lunedì 31 luglio 2023

People’s Park

Ancora la Cina per John Paul Sniadecki, all’opposto, però, di quella disabitata e quasi post-atomica che arriverà l’anno successivo con Yumen (2013), infatti People’s Park (2012) si cala in una realtà che invece abitata lo è eccome, la videocamera del regista-antropologo si incunea in un parco pubblico di Chengdu, una delle tante città cinesi di cui non sappiamo niente ma che, tanto per dire, conta oltre quindici milioni di abitanti, e qui riprende per tutta la sua durata lo scorrere della vita locale all’interno dello spazio verde. Qual è la peculiarità principale del progetto? Presto detto: parliamo di un unico piano sequenza che corrisponde alla durata complessiva del documentario, non ci sono tagli, non c’è montaggio al di là della registrazione in presa diretta avvenuta sabato 30 luglio 2011. Conosciamo a menadito le qualità della suddetta tecnica (incremento di: immersione, ipnosi, coinvolgimento, fluidità, ecc.), vediamo come e perché Sniadecki ha deciso di utilizzarla nel film: la prima sensazione, che pian piano acquista spessore e che ritengo possa essere considerata una valida chiave di accesso, riguarda la sovrapponibilità del nostro sguardo con l’obiettivo della mdp (e quindi con l’occhio di J.P.), è un accostamento che diviene congiunzione totale e che certifica un punto di vista capace di appartenerci, e, in quanto occidentali al pari dell’autore americano, il tragitto che compiamo è di tipo turistico, ma senza una possibile accezione maligna, si tratta di osservare con curiosità le abitudini di questi cinesi che fanno esercizi ginnici all’aperto, che cantano, che bevono e mangiano, che passeggiano, che assistono a rappresentazioni folkloristiche, e, al contempo, ricevere in cambio la medesima curiosità, sono appunto spassose le espressioni che tutti, dai bambini agli anziani, riservano al lento passaggio della camera tra la folla, è un reciproco scrutarsi, che seppur mediato dall’invalicabile schermo, potrebbe perfino fungere da specchio.

Poter toccare con mano le diversità e le somiglianze di culture lontane migliaia di chilometri dal piccolo recinto dove viviamo è straordinario e rimane una delle poche cose per cui vale la pena vivere, accedere all’alterità umana in forma “virtuale” non è la stessa roba ma ci si accontenta, soprattutto se viene fatto con il metodo di Sniadecki che è l’ideale per farci compiere un bel viaggio intercontinentale senza alzare le chiappe dal divano, però il piano sequenza di People’s Park potrebbe ricoprire sia il ruolo di Forza, e ciò è inoppugnabile, che di Limite. Basando l’interezza di un’opera cinematografica esclusivamente su un escamotage tecnico, una volta che esso è recepito e assimilato la visione perde di mordente, l’architrave teorico si fa manifesto e ripetendosi fino alla conclusione non permette un’elusione dei pronostici. È un’osservazione cattivella, magari ingenerosa verso un titolo che comunque merita la vostra attenzione per la concettualità che mette in campo, ma il sottoscritto ha avvertito la necessità di farla, forse perché gli oggetti filmici articolati in un singolo long take (mai capito se sia un sinonimo o no) non sono ormai così rari e per chi è sempre alla ricerca di nuovi metodi e strutture (eccomi!) l’impatto del lavoro condotto da Sniadecki non è di quelli che spalancano la bocca a O.

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