Tutt’altra
ambientazione quella di questo corto firmato da Kiro Russo, se nel
precedente Juku (2011) e nel successivo Viejo calavera
(2016) la sua mdp razzola nelle buie profondità della terra, in
Nueva vida (2015) si
posa per antitesi sui tetti di un agglomerato urbano in una qualche
cittadina del Sud America. A prima vista sembra quasi di assistere ad
un lavoro di Eduardo Williams da sempre amante di location urbane
poste tra l’asfalto ed il cielo, inoltre anche esteticamente c’è
una somiglianza col cinema dell’argentino, non ho trovato
informazioni a riguardo, ma mi è parso che Russo abbia girato
direttamente su pellicola o al massimo in digitale con susseguente
travaso nel formato analogico, comunque siano andate le cose,
l’effetto finale possiede quel nient’affatto disdicevole sapore
retrò con colori a volte iper-carichi (si noti il rosso della
bacinella, dell’anguria o della maglietta del ragazzo) e a volte
più mosci, in generale c’è una qualità video lontana dall’alta
definizione che però nell’aspetto invecchiato che sfoggia rimane
piacevole da guardare. Vabbè, sono evidenti bazzecole che il
sottoscritto ha ripetuto a iosa perché certa settima arte tende,
giustamente, a mescolare le forme guardandosi indietro per avere
maggiore spinta in avanti, e se ho voluto sottolineare l’ovvio è
perché Nueva vida è
uno di quei film che mettono in difficoltà il recensore di turno per
via della stasi che lo costituisce, una stagnazione puntata sul reale
e quindi molto quotidiana nonché, forse, confidenziale.
Uno spettatore con poca pazienza liquiderebbe il cortometraggio con
male parole, d’altronde qui non si va oltre l’osservazione di una
giovane coppia con pargoletto all’interno della loro abitazione. Il
metodo osservativo non è tuttavia canonico, potrebbe trattarsi di
uno sterile esercizio di stile come il contrario, quel che si annota
è la scelta di utilizzare una prospettiva “da lontano” per
scrutare il trio, se notate Russo, in ogni sequenza, è in una
posiziona elevata rispetto ai soggetti ripresi ai quali si avvicina
con dei lenti zoom progressivi che non arrivano mai alla nitidezza
del dettaglio. Come silenziosi testimoni oculari, come voyeur di vite
qualunque, rubiamo pezzetti di ordinarietà nell’esistenza di due
genitori alle prese con la meraviglia di avere un fagottino di carne
che dorme con loro nel letto. Eh sì, allo spettatore citato sopra
non gli si potrebbe dare torto perché a livello epidermico non c’è
altro, eppure quest’idea di un film che con discrezione sfiora
un’intimità, che non ha l’urgenza di raccontare l’evidenza,
che non alza la voce perché una voce, in pratica, non ce l’ha, a
me seduce assai e mi fa viaggiare con delicatezza in un mondo che
arriva ad appartenermi per appena quindici minuti e niente più.
Infine, attenzione alla conclusione e al cane che abbaia: una breccia
onirica si apre e lì l’opera termina.
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