Mai
banale, José Luis Guerín per Tren de
sombras (1997) recupera dei vecchi
filmati girati sul finire degli anni ’20 in Normandia da un
avvocato con la passione per la fotografia, tal Gérard Fleury il
quale morirà in circostanze poco chiare l’8 novembre del 1930
dopo essersi allontanato da casa con la propria cinepresa, ma non è
questo il punto, o almeno non lo è inizialmente, il lavoro compiuto
da Guerín si distacca dal ricostruire la storia di questo abbiente
signore, il regista catalano evita di concentrarsi sul particolare della
famiglia Fleury di cui in effetti non avremo altre informazioni che
non siano quelle estrapolabili dalle immagini in bianco e nero, il
suo film ha mire concettuali più alte, decisamente più alte, certo
i footage ritrovati (vediamo delle pizze come se fossero
reperti archeologici) che mostrano una vita borghese tra le due
guerre è il punto di partenza, ma l’obiettivo è operare sulla
materia prima, restaurare, rielaborare, tagliare e incollare,
sovrapporre, affiancare, ricreare, in tal senso Tren
de sombras
è il laboratorio di uno stregone che sfrutta le qualità insite
della settima arte per riflettere sul tempo, sui piani temporali che
magicamente possono anche coesistere nello spazio di un film, di una
sequenza o addirittura di un frame, c’è, qui, una dimensione
altra, che non ha più né un prima né un dopo, che evoca dei
fantasmi e un secondo dopo li incarna sulla scena, che incamera
luoghi novecenteschi mettendoli allo specchio del presente, ma un
presente che contiene in grembo tutto il resto, una specie di
crocevia in cui sfrecciano esistenze e ricordi, forme e contenuti.
No, sicuramente Guerín non è un autore banale.
In
Tren de sombras si possono
individuare tre parti diverse che si siedono allo stesso tavolo per
instaurare un dialogo proficuo: la prima non è altro che la messa in
serie delle registrazioni video effettuate da Fleury, l’unico
intervento di Guerín che si riscontra è relativo al comparto sonoro
che accompagna i filmini domestici (ci saranno delle micro scorie da
cinema muto reperibili anche nel successivo Guest,
2010), dopodiché assistiamo ad uno scarto, ad una collisione: ecco
gli stessi luoghi, la stessa abitazione, ma settant’anni dopo, dal
film d’archivio al documentario puro: riprese esterne, cittadine,
paesaggistiche, interne, dettagli della magione, siamo in un
“adesso”, ma solo fino a quando sulla parete della camera non
sfarfallano altre immagini, di colpo si ritorna ad un “prima”
che, come il cinema, è un’illusione, in realtà entriamo dentro
la bottega dell’alchimista, presenziamo al processo filmico: è
una dissezione in piena regola, la pellicola, intesa nella sua
composizione chimica, si mostra in ogni suo fotogramma, uno dopo
l’altro, uno prima dell’altro, e Guerín torna e ritorna,
letteralmente: avanti e indietro a colpi di click, in quel mare
antico dove lo sguardo di una ragazza sull’altalena è come quello
di una sirena, avanti e indietro: la manipolazione del tempo, che
arriva a non esistere più con la sua falsificazione: degli attori
impersonano “oggi” l’avvocato e i suoi famigliari, è il
cortocircuito conclusivo di un film che, seppur non lunghissimo,
contiene una ricchezza rara che lo fa essere sia un tributo al cinema
d’antan, sia uno studio di ricerca sulle qualità del cinema
moderno, come si sente odiosamente dire in giro: tanta roba!
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