venerdì 7 luglio 2023

Drvo

Ha tutta l’aria di essere un film importante Drvo (2018 - A Árvore / L’albero), il suo regista André Gil Mata, nato in Portogallo ma formatosi presso la tarriana film.factory di Sarajevo, sembra aver studiato per bene tutta quella branca di cinema solenne e decadente che fa capo a Tarkovskij, al già citato Tarr, al giovane Bartas e probabilmente a tutta una serie di autori vissuti durante, o sopravvissuti all’Unione Sovietica. Non è che un approccio contemplativo sia esclusivo di registi estoni, georgiani o simili, del resto nel settore è pieno di gente dietro la mdp prostrata alla dilatazione (il primo a cui penso è Lisandro Alonso), però loro, cioè questo macro-popolo slavo dalle mille etnie, si pone in maniera differente, forse perché ha un trascorso complicato, per non dire drammatico alla spalle, forse perché ieri come oggi i segni dei conflitti non sono ancora diventati delle cicatrici, e Mata, da uomo europeo che non avrebbe niente da condividere in contesti del genere, si cala perfettamente nella parte. Drvo è un’opera lentissima, liturgica, che si muove di piano sequenza in piano sequenza, fatta di spostamenti morbidi e fluttuanti, ammutolita nei suoni degli ambienti esterni, costellata di campi lunghi e panorami notturni, di neve e abitazioni sventrate da qualcosa che è passato di lì e che non ha avuto pietà. Insomma, credo abbiate capito quale sia la cornice proposta, bisogna solo aggiungere che questo quadro è frequentato da due figure speculari che donano, come da tradizione, un substrato filosofico-esistenzialista, una base umana che ovviamente fertilizza la valle dei significati.

Ora dobbiamo parlare di tempo. Dobbiamo perché è il film a praticamente imporcelo, dall’inizio: il prologo, che, mi sbilancio, potrebbe rimanere a lungo nella memoria cinefila, mette in collegamento due realtà, due dimensioni, che nel magico spazio diegetico diventano contemporanee. Il tragitto “a ferro di cavallo” della camera nell’incipit è programmatico, è quasi una bussola che invita a direzionare lo sguardo e la mente, dal bambino, che in teoria vive nel passato, veniamo allontanati con una felpata regressione che, dopo una transizione in orizzontale, si trasforma in progressione, e quindi eccoci nel “futuro” con l’anziano ed il suo cane. La profondità della scena si rivelerà tale solo a proiezione globale ultimata, lì per lì, comunque, se ne riesce a intuire la ieratica grandezza. Anche nel prosieguo, a mio avviso, sarà necessario rapportare i diversi take che si susseguono all’idea pensata da Mata che è quella di annullare la temporalità. Ok, si tratta di un’interpretazione personale, però alla radice della faccenda mi pare proprio che non si possa scappare dalla reciproca infiltrazione di piani temporali divergenti, e il comune denominatore che permette il travasamento di un ordine nell’altro è dato dalla guerra. Senza scadere nella benché minima didascalia Mata mette in piedi un duplice scenario bellico, anzi post-bellico, che si serve di pochi credibili elementi (tipo i micidiali rimbombi che rompono il cielo) per essere convincente. La questione di un duplice scontro armato (presumibilmente la seconda guerra mondiale e quella dei Balcani) che si fonde in unico stato di disordine, terrore e devastazione, be’, è un punto di arrivo che davvero ho accolto con entusiasmo e ammirazione.

Tocca riflettere, inoltre, sulla struttura. Il modello è bipartito al pari dell’essere umano che calca la scena, se si è abbastanza pazienti si noterà poi che le due parti hanno una costruzione sovrapponibile perché in entrambe il protagonista è in cammino in una landa desolata, l’adulto cerca l’acqua, il giovane del cibo, lo scarto è minimo tanto che il sistema filmico ha un perno nella sua montatura che permette un preciso combaciarsi del doppio filo. L’escamotage utilizzato dal portoghese l’ho trovato una citazione ad uno dei capolavori del pigmalione ungherese, certo in Satantango (1994) il processo ha un tasso di elaborazione più elevato, ma in A Árvore è sufficiente a creare una cerniera che unisce le due braccia del ferro equino sopraccitato. Il rincorrersi narrativo, che si manifesta solo con l’incontro nei pressi dell’albero, è fino ad allora occultato da un’espansione dei minuti di ripresa che amplifica la percezione della visione, risulta più lungo di ciò che in verità è Drvo perché l’esperienza che ne scaturisce è frutto di scene dove il cut è procrastinato ben oltre i limiti del cinema convenzionale. Sono le regole del gioco, accettarle vuol dire misurarsi con un oggetto estremamente rigoroso, forse perfino geometrico nella sua composizione, va da sé però che esperienze così ravvicinate con pellicole ostiche siano anche le maggiormente formative, a patto di essere disposti a sintonizzarsi sulle frequenze promanate.

Se mi è permesso di esprimere una riserva, la muovo verso l’assenza di un principio innovante. Il tributo e la continuità con i grandi maestri è lodevole, tuttavia non mi sarebbe dispiaciuto un Mata in grado di superare, o almeno provarci, quanto gli illustri colleghi hanno fatto prima di lui, nell’album fotografico offerto ci sono istantanee di uno splendore abbacinante (l’apparizione della madre in mezzo al campo innevato, una frontiera onirica da paura, idem per il ragazzino attorniato dalla nebbia) che ad ogni modo rimangono nei ranghi della settima arte meditativa, in particolare per le modalità slow con cui vengono presentate. È giusto un fare le pulci, Drvo è un fine lavoro di categoria superiore, un titolo da top ten. Krasznahorkai, tra i fumi di una bettola mezza vuota e malfamata, approverebbe serafico.

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