giovedì 10 settembre 2020

Lettre d'un cinéaste à sa fille

Quando il cinema abbraccia l’arte epistolare fioriscono sempre cose bellissime, ce lo ha insegnato tanti anni fa Chris Marker con Sans Soleil (1983), la cui introduzione, registrata decine di volte dai miei occhi stupefatti, continua ad essere un manifesto da tramandare ai posteri, e ce lo ricordano più di recente alcune visioni dotate di un ragguardevole spessore artistico e intellettuale che pur avendo approcci e magari anche fini diversi sono riuscite a trasmettere dei precisi segnali riconducibili a dimensioni fortemente emozionali e personali, film come Un’ora sola ti vorrei (2002), Must Read After My Death (2007), Elena (2012) e Quand je serai dictateur (2014) non sono così comuni nell’offerta lievitante che la cinematografia odierna propone, in fondo esemplari di tal fatta non riescono e non possono far parte del flusso temporale che li sferza, sono troppo lontani dalle logiche dell’apparire e troppo rannicchiati nel proprio intimo tepore. Anche e sopratutto Lettre d’un cinéaste à sa fille (2002) si aggiunge all’elenco e subito va detta una premessa: il regista belga Eric Pauwels ha un debito nei confronti di Marker, adottando la strada dell’opera di montaggio coniugata a profonde (e inessenziali) riflessioni filosofiche, l’influenza del francese si fa più che evidente, tuttavia, vuoi per la capacità che ha un lavoro del genere di mostrarsi nuovo nonostante segua uno schema già usato e vuoi perché dopo tutto abbiamo un cuore e quando viene toccato non possiamo fare finta di niente, la possibile impronta derivativa non inficia un’intatta trasparenza filmica, non è solo vedere, ma vedere (se stessi) attraverso.

Come spiega il titolo si tratterebbe di una lettera scritta da un padre alla figlia, ma se il genitore è un filmmaker che, parole sue, rifiuta il cinema del potere e dello spettacolo, la missiva visiva si trasforma in un collage di cose che sostanziano alla radice la settima arte: le immagini, una circolazione di immagini apparentemente inconciliabili dove Pauwels incide il suo fare autoriale che diventa automaticamente la sua visione del mondo e quindi del modo di filmarlo. Succede che, al pari di altri modelli dotati di pesante frammentarietà, alla fine i singoli tasselli così dissimili trovino una concertazione complessiva antitetica alla loro natura, ciò che scorre è la vita oltre l’obiettivo della videocamera bombardata da fatti minimi (il panettiere) e da testacoda storici (la scoperta dell’America), se vogliamo scomodare le alte sfere si può parlare di micro-miracolo perché ci rapportiamo con un contenitore audiovisivo in grado di integrare la diversità per mezzo di una delicata magia che ricorre ad un impasto di ricordi e memorie a cui abbandonarsi dolcemente. Pauwels comunque non si ferma al racconto “da regista” utilizzando ciò che ama riprendere, ma rivela, per l’ennesima volta, la capienza del medium in oggetto che può accogliere qualunque forma espressiva senza snaturarsi: il muto come riesumazione del melodramma, la fiaba come morale parabolica. 
 
La storia: Kafka e le lettere della bambola.
La domanda: “Cosa vogliono tutte le donne?”, e la risposta: “Ciò che ogni donna vuole è scegliere liberamente il proprio destino”. 
 
Un film che è un balsamo per l’anima.

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