodór Júlíusson la sua metamorfosi da uomo rude e scontroso a coniuge premuroso e disponibile al sacrificio (anche il più estremo che si possa pensare) instilla della tenerezza in un’opera che non ha come obiettivo principale quello di coinvolgere emotivamente chi guarda. Rúnarsson è capace nel rendere credibili i cortocircuiti tra vita-morte-amore e in aggiunta si applica nel caricare l’idea dell’isola abbandonata trentasette anni prima a causa di un’eruzione vulcanica (il prologo significativo inanella immagini di reperto sull’argomento) come una specie di Eden perduto, un’oasi che si può guardare da lontano (mentre si affonda!) o dove si va a riposare, per l’eternità. Purtroppo per Rúnarsson coloro i quali guarderanno Volcano dopo aver visto Amour (2012) non rimarranno particolarmente colpiti dall’agghiacciante gesto di Hannes che invece avrebbe tutte le carte in regola per ammutolire lo spettatore, questo perché Haneke, sicuramente senza farlo di proposito, ripete nel suo film la medesima sequenza con Trintignant la cui condotta è mossa da sentimenti e motivazioni completamente identici a quelli del suo collega islandese. L’effetto viene perciò depotenziato dalla sensazione di “già visto”, ad ogni modo cercando di riappropriarci della verginità che Haneke ci ha tolto, la dolorosa conclusione ha una coerenza che convince e che fortifica un percorso umano: dall’eutanasia per odio (verso di sé) all’eutanasia per amore (verso l’altro).

martedì 5 gennaio 2016

Pigs

Trasfigurare la favola dei Tre porcellini nella dimensione incubica di un sonno angosciante, penetrare nelle pieghe di un possibile, piccolo, inferno, spalancare indeterminatamente il ventaglio delle possibilità; l’incandescenza arancione di una lampadina, gli scotennamenti, il totem, il lupo, la capienza semiotica, le immagini fiondate. Questo è Pigs (2011), proiettile weird partorito dall’allora ventottenne Konstantina Kotzamani che scava nelle nostre zone umide, nei laghi sotterranei dell’inconscio, e qui sosta, tremulo, affabulando con la distorsione fonica, la filastrocca inquietata, non c’è via d’uscita come non vi è entrata, la fine, d’altronde, coincide con l’inizio nel campo di grano, cantilena ammorbata: che cosa sei?

Non sei, che è già essere.

Pigs, a conti fatti una delle migliori prove nel campo del cortometraggio apparse in questo spaziucolo virtuale, pur avendo una carica seduttiva letale e un grado di fascinazione che non ha nulla, ma davvero nulla, da invidiare ad un Lynch di turno, mette il sottoscritto in completo imbarazzo: non so cosa scrivere. Sì, potrei rendere onore alla Kotzamani per la tessitura climatica della sua opera (ma credo si capisca già dal trafiletto sopra), così come sarebbe giusto sottolineare i molti accorgimenti adottati per incutere quel timore che si avverte durante la proiezione (uno non lo si può tacere: l’occhio registico dietro lo spigolo dei muri, il guardare e ritrarsi, il riguardare e vedere un’altra cosa, un’altra realtà), oppure ci si potrebbe avventurare in circonlocuzioni ermeneutiche che fioriscono e appassiscono in un vortice (la benda: l’innocenza; la casa: entrare nel vivere; i maiali: il vivere della famiglia [l’allattamento]; il lupo: il male che contamina [la ragazza che dopo ne indossa il manto]). Ma presumo che non ce ne sia la necessità, tali accenni allungabrodo sono già troppo, non c’è niente da capire in un non-film come Pigs perché il cinema soprasensibile che proviene da mondi ulteriori può trovare compimento solo nello sguardo del testimone e non sul lattescente documento Word che ho adesso di fronte.

Di Konstantina Kotzamani, ne sono convinto, si parlerà.