giovedì 24 settembre 2020

Joan of Arc

È singolare la recente filmografia di Bruno Dumont, negli ultimi anni, escludendo l’intermezzo Ma loute (2016), ha girato due coppie di opere speculari dove solo che dai titoli troviamo dei collegamenti: P’tit Quinquin (2014) e il suo omonimo protagonista diventa Coincoin in Coincoin and the Extra-Humans (2018) al pari della Pulzella di Jeannette (2017) che rincontriamo idealmente cresciuta in Jeanne (2019), bambini al centro per il regista francese che col suo compasso tira un cerchio capace di toccare, al solito, il mistero insito nel divino, nel cielo, così come nell’umano, nella terra, lo fa da sempre, semplicemente col tempo ha cambiato approccio, per questo, chi scrive, e lo sapete bene perché non si è mai mancato di sottolinearlo, ha faticato, e fatica tutt’ora, a sintonizzarsi sulle nuove frequenze dumontiane. Anche per Joan of Arc il procedimento di familiarizzazione con la pellicola non è immediato ma c’è da dire che eravamo preparati visto che è il proseguimento del film precedente a cui però è stato potato l’impianto musicale, sebbene comunque permangano delle parentesi, molto riuscite (l’introduzione e il cantato in playback dell’inquisitore), dove la musica diventa il (/l’unico?) canale possibile di dialogo con Dio. Se quindi l’architrave melodico è estromesso una pioggia di fitti dialoghi ne prende il suo posto, forse nell’ottica di una crescita del personaggio è anche comprensibile, la dimensione di note suggeriva la spensieratezza dell’infanzia, ma con il passaggio nel mondo adulto, che per Giovanna è indubbiamente meno incantato, qualcosa si perde e allora la prolissità acquista una ragione d’essere. Certo che, in vena di amarcord, fa specie assistere ad un lavoro di Dumont così tanto parlato, così tanto zeppo di campi/controcampi, ormai abbiamo quasi metabolizzato il cambiamento, però canagliamente un po’ di nostalgia viene a galla.

In Jeanne non è presente quella comicità spudorata che Dumont ha proposto in passato, tuttavia si registra una forte inclinazione verso il grottesco che sbriciola la ricostruzione storica (ma non ci aspettavamo sicuramente uno sceneggiato in costume) e che si amplifica nelle scelte scenografiche attuate laddove una scenografia, per paradosso, non c’è. In pratica il film ha solo due scenari: uno si consuma su delle colline brulle dove gli attori entrano ed escono dalla scena esattamente come se fossimo a teatro, e per tale motivo riecheggiano gli studi di Straub & Huillet (e di riflesso gli epigoni nostrani quali Ciprì & Maresco e Davide Manuli) o quelli del primo Albert Serra, set lunare (Hors Satan [2011] ti penso sempre...), pressoché zero dinamicità, impostazione sbilenca, recitazione ostentata, tutto contribuisce a sviare dall’ordinario e ciò è sempre interessante, anche quando si stenta ad entrare in piena confidenza con la proiezione. La seconda ambientazione è l’antitesi, non più la natura bensì un luogo chiuso (è la maestosa cattedrale di Amiens) palcoscenico di una sequenza lunghissima (suppergiù quarantacinque minuti) che dà il via al processo ecclesiastico ai danni di Giovanna, ancora un fiume di parole pronunciate da soggetti alquanto bizzarri, un serrato botta e risposta che, se si ha voglia di seguirlo con attenzione, si apre ad approfondimenti che non possono che arricchire l’opera in sé.

C’era curiosità di vedere l’avvicinamento alla questione religiosa dato che per Dumont la religione è ed è stata pane per i suoi denti fin dagli esordi. Non sono a conoscenza chi sia davvero Giovanna d’Arco per i francesi, per il sottoscritto che sta al di qua delle Alpi è una giovane donna bruciata viva dalla vera eresia, quella inquisitoria, e a me è parso proprio che con tatto autoriale e con le varie licenze poetiche del caso si persegua codesta direzione. La piccola Jeanne è realmente piccola davanti a questi uomini intabarrati nelle loro toghe, ma la statura fisica non corrisponde a quella morale, l’abbandono totale alla fede, la fiducia in un bene superiore, lo sprezzo della morte e la tenacia difesa di ciò in cui crede, fanno di lei un audace simbolo di femminilità che a mio avviso può anche prescindere dalla sua cifra cristiana, è un emblema di umanità che Dumont tratteggia a suo modo. Vale la pena ’sta volta dargli credito? Io dico timidamente di sì.

Cito la recensione apparsa su Quinlan.it da cui ho bellamente copiato i concetti più importanti.

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