La contrapposizione
lapalissiana di Dennis (2007) tra ciò che il suo
protagonista era all’esterno e ciò che realmente era
all’interno si dimostrava fallace e nemmeno in grado di reggere il
peso esiguo di un cortometraggio. Evidentemente Matthiesen al tempo non condivideva tale opinione e così cinque anni dopo se ne uscì con 10 timer
til Paradis, film che riprende nuovamente la vita del culturista
Dennis (la prima manciata di minuti con l’uscita
galante e il rientro a casa con bugia è infatti una sintesi di
quanto accadeva nel corto) il quale nonostante sia passato del tempo è
ancora alla ricerca dell’anima gemella. Se però niente è
cambiato nella caratterizzazione generale della dimensione filmica,
allora la mono-idea che tentava di sorreggere ogni principio senza
riuscirci palesa una serie di difficoltà anche qua; certo,
trattandosi di un’opera più lunga il regista danese ha
potuto approfondire talune questioni e dare un respiro più
ampio alla vicenda con la trasferta asiatica, tuttavia, strizzando
strizzando, il risultato complessivo lambisce un’orizzontalità
insoddisfacente.
E proprio la parte
ambientata in Thailandia risulta parecchio banalotta soprattutto a
causa di una scrittura ampiamente anticipabile per via dello scarso
spessore (ovviamente non fisico) di Dennis, sicché
nell’assistere alle avances di giovani disinibite rifiutate dal
bodybuilder è facile prevedere che la donna da lui agognata
nulla avrà a che vedere con quelle sgallettate imprenditrici di se
stesse nel commercio sessuale. E l’ovvietà sopraggiunge
quando le predizioni trovano conferma: Dennis scopre finalmente
l’altra metà della mela in una tipa qualunque che non ha
niente in comune con le sue uscite danesi e men che meno con quelle
thailandesi. Al ritorno in Europa il film si ravviva: lasciati da
parte i sonnolenti episodi sentimentali affiora il tema
indubitabilmente più interessante del rapporto-campana di
vetro fra Dennis e la mamma messo per la prima volta in dubbio dalla
presenza di una fidanzata. Se fosse stato dato più
spazio a questa sorta di triangolo combattuto da due differenti
tipologie di amore (materno vs. relazionale) Teddy Bear
avrebbe avuto una misura più ampia, invece concentrato com’è
ad evidenziare la timidezza di Dennis perde nel tragitto l’auspicata
deflagrazione del genitore-chioccia ridotta ad un breve segmento,
l’unico centrato, dove i tre pianeti si allineano in un negozio di
biancheria intima femminile.
Per ripetere l’antifona:
la figura di Dennis funziona al massimo per qualche scena, appena
comprese le motivazioni di Matthiesen il quadro scolora nel mettere
in atto un insipido teatrino piuttosto conformato e prevedibile, e
allo stesso tempo lo sviluppo che avrebbe dato una vera direzione al
film viene relegato negli ultimi venti minuti di proiezione sfibrando
di potenziale.
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