martedì 22 settembre 2020

DAU. Brave People


IL PROGETTO DAU

C’è un folle che si aggira per la Russia, questo folle si chiama Ilya Khrzhanovskiy.
Tra il 2009 (ma alcuni siti riportano il 2008) ed il 2011 allestisce in Ucraina, presso la città di Charkiv, una gigantesca struttura che ricrea in maniera certosina un fantomatico Istituto sovietico (è la riproduzione di un centro di ricerca segreto ubicato a Mosca che fu attivo dal 1938 al 1968), in un’area di riprese da oltre dodicimila metri quadrati che pare si sia guadagnata la nomea di set più grande d’Europa (e si presume anche del mondo) dove, attraverso un poderoso sforzo produttivo tra Europa e Russia, ha costruito una specie di realtà parallela perfettamente abitabile, vivibile, si dice infatti che centinaia e centinaia di “attori”, divenuti tali poiché parte concreta del progetto ma entrati dentro ad esso come tecnici, scienziati, filosofi e via dicendo, abbiano vissuto per davvero all’interno di questa ciclopica Synecdoche, New York in salsa stalinista (e quindi abbiano indossato gli abiti d’epoca e mangiato e bevuto cibi di quel periodo) facendo sì che la distanza tra ciò che erano ed il ruolo che interpretavano si assottigliasse fino a svanire. Non è chiaro con quali modalità ma ci sono molti nomi di celebrità anche al di là dell’universo cinema che hanno fatto parte di DAU: Gerard Depardieu, Marina Abramović, Willem Dafoe, Charlotte Rampling, Brian Eno, perfino il nostro Carlo Rovelli che, insieme a Gianluigi Ricuperati (lo scrittore dall’esperienza ne ha tratto il romanzo Est edito da Tunué nel 2018), rappresenta la quota italica. Il titolo di questo esperimento cine-sociale prende il nome dal fisico Lev Davidovič Landau perché nell’idea iniziale Khrzhanovskiy voleva semplicemente (?) fare un biopic su di lui, ma il risultato che ne è conseguito parla di circa settecento ore complessive di girato tanto che sul sito ufficiale (link) si contano tredici film (ma sarà corretto definirli film?) che plausibilmente verranno pian piano resi disponibili. Facendo un passo indietro, il primo contatto tra DAU ed il resto del mondo avviene, dopo numerosi annunci e altrettante smentite, a Parigi il 24 gennaio 2019 con una mega video-installazione che coinvolge il Centro Pompidou insieme a due teatri parigini, qui Khrzhanovskiy proietta a ciclo continuo il suo ciclopico blob in un diorama sovietico che a sua volta rimanda a quello dell’Istituto, un articolo apparso sul Sole 24 ore ne parla come di un “flop colossale”. Un anno dopo le prime due parti di DAU vengono presentate a Berlino ’20. Qualunque cosa sia DAU, se un film, un’opera d’arte contemporanea o una mastodontica baggianata, sarà comunque una pietra angolare con cui si dovrà fare i conti, probabilmente la sfida cinefila più esaltante degli anni venti.
  _________
 
DAU. BRAVE PEOPLE

DAU. Smelye ludi (2020) sarebbe potuta essere tranquillamente la prima release del circuito-DAU perché ha un inizio che esplica bene un, se non il fine principale che sottende l’intera, ciclopica creazione di Ilya Khrzhanovskiy, ovvero la rappresentazione (con tutte le infiltrazioni di carsica verità che abbiamo imparato a conoscere) dell’opprimente totalitarismo che vigeva a quei tempi rendendo l’Istituto la cartina tornasole dell’intero blocco sovietico. Quindi la prima mezz’ora si presta a depliant illustrativo perché nel centro di ricerca arriva un regista di documentari intenzionato a riprendere cosa succede lì dentro, il comitato di benvenuto che riceve è una delegazione militarizzata che gli fa capire di quanta poca libertà ci possa essere in quel posto, noi non vedremo più il regista in questione ma è evidente che Khrzhanovskiy si è servito di questo preambolo per gettare le basi all’episodio di DAU che, ad oggi, si impegna più di ogni altro nel restituirci il clima di assoluto controllo aleggiante nell’Istituto e, ovviamente, anche all’infuori di esso. Per arrivare a tessere un’atmosfera dotata di tali attributi, Ilya si avvale di elementi con cui ormai siamo in confidenza: la costante è data sempre dalla presenza di un sistema che tutto sa e tutto vigila (notevole l’apparizione quasi fantasmatica di Azhippo), sicché anche in Brave People ritroviamo nelle tetre stanze del potere uomini ai vertici del sistema (Vladimir e Pavel, intravisti anche in altri episodi precedenti) che abusano di chi sta sotto di loro, è da DAU. Natasha (2020) che ci è stata data prova di come nell’Istituto non si possa sgarrare, qui l’occhio di bue si concentra su una categoria che si poteva pensare immune: gli scienziati, il che, pur proponendo situazioni e sviluppi pronosticabili, offre la possibilità di vedere la storia da una angolazione diversa.

Khrzhanovskiy definisce il terrore che alita tra i corridoi mostrando gli arresti di due studiosi (mere comparse non appartenenti al gruppetto protagonista) accusati di spionaggio, la natura delle due catture è un po’ episodica ma è compensata dalla netta discrepanza che si crea tra le irruzioni degli uomini della sicurezza, una minacciosa macchia indistinta fatta di impermeabili grigi e cappelli neri, e i vari fisici che subiscono le improvvise perquisizioni notturne negli appartamenti che condividono. Se l’autore russo voleva far sì che capissimo quello che c’è da capire in fatto di dispotismo e repressione in ambito sovietico ritengo ci sia riuscito e Brave People può essere l’apice della dissertazione filmica con DAU. Degeneration (2020) che ne diventa, ora, la sua tombale prosecuzione. Ma come praticamente ogni pezzo della serie, anche qui si ha un personaggio che focalizza su di sé maggiore interesse, la sua entrata in scena avviene a proiezione inoltrata e si allinea al filo conduttore dell’opera, è sempre una faccenda di sottile sopraffazione, di privazioni personali che il povero Andrey Losev (vero professore presso l’HSE di Mosca, già apparso di sfuggita in altri esemplari di DAU) sperimenta con la faccia spiaccicata sul muro dove apprende cosa significhi la paura solo perché ha la “colpa” di essere qualcosa che non aggrada l’establishment dell’Istituto. Lo sviluppo che ne consegue è particolare: se prima ci è stata data una sorta di panoramica adesso si entra nel dettaglio, la cappa securitaria penetra nel legame relazionale. È un’altra costante del lavoro di Khrzhanovskiy la criticizzazione dei paradigmi amorosi, ma se in DAU. Three Days (2020) o DAU. String Theory (2020) – e di riflesso DAU. Nikita Tanya (2020) – non sono mai stato davvero convinto al 100% nell’insistere su poligamia e materie affini, in Smelye ludi il discorso mi è parso ben più calibrato perché dotato di solide radici, e allora osservare il tracollo emotivo di Darya/Dasha, al di là di un pizzico d’esagerazione (il teatrino con Blinov si trascina con fatica), è uno dei lampi non dico accecanti, ma comunque rivelatori che DAU sa custodire.

Non si negherà mai che la macchia del progetto-DAU è quella di ripetersi troppo, tuttavia, anche nella ripetizione, si possono trovare delle vie d’uscita capaci di risollevare l’attenzione verso un universo cinematografico che nelle sue ultime apparizioni mi sembrava si stesse facendo paradossalmente piccolo e concentrato a perseguire delle prospettive amorose dalla breve gittata, Brave People ne è un contro-esempio: pur adottando la solita impostazione è riuscito ad aggiungere e non a ricalcare, testimoniando l’abissalità di una politica disumanizzante allegorizzata dai brevissimi nonché folgoranti incipit ed excipit: chi sono realmente quei topolini? E chi sono quei ricercatori che se ne servono per gli esperimenti?

Nessun commento:

Posta un commento