Poter toccare con mano le diversità e le somiglianze di culture lontane migliaia di chilometri dal piccolo recinto dove viviamo è straordinario e rimane una delle poche cose per cui vale la pena vivere, accedere all’alterità umana in forma “virtuale” non è la stessa roba ma ci si accontenta, soprattutto se viene fatto con il metodo di Sniadecki che è l’ideale per farci compiere un bel viaggio intercontinentale senza alzare le chiappe dal divano, però il piano sequenza di People’s Park potrebbe ricoprire sia il ruolo di Forza, e ciò è inoppugnabile, che di Limite. Basando l’interezza di un’opera cinematografica esclusivamente su un escamotage tecnico, una volta che esso è recepito e assimilato la visione perde di mordente, l’architrave teorico si fa manifesto e ripetendosi fino alla conclusione non permette un’elusione dei pronostici. È un’osservazione cattivella, magari ingenerosa verso un titolo che comunque merita la vostra attenzione per la concettualità che mette in campo, ma il sottoscritto ha avvertito la necessità di farla, forse perché gli oggetti filmici articolati in un singolo long take (mai capito se sia un sinonimo o no) non sono ormai così rari e per chi è sempre alla ricerca di nuovi metodi e strutture (eccomi!) l’impatto del lavoro condotto da Sniadecki non è di quelli che spalancano la bocca a O.
lunedì 31 luglio 2023
People’s Park
domenica 30 luglio 2023
Jardim
sabato 29 luglio 2023
Anima Animus
Jurgis Matulevičius si dimostra, alla sua seconda prova breve, già un ottimo tessitore di atmosfere, come dicevo per Absurdo žmonės (2011) il retaggio di un cinema filorusso si sente e si vede, però con Anima Animus (2012) il giovane regista lituano spinge maggiormente su una dimensione che potrebbe essere catalogata come horrorifica ma da una prospettiva che ha ben poco da condividere con gli stilemi del settore. Il quadro che si presenta dinnanzi a noi è un pannello di tanto nero e poco bianco, colto nuovamente da riprese che vanno dall’alto verso il basso e che pesca a pieno dall’enciclopedia dell’incubo, e in questo onirismo tetro, per fortuna, non vi è posto per il trauma diretto (vedi ancora il lavoro precedente con l’acme – non necessario – della necrofilia) poiché si galleggia in un’instabilità tale da non riuscire ad individuare alcun punto fermo: chi è l’uomo? Chi sono le due visitatrici? Chi è vivo e chi è morto ammesso che ci possa essere una differenza? Senza addentrarci in un’interpretazione junghiana (non è pigrizia, è piuttosto l’ignoranza del sottoscritto), il film funziona nella sua rapida e inquietante fruizione, che i personaggi siano fantasmi o meno (anche l’uomo, del resto, parrebbe stecchito sulle scale nella prima scena) o che vi sia un brutto evento dietro tutto ciò (ancora l’uomo che si lava le mani in un secchio e la donna infuriata che lancia dei vinili contro il muro), l’importante è che permanga uno stato di possibilità colmabile con ipotesi e congetture, magari inesatte, ma comunque originatesi da una persuasione che l’opera sa infondere. A me sembra che Matulevičius si trovi davvero a suo agio in ambienti filmici così dark, i margini per un miglioramento ci sono, attendiamo di posare gli occhi su un oggetto più sostanzioso.
venerdì 28 luglio 2023
Inori
Non ho incredibili verità da svelarvi, semplicemente ho visto Inori come una pellicola livellata nella medietà, scorretto, magari, definirla brutta, impossibile, comunque, tesserne apertamente le lodi. La tara che si porta appresso fin dal leggere della trama è che girare un film nella campagna nipponica significa considerare una serie di elementi autoctoni che per noi occidentali identificano la nazionalità d’appartenenza, e i suddetti elementi ci sono tutti (la flora verdeggiante, la pace, gli alberi in fiore, ecc.), il problema è che c’erano e ci saranno anche in innumerevoli altre produzioni che trattano la stessa tematica, e non solo in Giappone, pur cambiando la località bucolica il discorso, nella sua essenza, non cambia (pensiamo alla riflessione dei giovani che hanno abbandonato il paesello in favore della città se non è un concetto universalmente traslabile ovunque). Quindi ciò che imputo al filmmaker e che bene o male addito ogni qual volta subisco quella fastidiosa sensazione di-già-visto, è il non aver tentato di apportare neanche un briciolo di ricerca strutturale al proprio lavoro che seppur dotato di naturalistiche sequenze contemplative e di uno strato d’osservazione etnografico, è pressoché identico a centinaia di altri esemplari cinematografici ad esso accostabili. Con Pedro González-Rubio avevamo perso i contatti, la visione di Inori non mi invoglia troppo a ripercorrerne il passato intercorso.
mercoledì 26 luglio 2023
Jamilia
Se pensate che l’impostazione sopra descritta si risolva in una normale indagine antropologica siete sulla strada sbagliata, il valore aggiunto dell’opera è dato dal suo aspetto formale. La Echard ha girato l’intero lavoro in Super 8 arrivando a comporre un’estetica dalla consistenza granulare, organica, dai colori saturati e impressionisti, una resa video che, con un ritmo rallentato, mantiene un sapore agée accentuato da un accostamento audio aggiunto successivamente in sala di montaggio (ciononostante in due frangenti assistiamo ad altrettante esibizioni canore che paiono in live). La patina esterna modellata dalla filmmaker transalpina è funzionale alla pellicola per calarsi, e calare chi guarda, in uno stato di leggera sospensione, come se le immagini sullo schermo non avessero tempo, o che, se ce l’avessero, non fossero anagraficamente confutabili. A contorno di ciò vengono inserite delle righe testuali (deduco prese dallo scritto originale. Preciso che io ho visto una registrazione del canale francese ARTE e tale testo era, appunto, in francese) e la ricorsiva scena di una ragazza dai capelli neri che cammina solitaria, nient’altro che la trasposizione filmica della Djamilia di Ajtmatov. Per il sottoscritto il documentario sarebbe potuto proseguire così fino alla fine, invece si decide di mettere in coda una voce che è davvero non allineata: anticipata da un significativo graffito sul muro, una bambina con la maglia rossa si racconta davanti alla mdp, ed il suo è un discorso di una verità e di una trasparenza che vola via dall’urgenza del Kirghizistan per espandersi nell’universalità, e, siccome è bello pensare che nel cinema esista una rete di invisibili nonché inconsapevoli connessioni, finisce per planare sulla medesima chiosa di Lettre d’un cinéaste à sa fille (2002): cosa vogliono le donne? La libertà.
martedì 25 luglio 2023
Nueva vida
Uno spettatore con poca pazienza liquiderebbe il cortometraggio con male parole, d’altronde qui non si va oltre l’osservazione di una giovane coppia con pargoletto all’interno della loro abitazione. Il metodo osservativo non è tuttavia canonico, potrebbe trattarsi di uno sterile esercizio di stile come il contrario, quel che si annota è la scelta di utilizzare una prospettiva “da lontano” per scrutare il trio, se notate Russo, in ogni sequenza, è in una posiziona elevata rispetto ai soggetti ripresi ai quali si avvicina con dei lenti zoom progressivi che non arrivano mai alla nitidezza del dettaglio. Come silenziosi testimoni oculari, come voyeur di vite qualunque, rubiamo pezzetti di ordinarietà nell’esistenza di due genitori alle prese con la meraviglia di avere un fagottino di carne che dorme con loro nel letto. Eh sì, allo spettatore citato sopra non gli si potrebbe dare torto perché a livello epidermico non c’è altro, eppure quest’idea di un film che con discrezione sfiora un’intimità, che non ha l’urgenza di raccontare l’evidenza, che non alza la voce perché una voce, in pratica, non ce l’ha, a me seduce assai e mi fa viaggiare con delicatezza in un mondo che arriva ad appartenermi per appena quindici minuti e niente più. Infine, attenzione alla conclusione e al cane che abbaia: una breccia onirica si apre e lì l’opera termina.
lunedì 24 luglio 2023
Almost There
Quando mi metto comodo in compagnia di un esemplare cinematografico non lo considero mai come un singolo oggetto o un’entità individuale, per provare a comprenderlo devo necessariamente ricollocarlo nel grembo materno da cui proviene: il cinema, e, nove volte su dieci, mi inalbero alquanto per tutto il potenziale che questa forma espressiva possiede e che puntualmente non viene sfruttato. Ad esempio Almost There commette un peccato capitale, inonda le sue immagini, anche belle e suadenti, per carità!, di un accompagnamento musicale orientato a fare una, ed una sola cosa: intensificare la materia filmica, ahia, la regista insiste di brutto sul tasto dello score tanto che ad un tratto mi sono chiesto se stessi guardando un’opera pensata per la sala o lo spot di un profumo o di un’automobile, impressione accentuata dal commento over dei tre protagonisti che riflettono sulla loro condizione. Io, proprio per impreziosire la suddetta stagione anagrafica del trio, avrei smaltito il superfluo in favore di una presa il più possibile asciutta sulla realtà, sono convinto infatti che se si vuole scendere verso dei pozzi artesiani di senso non c’è bisogno di ricorrere a pesanti sovrastrutture, altrimenti la strada della plastificazione si distende immota fino a perdita d’occhio, voi che siete avveduti saprete bene se percorrerla oppure no.
venerdì 21 luglio 2023
Fausto
E inoltre: trasferire il materiale girato in digitale su pellicola da 16 mm non è un dettaglio, è una componente che aggiunge magnetismo, la resa video sembra invecchiata, leggermente pallida, Andrea Bussmann, canadese classe 1980, moglie del collega Nicolás Pereda con il quale si è recata per un periodo di vacanza a Oaxaca dove ha potuto concretizzare certe idee che le frullavano in testa, ha ben chiara la direzione che alcuni autori stanno dando alla settima arte oggidì, la pietra da sgrezzare è il documentario che ormai è un genere letteralmente esploso in sottocategorie inclusive, veri e propri spazi che accolgono filoni finzionali, luoghi di coesistenza tra ritratto etnografico e iniezione artificiale; soprattutto: darci dentro sul versante fittizio, imbandire la scarna superficie del reale con vettovaglie non necessariamente coordinate, il tutto senza forzare la mano in modo da raggiungere un equilibrio suggestionante. E la Bussmann che dice? Che fa? Che combina? Nell’incantesimo luciferino, nella fattura che ci viene recapitata, appare evidente (no, di evidente non vi è giustamente nulla) che lei stessa sia la Signora del Male apparsa nelle vesti di chierico vagante di gucciniana memoria davanti a noi, e sapete che c’è? Sono stato ben felice di venderle la mia anima in cambio di un’ora e dieci minuti di proiezione.
giovedì 20 luglio 2023
Noite Sem Distância
Qua lo studio cromatico di Patiño riesce a raggiungere degli effetti ottici che hanno del tridimensionale, quasi si trattasse di texture videoludica, forse sono i giochi di ombre che si creano ma si nota una profondità anomala in video, un iperrealismo metallico e chimico, snaturato nella sua essenza ma comunque centrato in una dimensione che, nonostante sia difficile da collocare, la si avverte esplicitamente notturna, del resto il titolo suggerisce un’immersione by night priva di filtri (sebbene, paradossalmente, il film sia rivestito da capo a piedi con un filtro che lo intensifica e lo stravolge). Inoltre è azzeccata la scelta di immortalare l’umanità nella sua stasi, ferma, piantata nella terra o fuori l’uscio di casa, scontato sottolineare che tale presenza ha dei riverberi ectoplasmici molto simili a quelli che ci saranno nel già citato Fajr, non è una casualità infatti che la silhouette di una donna, d’improvviso, si dissolva nel nulla, c’è, oltre la corazza formale, una corrente immateriale che elettrizza la situazione. Ovvio, le manipolazioni dello spagnolo sono estese e decisamente invadenti, quindi non sono adatte a chi desidera una settima arte più cruda e asciutta senza evidenti ornamenti, a costoro ribatto con: perché non dargli una chance? Noite Sem Distância è, seguendo il suo credo, rigoroso e anche coerente in relazione al percorso autoriale che lo ingloba.
mercoledì 19 luglio 2023
Exotica, Erotica, Etc.
Una differenza sostanziale di Exotica, Erotica, Etc. è che racchiude in sé un filato narrativo atto a cucire una curiosa argomentazione, romantica e sentimentale, tra i marinai e le donne che incontrano nei porti dove attraccano, anche solo per una notte. La quota femminile è rappresentata da Sandy, una ex prostituta sudamericana che racconta in video i suoi amori con gli aitanti uomini di mare a cui in passato ha donato il proprio cuore, sebbene in cambio di denaro. La controparte maschile è invece affidata alla sola voce over di un probabile capitano greco che discetta sui massimi sistemi con la saggezza di chi di cose, in giro, ne ha viste parecchie. Il connubio tra memorie amorose e riflessioni esistenziali per quanto mi riguarda è ok, i sospiri della signora che dà a noi il suo corpo esattamente come lo offriva ai naviganti e gli stralci personali che narra (efficaci quando vengono adagiati sulle sequenze dentro al postribolo) uniti alle parole anche un po’ astratte dell’uomo creano un efficace flusso che ben si cala nel progetto della Kranioti. E a proposito della demiurga in questione, in Rete è considerata più una fotografa che una regista (ecco un articolo di approfondimento), non so se ciò che sto per proferire abbia senso però, data la principale professione, ho ravvisato un’attitudine a estetizzare il girato che, per chi come il sottoscritto spera sempre di raffrontarsi con del materiale crudo e puro, spinge su delle intensificazioni dopanti, ci sono parecchi ingressi musicali (un brano verso la fine mi ha ricordato The Big Ship di Brian Eno) al pari di ralenti o pseudo-tali non indispensabili.
Trattasi, comunque, di riserve minime (oltre che spudoratamente soggettive) che non intaccano il valore dell’operazione, troppo vento e troppo sale, troppe illusioni (il finale: un bacio in controluce) e troppi viaggi di cui essere testimoni si aggirano nei settanta minuti di proiezione, privarsene sarebbe da babbei. Nel percorso registico di Evangelia Kranioti, che con il successivo Obscuro Barroco (2018) pare abbia dato un forte segnale autoriale, io ci credo.
martedì 18 luglio 2023
Lacrau
Tendo spesso, probabilmente a torto, a provare entusiasmo quando sono spettatore di situazioni che si offrono a me in maniera innovativa, o che almeno provano a dribblare i paletti della consuetudine, per carità Lacrau è una visione per pochi eletti, però nel momento di massima tensione un sentire amarognolo mi si è diffuso nel palato. La porzione agreste, in particolare quando è abitata da esseri umani e caprette, è un ritratto bucolico che in campo autoriale vanta da anni fior di esempi (faccio il primo che mi sovviene: La primavera [2012] di Christophe Farnarier), e in tale contesto anche lo sgozzamento di un maiale (con forse non necessario dettaglio sull’occhio morente), di nuovo: non una primizia cinematografica, non smuove specifiche sensazioni in chi guarda. Sul flusso naturalistico sono nettamente più benevolo, mi è piaciuto, soprattutto l’inscurimento che si accentua col passare dei minuti, ma come ho scritto prima è indispensabile avere una predisposizione per manifestazioni artistiche del genere. E giungiamo all’aspetto che mi ha maggiormente instillato dei dubbi: Lacrau è un film silenziato, e non silenzioso che è ben diverso, la sua composizione è all’incirca omogenea e vede per ogni scena la scelta di azzerare il sonoro, dopodiché vengono inseriti dei rumori o dei suoni che sono effettivamente il corredo della presa in diretta, o lo sono per sommi capi, oppure non lo sono per niente (si punta a volte su canti di stampo religioso se non vere e proprie preghiere), il procedimento è intrigante e in teoria rafforzerebbe l’incantesimo aumentando il tasso di malia, cosa per me non va è la sua ripetizione, è l’utilizzare il suddetto escamotage per un’ora e mezza, si perde libertà espressiva e si acquista meccanicità e predizione. Ci si rifà con l’epilogo, una litania audiovisiva di prim’ordine.
giovedì 13 luglio 2023
Aquí y allá
L’epopea dei Liebenthal è da romanzo novecentesco, parte dalla Germania di Hitler, si sposta nella Cina di Mao per terminare in Argentina, non esiste alcun programma virtuale in grado di raccontare tutto ciò, la forza narrativa delle memorie intime fa sì che si alzi, grazie anche al commento della filmmaker che vediamo impegnata nella realizzazione del film insieme ai tecnici e agli operatori, un vento nostalgico, un manifestarsi sotto forma audiovisiva dello scorrere del tempo, una consequenzialità di eventi storici e incontri casuali che hanno prodotto come ultimo temporaneo anello della catena proprio Melisa, la quale a sua volta potrà generare in futuro un’ulteriore maglia del grande tessuto consanguineo. La verità che sembra profilarsi in Aquí y allá riguarda la concezione che si ha di “casa”, se si tratta di un luogo preciso che sta su una mappa (ma la resa informatica vale tanto quanto il ricordo che se ne conserva?) oppure se è invece uno spazio mentale che affiora dal lago della malinconia, il corto si accende esattamente qui e il suo chiarore si riverbera nei nostri occhi felici.
venerdì 7 luglio 2023
Drvo
Ora dobbiamo parlare di tempo. Dobbiamo perché è il film a praticamente imporcelo, dall’inizio: il prologo, che, mi sbilancio, potrebbe rimanere a lungo nella memoria cinefila, mette in collegamento due realtà, due dimensioni, che nel magico spazio diegetico diventano contemporanee. Il tragitto “a ferro di cavallo” della camera nell’incipit è programmatico, è quasi una bussola che invita a direzionare lo sguardo e la mente, dal bambino, che in teoria vive nel passato, veniamo allontanati con una felpata regressione che, dopo una transizione in orizzontale, si trasforma in progressione, e quindi eccoci nel “futuro” con l’anziano ed il suo cane. La profondità della scena si rivelerà tale solo a proiezione globale ultimata, lì per lì, comunque, se ne riesce a intuire la ieratica grandezza. Anche nel prosieguo, a mio avviso, sarà necessario rapportare i diversi take che si susseguono all’idea pensata da Mata che è quella di annullare la temporalità. Ok, si tratta di un’interpretazione personale, però alla radice della faccenda mi pare proprio che non si possa scappare dalla reciproca infiltrazione di piani temporali divergenti, e il comune denominatore che permette il travasamento di un ordine nell’altro è dato dalla guerra. Senza scadere nella benché minima didascalia Mata mette in piedi un duplice scenario bellico, anzi post-bellico, che si serve di pochi credibili elementi (tipo i micidiali rimbombi che rompono il cielo) per essere convincente. La questione di un duplice scontro armato (presumibilmente la seconda guerra mondiale e quella dei Balcani) che si fonde in unico stato di disordine, terrore e devastazione, be’, è un punto di arrivo che davvero ho accolto con entusiasmo e ammirazione.
Tocca riflettere, inoltre, sulla struttura. Il modello è bipartito al pari dell’essere umano che calca la scena, se si è abbastanza pazienti si noterà poi che le due parti hanno una costruzione sovrapponibile perché in entrambe il protagonista è in cammino in una landa desolata, l’adulto cerca l’acqua, il giovane del cibo, lo scarto è minimo tanto che il sistema filmico ha un perno nella sua montatura che permette un preciso combaciarsi del doppio filo. L’escamotage utilizzato dal portoghese l’ho trovato una citazione ad uno dei capolavori del pigmalione ungherese, certo in Satantango (1994) il processo ha un tasso di elaborazione più elevato, ma in A Árvore è sufficiente a creare una cerniera che unisce le due braccia del ferro equino sopraccitato. Il rincorrersi narrativo, che si manifesta solo con l’incontro nei pressi dell’albero, è fino ad allora occultato da un’espansione dei minuti di ripresa che amplifica la percezione della visione, risulta più lungo di ciò che in verità è Drvo perché l’esperienza che ne scaturisce è frutto di scene dove il cut è procrastinato ben oltre i limiti del cinema convenzionale. Sono le regole del gioco, accettarle vuol dire misurarsi con un oggetto estremamente rigoroso, forse perfino geometrico nella sua composizione, va da sé però che esperienze così ravvicinate con pellicole ostiche siano anche le maggiormente formative, a patto di essere disposti a sintonizzarsi sulle frequenze promanate.
Se mi è permesso di esprimere una riserva, la muovo verso l’assenza di un principio innovante. Il tributo e la continuità con i grandi maestri è lodevole, tuttavia non mi sarebbe dispiaciuto un Mata in grado di superare, o almeno provarci, quanto gli illustri colleghi hanno fatto prima di lui, nell’album fotografico offerto ci sono istantanee di uno splendore abbacinante (l’apparizione della madre in mezzo al campo innevato, una frontiera onirica da paura, idem per il ragazzino attorniato dalla nebbia) che ad ogni modo rimangono nei ranghi della settima arte meditativa, in particolare per le modalità slow con cui vengono presentate. È giusto un fare le pulci, Drvo è un fine lavoro di categoria superiore, un titolo da top ten. Krasznahorkai, tra i fumi di una bettola mezza vuota e malfamata, approverebbe serafico.
mercoledì 5 luglio 2023
É o Amor
L’andamento felpato di É o Amor potrà scoraggiare gli spettatori mordi & fuggi, gli altri invece avranno l’occasione di raffrontarsi con un discorso amoroso portato avanti con stile e garbo. Vieppiù che nell’ordito del film c’è un intelligente escamotage che allarga le maglie concettuali, infatti nello scenario umano che si presenta, quello del gruppetto di pescatrici, una di esse non è nei fatti una vera pescatrice. Pur presente con il suo nome reale, Anabela (Moreira di cognome) è un’attrice affermata (e dal lungo curriculum, anni dopo sarà la sorella cattiva in Diamantino, 2018) che entra nella cornice filmica assumendo una posizione al confine tra il vero ed il falso. Il portoghese utilizza la Moreira come specchio rovesciato per elaborare il suo pensiero, in pratica la inserisce in un contesto femmineo dove le sue componenti hanno raggiunto un alto tasso di realizzazione personale, in particolare il confronto si accende con Sónia, la leader della combriccola, una madre, una responsabile, una donna felice, risultati che Anabela non ha eguagliato. Lungi dallo schierarsi, É o Amor mette semplicemente in parallelo due esistenze obbligate a dare conto di quell’amore che per una divampa e per l’altra manca. Canijo piazza Anabela in situazioni di calore famigliare (la fruizione di filmini amatoriali; un matrimonio; il saluto del figlioletto verso il padre in procinto di salpare) per poi far emergere una personalità dolce, delicata, sofferta, con delle videoconfessioni che mettono in discussione le nostre certezze, chi è l’Anabela che parla alla sua videocamera? È l’Anabela fittizia che recita una parte nella finzione, o è Anabela Moreira che riflette su di sé e sul mestiere di attrice che svolge?
La risposta, che ritengo non debba essere nemmeno ricercata, nel rimanere sospesa diviene un prezioso arricchimento all’intelaiatura generale, É o Amor è un affresco circoscritto in una precisa comunità ma che comunque ha proiezioni nell’universale, un esame sul significato muliebre di amare ed essere amate per mezzo di due facce, una luminosa e l’altra umbratile, captate in un habitat naturale (o che abilmente ci è stato fatto credere tale), un cinema che dà del tu alla vita che passa, lontano dai proclami e vicino all’intimità delle persone, fonti di narrazioni ed emozioni che si intrecciano nel velluto dei giorni che scorrono. Dal Portogallo un ulteriore declinazione della settima arte, sottovoce, con cuore e sentimento.
martedì 4 luglio 2023
Killing Klaus Kinski
E ancora più interessante è poi la questione indigena, se non energetica, spirituale, primigenia: Kinski e la sua esondante personalità non è gradita dalle entità che aleggiano nei dintorni, pertanto è meglio che venga fatto fuori in modo da riequilibrare la realtà. L’invisibile si appropria del film, è una forza nera, minacciosa (la prima immagine del resto è un serpente che sibila), annidata negli anfratti oscuri e che la vera voce di Herzog commenta alla sua maniera, ed è, soprattutto, una finzionalizzazione storica o un divertente what if che prende vita, seppur illustrando una morte, in quello spazio di infinite possibilità che è il cinema, un quadro di riscrittura, una porta che permette di accedere lì dove eravamo già stati, sebbene la percezione che se ne ha è differente, un po’ perché siamo noi, ora, dopo interminabili odissee su e giù per la settima arte, ad essere differenti, un po’ perché Stathoulopoulos ha spalancato uno spiraglio oscillante tra l’onirico ed il concreto, tra la storia (del cinema) e la rappresentazione di essa, tra i fatti ed un loro immaginifico sviluppo, che rendono l’opera una prelibata chicca per appassionati. Sono sicuro che ad Herzog sarà piaciuto molto.
domenica 2 luglio 2023
Alpha: The Right to Kill
Il motivo, oltre al menzionato impianto derivativo, si può rintracciare anche in un messaggio di fondo proposto in modo ingenuo, privo di spessore, e che si prende la seconda sezione del film. Beninteso, non è ingenua l’invettiva di Mendoza nei confronti di un Paese che evidentemente ha grossi problemi su svariati fronti, lo è per come è portata avanti perché in maniera scolastica vengono esposti i profili dei due uomini nel mezzo della scena, ceti sociali diversi (uno vive in una discarica e l’altro in una bella casa), mestieri diversi (al massimo dell’antitesi) ma entrambi con una famiglia da accudire e proteggere e un eguale destino (oltremodo telefonato), questa rappresentazione delle tipiche facce di una stessa medaglia non ce la fa a decollare davvero, resta imbullonata nello scenario urbano dove alberga (già visto e stravisto nel cinema mendoziano) e dove viene presentato un depliant di corruzione, delinquenza e traffici sporchi (i piccioni... spacciatori, indubbiamente la cosa migliore sullo schermo) che non suscita feedback particolari. L’immediatezza con la quale Mendoza gira può diventare un’arma a doppio taglio, se da un lato risucchia, crea (in teoria) dello shock, dall’altro, quando vuole farsi portatore di un preciso sottotesto, pecca di una frenetica istantaneità che non fa rima con intensità. A tal proposito il violento controfinale, anticipato a sua volta da un picco di tragicità che bastava e avanzava, è il modello di una non necessaria esplicazione che tramuta in forzatura un possibile gesto di vendetta. Chiudendo il commento di Ma’ Rosa dicevo che non sarebbe stato male, un giorno, vedere Mendoza alle prese con un lavoro diverso dal solito (magari un altro Captive [2012], però migliore), con Alpha, quel giorno, non è ancora arrivato.
sabato 1 luglio 2023
The Anchorage
Eppure... eppure qualcosa oltre l’ordito di normalità scandinava filtra. La scelta di dare un tono da video-diario con dei commenti over di Ulla (mi è parso che siano giusto tre, tanti quanti sono i giorni di fine ottobre filmati) permette di fornire un microscopico appiglio intimo alla pellicola, ed è in uno dei suddetti stralci che essa confessa di aver visto una barca attraccare appartenente, forse, ad un cacciatore che però lei non conosce, l’informazione, proferita en passant, prende vigore nella scena che può essere considerata l’apice dell’opera: con le stesse modalità con cui fino a quel momento erano stati immortalati gli alberi scossi dal vento, la regia si mette frontalmente alla protagonista occupata a tagliuzzare non so che sul tavolo della cucina, d’improvviso, dietro, dalle vetrate che danno sul giardino, vediamo passare un uomo con un giaccone fosforescente, subito dopo, per la prima volta, l’obiettivo si concentra su una Ulla seduta sul water che fissa il vuoto. Ecco, in maniera abbastanza imprevedibile si palesa una particella di inquietudine che non avevamo preventivato, un approfondimento su chi sia il tizio scordiamocelo (per fortuna!), però le scene susseguenti dell’abitazione, seppur pressoché identiche alle precedenti, si colorano di altre sfumature, il corridoio scuro, le luci che si spengono, una schermata nera. Sì, d’accordo, non ci si può entusiasmare, ciononostante la presenza di un’impercettibile deviazione dal percorso generale la si accoglie a proiezione terminata con leggero piacere, la sottile e quasi invisibile filigrana finzionale inserita nel nucleo del documentario, semplicemente, funziona. E attenzione a Edström e Winter, nel 2020 hanno partorito un nuovo film dal titolo The Works and Days (of Tayoko Shiojiri in the Shiotani Basin) della durata di otto (!) ore.