Più
no che sì per il sottoscritto, decisamente
più no, questo Almost There
(2016) aveva in linea teorica le caratteristiche per solleticare il
mio interesse, su tutte la spinta esistenzialista che lo sorregge
proveniente da una tripla indagine di stampo filosofico, nei fatti
però il film della svizzera Jacqueline Zünd si è rivelato un
documentario che potrebbe stare al massimo, e non oltre, nel bouquet
di Netflix, il che, per alcuni, potrebbe anche essere un attributo
positivo perché comunque la qualità realizzativa generale è
innegabilmente di medio-buono livello, però eeeeh, però siamo qui a
parlare di una veduta sulla senilità frazionata in tre parti che
staziona in un apatico torpore, penso che né la storia
dell’americano, né quella del britannico e men che meno la
finestra sul giapponese, siano capaci di toccare emotivamente e/o
concettualmente lo spettatore. Il fatto, da non sottovalutare, è che
nella settima arte di ritratti sulla solitudine ne abbiamo visionati
talmente tanti da aver raggiunto la saturazione, poi la Zünd di
turno farà modo e maniera di infiocchettare il suo lavoro come
meglio ritiene, e quindi una spruzzata di agrodolce malinconia, un
filo di tenerezza, un altro di sconforto, ma stringi stringi quella
terribile sensazione di déjà
vu prenderà piede
minuto dopo minuto rendendo Almost There
uno di
quei film che hai già visto ancora prima di schiacciare play. Sì,
sono parecchio severo, forse più del dovuto nei riguardi di un
titolo che può fregiarsi del diffuso epiteto “c’è di peggio”,
e sicuramente c’è, tuttavia perché accontentarsi della medietà
con punte al ribasso?
Quando
mi metto comodo in compagnia di un esemplare cinematografico non lo
considero mai come un singolo oggetto o un’entità individuale, per
provare a comprenderlo devo necessariamente ricollocarlo nel grembo
materno da cui proviene: il cinema, e, nove volte su dieci, mi
inalbero alquanto per tutto il potenziale che questa forma espressiva
possiede e che puntualmente non viene sfruttato. Ad esempio Almost
There
commette un peccato capitale, inonda le sue immagini, anche belle e
suadenti, per carità!, di un accompagnamento musicale orientato a
fare una, ed una sola cosa: intensificare la materia filmica, ahia,
la regista insiste di brutto sul tasto dello score tanto che ad un
tratto mi sono chiesto se stessi guardando un’opera pensata per la
sala o lo spot di un profumo o di un’automobile, impressione
accentuata dal commento over dei tre protagonisti che riflettono
sulla loro condizione. Io, proprio per impreziosire la suddetta
stagione anagrafica del trio, avrei smaltito il superfluo in favore
di una presa il più possibile asciutta sulla realtà, sono convinto
infatti che se si vuole scendere verso dei pozzi artesiani di senso
non c’è bisogno di ricorrere a pesanti sovrastrutture, altrimenti
la strada della plastificazione si distende immota fino a perdita
d’occhio, voi che siete avveduti saprete bene se percorrerla oppure
no.
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