Ancora la
Cina per John Paul Sniadecki, all’opposto, però, di quella
disabitata e quasi post-atomica che arriverà l’anno successivo con
Yumen (2013), infatti People’s Park
(2012) si cala in una realtà che invece abitata lo è eccome, la
videocamera del regista-antropologo si incunea in un parco pubblico
di Chengdu, una delle tante città cinesi di cui non sappiamo niente
ma che, tanto per dire, conta oltre quindici milioni di abitanti, e
qui riprende per tutta la sua durata lo scorrere della vita locale
all’interno dello spazio verde. Qual è la peculiarità principale
del progetto? Presto detto: parliamo di un unico piano sequenza che
corrisponde alla durata complessiva del documentario, non ci sono
tagli, non c’è montaggio al di là della registrazione in presa
diretta avvenuta sabato 30 luglio 2011. Conosciamo a menadito le
qualità della suddetta tecnica (incremento di: immersione, ipnosi,
coinvolgimento, fluidità, ecc.), vediamo come e perché Sniadecki ha
deciso di utilizzarla nel film: la prima sensazione, che pian piano
acquista spessore e che ritengo possa essere considerata una valida
chiave di accesso, riguarda la sovrapponibilità del nostro sguardo
con l’obiettivo della mdp (e quindi con l’occhio di J.P.), è un
accostamento che diviene congiunzione totale e che certifica un punto
di vista capace di appartenerci, e, in quanto occidentali al pari
dell’autore americano, il tragitto che compiamo è di tipo
turistico, ma senza una possibile accezione maligna, si tratta di
osservare con curiosità le abitudini di questi cinesi che fanno
esercizi ginnici all’aperto, che cantano, che bevono e mangiano,
che passeggiano, che assistono a rappresentazioni folkloristiche, e,
al contempo, ricevere in cambio la medesima curiosità, sono appunto
spassose le espressioni che tutti, dai bambini agli anziani,
riservano al lento passaggio della camera tra la folla, è un
reciproco scrutarsi, che seppur mediato dall’invalicabile schermo,
potrebbe perfino fungere da specchio.
Poter
toccare con mano le diversità e le somiglianze di culture lontane
migliaia di chilometri dal piccolo recinto dove viviamo è
straordinario e rimane una delle poche cose per cui vale la pena
vivere, accedere all’alterità umana in forma “virtuale” non è
la stessa roba ma ci si accontenta, soprattutto se viene fatto con il
metodo di Sniadecki che è l’ideale per farci compiere un bel
viaggio intercontinentale senza alzare le chiappe dal divano, però
il piano sequenza di People’s Park potrebbe
ricoprire sia il ruolo di Forza, e ciò è inoppugnabile, che di
Limite. Basando l’interezza di un’opera cinematografica
esclusivamente su un escamotage tecnico, una volta che esso è
recepito e assimilato la visione perde di mordente, l’architrave
teorico si fa manifesto e ripetendosi fino alla conclusione non
permette un’elusione dei pronostici. È un’osservazione
cattivella, magari ingenerosa verso un titolo che comunque merita la
vostra attenzione per la concettualità che mette in campo, ma il
sottoscritto ha avvertito la necessità di farla, forse perché gli
oggetti filmici articolati in un singolo long take (mai capito se sia
un sinonimo o no) non sono ormai così rari e per chi è sempre alla
ricerca di nuovi metodi e strutture (eccomi!) l’impatto del lavoro
condotto da Sniadecki non è di quelli che spalancano la bocca a O.
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