Un prologo
affascinante, una lunga parte centrale profondamente contemplativa e
un finale intenso ed evocativo. A leggere questi attributi Lacrau
(2013) si prefigurerebbe come un film perfetto, ovviamente non è
così però sul lavoro di João Vladimiro vale la pena spendere
qualche minuto di riflessione. L’incipit, pressoché indipendente
dal resto dell’opera, è magnetico, se ha dei collegamenti con il
prosieguo io non li ho visti e non mi va nemmeno di cercarli, sta in
piedi da solo, astratto e misterioso, esteticamente convincente per
l’oscurità acquatica che circonda il bambino con tanto di cadavere
sulla zattera. Superata l’introduzione assistiamo ad una breve
sinfonia urbana in 16:9 a cui si farà ritorno verso la conclusione,
nel mezzo si ha un corpo filmico dal carattere rurale incorniciato in
una risoluzione 4:3 con gli angoli del quadro arrotondati e con un
trattamento chimico della pellicola che la rende ai nostri occhi più
vecchia di ciò che in realtà è. Ci vuole un po’ a capirlo perché
l’essenza ostinatamente meditativa di Lacrau può costituire
un ostacolo non indifferente, ma quello che Vladimiro vuole mostrare
è un allontanamento dalla cosiddetta civiltà, dal cemento, dai
palazzoni urbani, il tragitto si compie nell’arrivo in una
recondita località portoghese chiamata Covas do Monte, anche qui,
forse, si ha un’ulteriore separazione, perché se inizialmente il
regista brancola tra gli allevatori e i contadini, successivamente si
stacca del tutto dal regno animale per approdare in un mondo di
alberi, rocce, nebbia e fiumi. Qui, se si è abbastanza ricettivi, si
può beneficiare di certe aperture che vanno alla radice del cinema:
nell’immagine in purezza a cui si lega il suo bagaglio
suggestionante (non so se sia pareidolia o meno, ma ho visto
parecchie facce nelle pietre, nei tronchi e perfino in una
pozzanghera, ne consegue una vibrazione ectoplasmica che penso fosse
un obiettivo di Vladimiro).
Tendo
spesso, probabilmente a torto, a provare entusiasmo quando sono
spettatore di situazioni che si offrono a me in maniera innovativa, o
che almeno provano a dribblare i paletti della consuetudine, per
carità Lacrau è una visione
per pochi eletti, però nel momento di massima tensione un sentire
amarognolo mi si è diffuso nel palato. La porzione agreste, in
particolare quando è abitata da esseri umani e caprette, è un
ritratto bucolico che in campo autoriale vanta da anni fior di esempi
(faccio il primo che mi sovviene: La primavera
[2012] di Christophe Farnarier), e in tale contesto anche lo
sgozzamento di un maiale (con forse non necessario dettaglio
sull’occhio morente), di nuovo: non una primizia cinematografica,
non smuove specifiche sensazioni in chi guarda. Sul flusso
naturalistico sono nettamente più benevolo, mi è piaciuto,
soprattutto l’inscurimento che si accentua col passare dei minuti,
ma come ho scritto prima è indispensabile avere una predisposizione
per manifestazioni artistiche del genere. E giungiamo all’aspetto
che mi ha maggiormente instillato dei dubbi: Lacrau
è un film silenziato, e non silenzioso che è ben diverso, la sua
composizione è all’incirca omogenea e vede per ogni scena la
scelta di azzerare il sonoro, dopodiché vengono inseriti dei rumori
o dei suoni che sono effettivamente il corredo della presa in
diretta, o lo sono per sommi capi, oppure non lo sono per niente (si
punta a volte su canti di stampo religioso se non vere e proprie
preghiere), il procedimento è intrigante e in teoria rafforzerebbe
l’incantesimo aumentando il tasso di malia, cosa per me non va è
la sua ripetizione, è l’utilizzare il suddetto escamotage per
un’ora e mezza, si perde libertà espressiva e si acquista
meccanicità e predizione. Ci si rifà con l’epilogo, una litania
audiovisiva di prim’ordine.
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