martedì 4 luglio 2023

Killing Klaus Kinski

A distanza di trentasei anni c’è ancora qualcosa che tiene viva l’epicità di Fitzcarraldo (1982), quel qualcosa è il precipitato della folle impresa di Werner Herzog che nonostante il tempo passato sa ancora sedurre un regista contemporaneo come Spiros Stathoulopoulos, autore non prolifico ma dalla spinta versatile (suo è PVC-1 [2007], un film che esaltò il me-pischello, e sempre suo è il successivo, nonché diversissimo, Meteora, 2012), che partecipò al progetto collettivo Amazonas (2016), una serie di sei cortometraggi inerenti l’universo amazzonico, da dove proviene questo Killing Klaus Kinski (2018). Stathoulopoulos, rilettosi, probabilmente, La conquista dell’inutile (2004; Mondadori) e riguardato il documentario di Les Blank Burden of Dreams (1982), decide di ricreare il set di Herzog all’interno della giungla e di aggirarsi come un testimone silenzioso tra la troupe, gli indigeni assoldati per fare le comparse e le maestranze impegnate nei loro lavori, per farlo, forse memore del precedente PVC-1, si avvale di avvolgenti piani sequenza che ci fanno immergere fino al collo nell’umidità della foresta, e, complice un sottofondo sonoro che non ci abbandona mai, arriva ad un grado di apnea che per un corto di venti minuti è già un risultato degno di essere definito tale. È interessante la scelta di non avvicinarsi praticamente mai ai due personaggi principali, né Herzog che appare di schiena o giusto di corsa, né Kinski che se ne sta lontano a sbraitare contro tutto e tutti, e ritengo che una siffatta sfuggente visione contribuisca ad incrementare il nesso magnetico che si crea, non saprei spiegarlo benissimo ma Killing Klaus Kinski, data la sua essenza che falsifica partendo dalla verità, è un oggetto strano, sottilmente ammaliante.

E ancora più interessante è poi la questione indigena, se non energetica, spirituale, primigenia: Kinski e la sua esondante personalità non è gradita dalle entità che aleggiano nei dintorni, pertanto è meglio che venga fatto fuori in modo da riequilibrare la realtà. L’invisibile si appropria del film, è una forza nera, minacciosa (la prima immagine del resto è un serpente che sibila), annidata negli anfratti oscuri e che la vera voce di Herzog commenta alla sua maniera, ed è, soprattutto, una finzionalizzazione storica o un divertente what if che prende vita, seppur illustrando una morte, in quello spazio di infinite possibilità che è il cinema, un quadro di riscrittura, una porta che permette di accedere lì dove eravamo già stati, sebbene la percezione che se ne ha è differente, un po’ perché siamo noi, ora, dopo interminabili odissee su e giù per la settima arte, ad essere differenti, un po’ perché Stathoulopoulos ha spalancato uno spiraglio oscillante tra l’onirico ed il concreto, tra la storia (del cinema) e la rappresentazione di essa, tra i fatti ed un loro immaginifico sviluppo, che rendono l’opera una prelibata chicca per appassionati. Sono sicuro che ad Herzog sarà piaciuto molto.

Nessun commento:

Posta un commento