Quando il
cinema abbraccia l’arte epistolare fioriscono sempre cose
bellissime, ce lo ha insegnato tanti anni fa Chris Marker con Sans Soleil (1983), la cui introduzione, registrata decine di volte
dai miei occhi stupefatti, continua ad essere un manifesto da
tramandare ai posteri, e ce lo ricordano più di recente alcune
visioni dotate di un ragguardevole spessore artistico e intellettuale
che pur avendo approcci e magari anche fini diversi sono riuscite a
trasmettere dei precisi segnali riconducibili a dimensioni fortemente
emozionali e personali, film come Un’ora sola ti vorrei
(2002), Must Read After My Death (2007), Elena (2012) e
Quand je serai dictateur (2014) non sono così comuni
nell’offerta lievitante che la cinematografia odierna propone, in
fondo esemplari di tal fatta non riescono e non possono far parte del
flusso temporale che li sferza, sono troppo lontani dalle logiche
dell’apparire e troppo rannicchiati nel proprio intimo tepore.
Anche e sopratutto Lettre d’un cinéaste à sa fille
(2002) si aggiunge all’elenco e subito va detta una premessa: il
regista belga Eric Pauwels ha un debito nei confronti di Marker,
adottando la strada dell’opera di montaggio coniugata a profonde (e
inessenziali) riflessioni filosofiche, l’influenza del francese si
fa più che evidente, tuttavia, vuoi per la capacità che ha un
lavoro del genere di mostrarsi nuovo nonostante segua uno schema già
usato e vuoi perché
dopo tutto abbiamo un cuore e quando viene toccato non possiamo fare
finta di niente, la possibile impronta derivativa non inficia
un’intatta trasparenza filmica, non è solo vedere, ma vedere (se
stessi) attraverso.
Come
spiega il titolo si tratterebbe di una lettera scritta da un padre
alla figlia, ma se il genitore è un filmmaker che, parole sue,
rifiuta il cinema del potere e dello spettacolo, la missiva visiva si
trasforma in un collage di cose che sostanziano alla radice la
settima arte: le immagini, una circolazione di immagini
apparentemente inconciliabili dove Pauwels incide
il suo fare autoriale che diventa automaticamente la sua visione del
mondo e quindi del modo di filmarlo. Succede che, al pari di altri
modelli dotati di pesante frammentarietà, alla fine i singoli
tasselli così dissimili trovino una concertazione complessiva
antitetica alla loro natura, ciò che scorre è la vita oltre
l’obiettivo della videocamera bombardata da fatti minimi (il
panettiere) e da testacoda storici (la scoperta dell’America), se
vogliamo scomodare le alte sfere si può parlare di micro-miracolo
perché ci rapportiamo con un contenitore audiovisivo in grado di
integrare la diversità per mezzo di una delicata magia che ricorre
ad un impasto di ricordi e memorie a cui abbandonarsi dolcemente.
Pauwels comunque non si ferma al racconto “da
regista” utilizzando ciò che ama riprendere, ma rivela, per
l’ennesima volta, la
capienza del medium in oggetto che può accogliere qualunque forma
espressiva senza snaturarsi: il muto come riesumazione del
melodramma, la fiaba come morale parabolica.
La storia: Kafka e le lettere della bambola.
La domanda: “Cosa vogliono tutte le donne?”, e la risposta: “Ciò
che ogni donna vuole è scegliere liberamente il proprio destino”. Un film che è un balsamo per l’anima.
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