Non da
Historia del Mal (2011) e
nemmeno da El Movimiento (2015),
per il suo terzo lungometraggio Benjamín Naishtat riprende da
distante il discorso che aveva iniziato con History of Fear
(2014), anche Rojo
(2018), infatti, guarda ad una precisa classe sociale che rimane
sempre quell’agiata borghesia divisa tra il lavoro, le cene di gala
e le partite a tennis, ed è chiaro che il ritratto che se ne dà
nasconde degli interessanti lati oscuri che Naishtat mostra
nell’incipit, un gran pezzo di cinema, teso, potente, ottimamente
recitato, dove succede questo: uno stimato avvocato di nome Claudio
invece di soccorrere un suicida con il quale aveva avuto un violento
alterco al ristorante, decide di portare nel deserto l’uomo agonizzante per lasciarlo morire. La
grossa differenza è la cornice storica fornita dal regista, non la
nostra epoca ma l’Argentina degli anni ’70, è un dato
fondamentale perché amplia la lettura del comportamento di Claudio
fino a trasformarlo in una grande allegoria che suggerisce l’assenza
di rettitudine da parte di un professionista, di una persona, e
quindi di un intero ceto, che dovrebbe dare il cosiddetto buon
esempio. Ma allegoria perché? È intuibile che, essendo il Colpo di
Stato in procinto di accadere (e il tizio nella platea lo bisbiglia
più a noi che al protagonista), il legale sia solo un esempio del
tessuto fragile, corruttibile (si veda il losco affare
dell’abitazione proposto dall’amico) che di lì a poco non
riuscirà ad arginare un Olocausto imponderabile.
“L’importante è sapere che stiamo combattendo un male maggiore.
Comprendi la natura del nostro nemico? Tu ti immagini un posto senza
legge e senza Dio?” nelle parole dell’investigatore c’è una
sintesi semantica del film nonché un vaticinio per ciò che si
verificherà al di fuori dal film, nella Storia.
Certo che Rosso è
un’opera strana, ma del resto Naishtat non è uno che finora ha mai
amato farsi catalogare, la ricostruzione storica è notevole e sembra
che non solo vi sia aderenza all’ambiente ma anche al cinema di
quegli anni (ci sono due o tre zoom in avanti che si potevano vedere
solo nei “nostri” gialli italiani), la maggioranza delle sequenze
è piuttosto classicheggiante con normali campi-controcampi nelle
scene di dialogo e l’impianto thriller, se così può essere
definito, è lineare e senza arzigogoli (palesemente lineare, facile
capire che Claudio ha commesso un sacco di errori la sera con
l’hippie e che verrà beccato, e la facile risoluzione è dovuta al
fatto che non è sicuramente importante ai fini della comprensione
del film l’indagine sul suo conto), eppure persiste un mood
particolare nel girato, serpeggia un’energia strisciante sebbene
Rojo si abbandoni a
piccole digressioni un po’ di comodo dove la metafora non è per
niente celata, mi riferisco a quando sparisce un coetaneo della
figlia (le modalità di questa sparizione sono forzate e mal inserite
con la traccia narrativa portante, al fidanzatino, prima, vengono
giusto dedicati due minuti), oppure al breve segmento di cabaret col
mago (di nuovo un’allusione ai desaparecidos), o, infine,
all’eclissi solare sulla spiaggia (più esplicito di così non si
può: l’Argentina si tinge di rosso, si tinge di sangue). Ma va
bene comunque, anzi va più che bene, l’essenza sbilenca è il
salvagente autoriale che ci impedisce di spaccare il capello in
quattro o di essere ottusamente razionali, è una pellicola d’alta
fattura, polimorfa (l’introduzione del detective cileno fa prendere
addirittura una direzione simil-comica), che non esaurisce il suo
senso ad una visione di superficie, che racconta in modo obliquo,
antiletterale (pur avvalendosi di elementi che a volte sono in
conflitto con tale direzione) una pagina nerissima dell’Argentina,
nonché dell’umanità tutta.
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