Il titolo si
rifà all’omonima protagonista del libro Džamilja
pubblicato nel 1958 per mano dell’autore kirghiso Čyngyz Ajtmatov
e che nel 2017 è stato portato in Italia da Marcos y Marcos con il
nome Melodia della terra. Giamilja.
Questa donna dall’appellativo che muta di traslitterazione in
traslitterazione rappresenta nella cultura popolare del Kirghizistan
un simbolo di forza femminile, un esempio di tenacia e di opposizione
contro i rigidi schemi tradizionali del Paese, un modello muliebre
che preferisce seguire le leggi dell’affetto piuttosto che quelle
sociali. Dal testo si passa alla realtà: la regista francese
Aminatou Echard, dopo aver passato un certo periodo in Asia centrale,
si concentra sulle donne kirghise di ogni ceto e di ogni età
instaurando un rapporto concettuale tra di esse e l’eroina
letteraria. Le opinioni e i punti di vista si susseguono,
l’impressione generale è che chi più chi meno da quelle parti la
vita di una figlia che diventa moglie che diventa madre è vissuta
con una certa insoddisfazione proprio perché viene imposta dall’alto
(i matrimoni combinati sembrano ancora “abbastanza” di moda) e
perché ha un solo possibile sviluppo che è quello prestabilito dai
genitori e, allargando la visuale, dalla società. Dire che il cinema
entra nell’intimità delle persone è sempre un’affermazione
forte, Djamilia (2018)
non credo che ci riesca appieno, ma comunque ha il pregio di captare
il soffio vitale (e quindi tutte le delusioni, le speranze e gli
amori che transitano nel cuore) di esistenze talmente lontane da noi
da fare il giro completo della Terra per ritrovarcele nelle
confessioni delle nostre sorelle o delle nostre amiche. Per questo
uno stolido qualunque potrebbe anche scartare il film affermando che
dei problemi di tizie del Kirghizistan non gliene frega nulla, per
questo risponderei che è proprio nella diversità che si possono
vedere dei riflessi che ci accomunano e che in fondo fanno capire di
quanto siamo tutti uguali.
Se
pensate che l’impostazione sopra descritta si risolva in una
normale indagine antropologica siete sulla strada sbagliata, il
valore aggiunto dell’opera è dato dal suo aspetto formale. La
Echard ha girato l’intero lavoro in Super 8 arrivando a comporre
un’estetica dalla consistenza granulare, organica, dai colori
saturati e impressionisti, una resa video che, con un ritmo
rallentato, mantiene un sapore agée
accentuato da un accostamento audio aggiunto successivamente in sala
di montaggio (ciononostante in due frangenti assistiamo ad
altrettante esibizioni canore che paiono in live). La patina esterna
modellata dalla filmmaker transalpina è funzionale alla pellicola
per calarsi, e calare chi guarda, in uno stato di leggera
sospensione, come se le immagini sullo schermo non avessero tempo, o
che, se ce l’avessero, non fossero anagraficamente confutabili. A
contorno di ciò vengono inserite delle righe testuali (deduco prese
dallo scritto originale. Preciso che io ho visto una registrazione
del canale francese ARTE e tale testo era, appunto, in francese) e la
ricorsiva scena di una ragazza dai capelli neri che cammina
solitaria, nient’altro che la trasposizione filmica della Djamilia
di Ajtmatov. Per il sottoscritto il documentario sarebbe potuto
proseguire così fino alla fine, invece si decide di mettere in coda
una voce che è davvero non allineata: anticipata da un significativo
graffito sul muro, una bambina con la maglia rossa si racconta
davanti alla mdp, ed il suo è un discorso di una verità e di una
trasparenza che vola via dall’urgenza del Kirghizistan per
espandersi nell’universalità, e, siccome è bello pensare che nel
cinema esista una rete di invisibili nonché inconsapevoli
connessioni, finisce per planare sulla medesima chiosa di Lettre d’un cinéaste à sa fille
(2002): cosa vogliono le donne? La libertà.
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