domenica 30 novembre 2008

Svezia, inferno e paradiso

Parafrasando Villaggio, Svezia, inferno e paradiso è una cagata pazzesca!
Non posso tirare fuori la solita storia della contestualizzazione come avevo fatto per Mondo Topless (1966), la quantità di boiate proferite da Enrico Maria Salerno è fuori da ogni concezione, anche temporale.

Il tono del doppiatore è sempre supponente, e giudica la vita svedese da un alto piedistallo.
Ora, se la Svezia a quel tempo (1968) fosse stato un paese regredito potrei anche capire (ma non ammettere) l’aria di superiorità che nel documentario di Luigi Scattini si respira, cosa che tra l’altro non avviene neanche in Magia nuda (1975) dove al centro dell’attenzione ci sono riti tribali, ma qui denigrando la vita degli scandinavi si finisce per mettere in evidenza l’arretratezza dell’Italia in quel periodo! Vengono stigmatizzati, ad esempio, i comportamenti di alcune ragazze che si concedono su una barca, e Salerno sottolinea che i loro baci sono senza passione, quasi dei convenevoli… ma perché?
Si screditano gli addii al celibato femminili e il posizionamento di alcuni distributori di preservativi in una città… follia! Il sistema di adozioni sembra una roba da extraterrestri, e un sexy shop viene visto come un antro oscuro e malvagio. Si sottolinea più volte che le donne svedesi sono libere ma infelici (ma perchè?), e che i ragazzi non solo vanno via di casa presto, ma in pratica non ci entrano mai perché da bambini vanno negli asili in quanto le mamme lavorano e non possono accudirli. Che stranezza eh?! Non mancano riferimenti alla droga e alla povertà riconducibili a qualunque realtà europea degli anni 60. Da segnalare anche un parto e uno stupro più finti dei soldi del Monopoli.

Insomma una sequenza di pistolotti che in confronto Ratzinger è un liberale convinto. Fa pensare sul fatto che l’Italia era indietro secoli rispetto ad un paese come la Svezia, e che anche adesso, in particolare nel sistema educativo, abbiamo parecchio terreno da recuperare.
L’unica scena degna di nota è quella nel video, non tanto per quello che si vede ma per ciò che si sente.

venerdì 28 novembre 2008

Patrick vive ancora

Vorrei dimenticare Patrick vive ancora, seguito tarocco di Patrick diretto da Robert Franklin nel 1978, due anni prima di questo diretto da Marco Landi.
Vorrei dimenticare un incipit assurdo in cui senza se ne ma Patrick (Gianni Dei) si becca una bottigliata in testa da una furgoncino che gli passa affianco.
Vorrei dimenticare che suo padre, mad-doctor monocigliato, lo accudisce nella sua “clinica” in coma vigile collegato ad altri tre poveri cristi che hanno il compito di alimentarlo cerebralmente per compiere la sua vendetta.
Vorrei dimenticare gli occhi di Patrick che ogni tanto appaiono sullo schermo terrorizzando (ma di che?) i vari malcapitati.
Vorrei dimenticare l’omicidio della piscina che si trasforma in una pozza sulfurea mentre vengono continuamente ripresi degli alberi mossi dal vento per poi inquadrare un manichino sfigurato che galleggia nell’acqua.
Vorrei dimenticare due delle donne che popolano questo film: Mariangela Giordano e Carmen Russo. Vorrei dimenticare la loro rissa pietosa a colpi di tettate.
Vorrei dimenticare le innumerevoli bottiglie di J&B che spuntano come funghi da ogni cassetto delle stanze.
Vorrei dimenticare dialoghi del tipo: “Con la droga sei diventato frocio!” Risposta: ”Crepa sola mignotta!”
Vorrei dimenticare la segretaria bionda che si presenta nuda (strano!) nella stanza di Patrick ed inizia a leccare la spalliera del letto, per poi trasferirsi sul divano e simulare un rapporto sessuale o qualcosa del genere.
Vorrei dimenticare la Giordano che invece di scappare di fronte ad una lancia mossa telepaticamente da Patrick, si siede su un tavolo ed apre le gambe… furba! La punta le uscirà dalla bocca.
Vorrei dimenticare la pessima colonna sonora simile a quando nei Simpson compaiono gli alieni bavosi.
Vorrei dimenticare una tizia che viene sbranata da un gruppo di cani che l’ultima cosa che vorrebbero fare è mangiarsi quella poveretta.
Vorrei dimenticare le tre cavie che si contorcono come vermi nei loro letti.
Vorrei dimenticare, infine, gli occhi di Patrick che fanno da sfondo ai crediti finali.

Vorrei dimenticare tutto questo, e lo farò.
Forza ragazzi, sono pronto.

mercoledì 26 novembre 2008

Nero.

È impossibile inquadrare Nero. all’interno di una precisa categoria. E non poteva essere altrimenti visto che è stato partorito dalla mente di Tiziano Sclavi (sceneggiatore nel film) il quale scrisse un romanzo edito da Camunia nel 1992 con lo stesso titolo. Non conosco lo Sclavi romanziere, ma per fortuna conosco quello fumettista, e siccome credo che le due cose siano inscindibili, non mi sono stupito davanti ad alcune scene marcatamente surreali.

Come ho detto è difficile catalogare questo film, io mi sono rifugiato dietro a due etichette parecchio contestabili perché: primo non è un thriller, e secondo weird di per sé non è un genere.
Non è un giallo, non è una commedia, e non è un film drammatico, figuriamoci un horror. Nero. è un po’ di tutto questo avvolto da un filo, il filo del grottesco.
Guardandolo come un thriller l’intera struttura è molto traballante, un purista del genere storcerebbe il naso dalle forzature che si susseguono kafkianamente, ma l’intento degli autori non è stato quello di creare una storia a tinte gialle visto che le figure della vittima e dell’assassino sono abbastanza chiare sin da subito, piuttosto un’esplorazione profonda, ma sempre surreale, della vita di un uomo debole e paranoico interpretato dal convincente Castellitto. Intorno a lui si muovono personaggi caricaturali che, parer mio, sono consapevoli della propria nullità, ma si illudono, e voglio far illudere gli altri, di essere dei personaggi veri, e a farne le spese è lo stesso Castellitto che, rispetto agli altri, e in primis la sua donna (Chiara Caselli), sembra ancora un essere umano, a differenza dell’investigatore interpretato dall’ottimo Luis Molteni, che non ha scrupoli di nessun tipo e galleggia in un’ ambiguità destabilizzante.

Dopo la sua morte accompagnata dalle note di Fiordaliso, che è la scena più incisiva e meglio riuscita di tutto il film (simile alla lapidazione della Bolkan in Non si sevizia un paperino, 1972) dove emerge la genialità visionaria di Sclavi, il film prende un vicolo cieco e si accartoccia su stesso dilagando nel weird più sfrenato, detto per inciso: nel finale non ci ho capito un cazzo.
Però qualcosa trasmette: un po’ di inquietudine,un po’ di angoscia, ma soprattutto malinconia suscitata da queste situazioni così grottesche e surreali, ma pur sempre ambientate nella grigia provincia non troppo lontana dalla vita che, almeno io, vivo, fatte di routine e gesti ripetuti all’infinito come il disabile che piscia sulla ruota o la vecchia sempre in procinto di salire le scale. Argomento, questo, che è un po’ una costante nei lavori di Sclavi.

Non è un film limpido, anzi è piuttosto arzigogolato, ed oggettivamente non può essere definito “bello” (virgolette perché non mi piace per niente questo aggettivo riferito ad un film), però è curiosamente diverso, anche se comparato con film attuali.

Qualche curiosità: Hugo Pratt interpreta una particina nel film; la colonna sonora è molto variegata (anche troppo), si va dalla già citata Fiordaliso con Non voglio mica la luna, a Guccini che ha appositamente scritto per Nero. la bellissima Acque, passando per i Mau Mau che vantano una presenza sonora molto sostanziosa; verso la fine viene inquadrata una tavola di Dylan Dog, e subito dopo la Caselli dice a Castellitto che sembra diventato il personaggio di un fumetto.

domenica 23 novembre 2008

Renato Balestra rompe i culi... sul ring


Finalmente il trailer di The wrestler!
Non vedo l'ora di ammirare Mickey Rourke con il viso tumefatto e sempre più simile a quello di Balestra, menare colpi sul ring.
E poi Aronofsky sa il fatto suo.

Il Palazzo - Nono piano

Andrea se ne stava immobile davanti alla finestra aperta. Secondo i suoi calcoli avrebbe impiegato 2,9 secondi a schiantarsi sul terreno. Tenendo conto che il cervello umano ha un tempo di reazione brevissimo si sarebbe reso conto della sua caduta. Decise così di buttarsi all’indietro, in questo modo non avrebbe visto l’asfalto farsi sempre più vicino.
Mise la sedia sotto il davanzale proprio quando sua madre lo chiamò dalla camera: ”Andreino mi porti da bere per favore? Ho tanta sete...”
Contemplando sul da farsi Andrea decise che un ultimo regalo a sua mamma poteva farlo, nonostante fosse lei il motivo del suo suicidio.
“Tieni mamma, piano che è fredda.”
“Tirami un po’ su il cuscino, ecco bravo così.”
Andrea posò il bicchiere sul comodino. “Posso andare mamma?”
“Sì caro.”
“Sicura mamma?”
“Certo. Lasciami riposare per favore, e non fare baccano.”
Andrea strinse i pugni: ”Va bene mamma.”
“Ah! Un' ultima cosa, oggi pomeriggio devi andare dalla zia a portarle quei maglioni che mi aveva mandato, non mi piacciono, dille che se li può tenere.”
“Va bene…”
2.9 secondi. Il tempo per morire.
L’ultima cosa che avrebbe visto sarebbe stato il poster di Dragon Ball appeso alla parete della sua camera, poi si sarebbe lasciato cadere all’indietro come una telecamera lanciata nell’aria che riprende il blu del cielo e poi il grigio del cemento.
Ma quei 2.9 secondi diventarono mesi, e poi anni. Ogni volta che si sedeva sul bordo gli mancava il coraggio.
Diventarono 10 anni per la precisione, all’età di 31 anni decise di buttarsi. Ma nell’istante in cui la sua testa si spappolò sul marciapiedi sua madre morì d’infarto. Non riuscì a darle neanche l’ultimo, e unico, dispiacere della sua vita.

giovedì 20 novembre 2008

Wall•E

Per capire che cosa è Wall•e bisogna partire da ciò che non è. Wall•e non è un film per bambini, ma neanche per adulti. Wall•e è un film per tutti, e che tutti dovrebbero ammirare. Molti anni fa, quando ero un bimbetto, mi portarono ad una mostra di pittori fiamminghi, io non sapevo chi fossero Rubens o Van Dyck, e a dir la verità non lo so neanche adesso, ma ero così rapito da queste opere d’arte che quasi vedevo i cavalli uscire dalle tele, provavo grande ammirazione per questi artisti seppur non sapessi nulla di pittura; la stessa ammirazione che provai leggendo per la prima volta Cent’anni di solitudine, con il diluvio su Macondo che, scorrendo le pagine, avvertivo intorno a me.

Io, vedendo Wall•e, ho sentito tutto quello che il robottino ed Eve si sono detti senza che loro proferissero parola. Mi sono bastati gli sguardi. Sarebbe normale se si trattasse di un film con attori in carne e ossa, ma trattandosi di personaggi “disegnati” la cosa è stupefacente. I creatori hanno dato uno sguardo così umano a Wall•e che risulta più vero di quello di un uomo stesso. Il legame empatico che si crea con questo buffo cosetto di ferro arrugginito, è, per quanto mi riguarda, senza precedenti nel campo dell’animazione. Non c’è Bambi (1942) o Una tomba per le lucciole (1988) che tengano. Qui il rapporto è così profondo che l’immedesimarsi con il protagonista viene naturale sin dalla prima (splendida) mezz’ora, in cui si è avvolti dalla coperta della tenerezza vedendo gli occhioni lucidi e i sospiri solitari di Wall•e che guarda Barbra Streisand danzare. In questa solitudine fatta di rifiuti e cianfrusaglie anche lo spettatore sente la necessità cogente di amare un’altra persona.
Seduti sulle comode poltroncine della multisala, o stravaccati sul divano di casa, so che voi avete stretto la mano della persona che avevate affianco perché tutti in fondo siamo Wall•e, e tutti vorremmo esserlo: sognatori, romantici, un po’ sfigati, ma anche eroi e puri di cuore. Insieme ad Eve forma una coppia che riporta alle origini (del)l’esistenza umana attraverso una pianticella. La rappresentazione degli esseri umani è buffa ma anche tremendamente satirica. Sono così obesi da non riuscire più a camminare, e per colpa della tecnologia hanno dimenticato anche i gesti più semplici come quello di fare una carezza. E così quell’osso che Kubrick (ampiamente citato) lanciò nello spazio anni fa è diventato una mega astronave abitata da umani poltroni imbambolati da uno schermo che li accompagna in ogni loro movimento. Paradossalmente due esseri non umani, ma che in pratica lo sono più dei viaggiatori della Axion, segnano un punto di svolta per l’umanità intera. Si esemplifica il duplice volto del progresso. Da una parte mortale se se ne abusa, dall’altre parte vitale per progredire.

Questo lungometraggio contiene una sequenza che è rivoluzionaria, e credo che mai prima d’ora, in una produzione Walt Disney, sia mai stata effettuata. In tutte le recensioni che ho letto non si accenna al fatto che Wall•e, verso la fine, muore schiacciato da una pressa. Il protagonista di un cartone animato muore. Anche solo a leggere una frase del genere fa un particolare effetto, eppure è così, e questo non fa altro che cementare il rapporto con lo spettatore, che pur essendo consapevole di un inevitabile “happy end” resta con il fiato sospeso sia nella situazione che ho appena citato, sia quando Wall•e viene lanciato nello spazio a bordo della navicella, e i minuti successivi sono a mio parere intrisi di una poesia quasi commovente: i due robottini che si sfiorano tra le profondità dell’universo dipingono una storia d’amore tangibile quanto i quadri di Rubens e sentita come la pioggia su Macondo, nel loro continuo rincorrersi e trovarsi c’ero anche io, ed è stato bellissimo.

Archeologia oltrefondiana

L’archeologia è sempre il risultato di uno scavo. La ricerca di un qualcosa che ha dato origine al tutto.
Scavando a fondo, e mai come in questo caso superandolo, si arriva ad una semplice domanda la cui risposta è però tra le più complesse: perché?

Oltre il fondo compie oggi un anno di vita, e la domanda che il venti Novembre scorso mi ponevo, a distanza di un anno non ha ancora una risposta. Quella presente in quel primo post non era vera, e questa lo era solo in parte.
Il fatto è che spesso mi sento ingabbiato in una scia, incolonnato in un gregge, succube di una moda. E per questo non trovo una risposta sensata al perché io abbia aperto questo blog. In fondo a chi importa cosa vedo, cosa ascolto, e cosa scrivo? Ci sono milioni di cineblog, musicblog e stocazzoblog, quindi che senso ha essere soltanto una piccola goccia nell’oceano virtuale?
Ho pensato spesso di chiuderlo, e una volta l’ho fatto, ma non sono resistito molto. La domanda che sorge è sempre la stessa: perché l’avevo chiuso? E perché l’ho riaperto?
Le sedimentazioni del tempo stratificate intorno a questo quesito non mi hanno fatto dimenticare però tutti gli “amici” che hanno avuto la pazienza di seguirmi, alcuni si sono persi per strada, altri si sono aggiunti e altri ancora lo faranno, io li ringrazio di cuore tutti.

L’altro giorno leggevo di una coppia che si è separata perché il marito tradiva la moglie su Second life. Ecco, io ho molta paura di non riuscire a staccarmi da questa ir-realtà, sicuramente arriverà un giorno in cui scriverò l’ultimo post, e spero che non sia troppo lontano perché più passa il tempo e più accorgo che un laccio invisibile mi lega a questo spazio virtuale, e ho il terrore che questo laccio si stringa sempre di più fino a soffocarmi.

Parimenti (erano tipo dodici anni che volevo usare questo termine) ri-scoprire una cosa sepolta è sempre coinvolgente, e se questa cosa ti appartiene è quasi emozionante. In questi trecentosessantacinque giorni ho: pensato, riso, pianto, ascoltato della buona musica, guardato dei pessimi film, fatto del sesso, superato alcuni esami, bestemmiato, bevuto troppi negroni, scritto un paio di poesie, capito che guidare non fa per me, visto mio padre invecchiare, rialzato la testa, stretto amicizie. E tutto questo l’ho scritto qua dentro: a volte tra le righe ed altre più marcatamente. Allora la risposta alla mia domanda iniziale, il mio arché, si palesa dinanzi ai miei occhi con una cifra banale e ripetuta, ma che sento inequivocabilmente vera: ossia che noi uomini abbiamo il bisogno di raccontare e raccontarci, ma la condizione imprescindibile che viene prima è che ci sia qualcuno a sentire quello che diciamo, anche uno sconosciuto. Così un piccolo ed insignificante commento può raddrizzare una giornata, e se anche in termini pratici non porterà nessun miglioramento, riuscirà ad abbozzare un sorriso sul blogger abbacchiato (ogni riferimento a me stesso è puramente casuale).

Quindi ti ringrazio vecchio mio, per quanto mi hai aiutato e per quanto ancora lo farai, ma non ti auguro cento di questi giorni, no, perché devi sapere che il giorno in cui tu morirai significherà per me la vita, e io non avrò più bisogno di te, nel frattempo ti auguro un buon compleanno.

domenica 16 novembre 2008

L'Uno per l'Altra - Reset ? (seconda parte)

Qui la prima parte
La vita può ricominciare da un long island con poco ghiaccio.
Altra girava veloce i pochi cubetti che affioravano in superficie, Jack, uno che con quel nome non avrebbe potuto fare altro che il barista, strofinava con un panno a quadri rossi il bancone, intorno a lei le solite voci di uomini che parlavano di calcio e di donne, di donne e di calcio, e poi ancora di calcio e di donne, fino a quando Jack non li scacciava via a pedate, loro imprecavano contro di lui promettendo che quella sarebbe stata l’ultima volta che mettevano piede lì dentro, poi il giorno dopo li ritrovavi al loro posto ad ingurgitare birra e a schiaffare carte sul tavolo.
Altra frequentava quel bar da molto tempo, si sedeva al tavolo e aspettava che qualcuno si avvicinasse, una sigaretta, un drink, ed il gioco era fatto, “la riserva di ombre” scherzava con Uno. Uno…le mancava molto, si chiedeva dove fosse, con chi…avrebbe avuto voglia di baciarlo ma allo stesso tempo di ammazzarlo.

La cannuccia sfrigolò sul fondo, Altra se ne stava per andare quando sentì una voce alle sue spalle: “Vuoi un chewingum?”
Dietro di lei un uomo biondo, sulla quarantina, ben vestito e imbevuto di profumo, il sorriso rivelò dei denti così bianchi che brillavano come i bicchieri dietro a Jack, tra le dita teneva un pacchetto di vigorsol alla menta. “Sono buoni, dai prendine uno!” Ripetè sedendosi vicino ad Altra.
Lei rimase di stucco, pensò che se gli angeli fossero di questa Terra lui sarebbe stato sicuramente uno di essi, sul viso portava qualche ruga, segno di una vita vissuta che gli si rifletteva anche negli occhi, così blu che non basterebbe il mare per descriverli.
“S-sì grazie.” Balbettò Altra.
“Sei davvero bella.”
Non era di certo il primo uomo a dirle una frase così, era così esperta che le bastava vedere uno in faccia per capire cosa le avrebbe detto, ma questa volta era diverso.
“Grazie…” Avrebbe aggiunto “anche tu”, ma non ne ebbe il coraggio.
“È molto tempo che ti vedo in questo bar sai? Probabilmente tu non te ne sarai accorta però io sono sempre stato qua. Ti ammiravo, ogni giorno, e speravo che tu incrociassi il mio sguardo, forse ti sembrerà strano, o forse passerò per uno stupido adolescente ma io, fin dal primo momento che ti ho vista, ho pensato che fossimo fatti l’uno per l’altra.”
In un istante le labbra di Altra si posarono delicatamente su quelle dell’uomo, mentre le sue unghie smaltate gli sfioravano la guancia. Fu un bacio vero per lei, dopo tanto tempo, dato ad una persona e non ad un’ombra.
“Ehi ehi, se volete fare ste cose fatele fuori di qua!” Jack agitava il panno in direzione della porta.
“Ti lascio il mio numero.” Disse l’uomo accarezzandole il viso, poi scrisse alcune cifre su un pezzetto di carta e le diede un bacio sulla guancia. Un secondo dopo era già uscito.
Altra lo vide scomparire in mezzo al fumo e agli schiamazzi dei giocatori di carte, spiegò il fogliettino e notò che l’uomo non aveva lasciato il suo nome.
“Jack! Dammi una penna.” Sopra il numero scrisse una parola in stampatello: ALTRO.

venerdì 14 novembre 2008

Il bosco fuori

Lo sguardo languido del bambino è la cosa più penetrante di tutto il film. Più di un braccio asportato con la motosega, più del colon anguillesco che sguscia dallo stomaco, più di una bugna ricolma di pus (maionese?), più di tre coatti romani impasticcati, più di coltelli che infilzano la carne, più delle pallottole ficcate nel cranio, e anche più di un povero bambino mutilato. Non ricordo chi aveva detto che uno sguardo è irripetibile, ma aveva ragione. Oltre gli occhi del piccolo cannibale si dipana un film che rende omaggio alle brughiere insanguinate del Texas, non per niente in Giappone è stato distribuito come Italian chainsaw, e alla violenza brutale di Craven, non per niente in America è giunto col nome di The last house in the wood, solo che qui i personaggi si muovono in un contesto geografico parecchio strano: i castelli romani. Mettendo da parte, se si vuole, il “profumo” artigianale che si respira per tutto il film, e soprassedendo ad una fotografia scorretta durante le riprese notturne, Il bosco fuori è un horror che ho gradito, si lascia vedere tutto d’un fiato.Questo perché a fine proiezione mi sono chiesto quale horror italiano degli ultimi dieci anni sia degno di nota, e sinceramente non ho trovato una risposta accettabile, anche perché ormai qui da noi questo genere è passato in secondo piano, quindi credo che solo i produttori più coraggiosi vogliano investire in questo campo, e sicuramente i Manetti Bros (Piano 17, 2005) sono annoverabili in questa categoria, anche perché se non sbaglio (ma non sbaglio) i due fratelli collaboravano con Marco Giusti alla trasmissione Stracult e quindi sono parecchio competenti in materia. Ma i registi non sono loro! Quindi onore a Gabriele Albanesi che ha definito il film “un delirio iperrealista, una storia di apocalisse e redenzione, è un sogno ad occhi aperti di una ragazza precipitata nell’orrore.Ed in fine, un viaggio nella memoria del cinema di genere e un ritorno alle origini dell’horror italiano”. Sulla seconda parte sono d’accordo, ma più che un ritorno alle origini lo definirei un punto di partenza su cui lavorare per il futuro, senza ovviamente dimenticare il passato. Per la prima parte avrei qualche dubbio. E soltanto perché è un film italiano. Giuro. Se questo fosse l’ultimo film di Aja o di Rob Zombie sarei estremamente entusiasta, purtroppo però ho riso sotto i baffi sentendo dialoghi da Centovetrine nei primi minuti, e vedendo i tre tamarri romani (che tra l’altro sono i personaggi meglio riusciti a mio avviso). Sarà questa forte esterofilia con cui sono cresciuto, però mi viene davvero difficile pensare ad un (bel) film horror italiano nel nuovo millennio. A giovani e volenterosi registi come Ivan Zuccon (La casa sfuggita, 2002), Andrea Falcioni (Il cerchio dei morti, 2007) e lo stesso Gabrieli Albanesi, il compito di farmi cambiare idea.

giovedì 13 novembre 2008

Giallo d' Argento

Non dico niente.
vabbè però la locandina è uguale a Gomorra santo cielo...

mercoledì 12 novembre 2008

Visitor Q

Eccessi: il padre necrofilo e sofferente di eiaculazione precoce, si fotte la figlia prostituta; la madre tossicodipendente viene picchiata dal figlio minore; il figlio è oggetto di continue derisioni e aggressioni da parte dei suoi compagni di scuola.
Estremismi orientali così violentemente al limite che quasi non ci credi, tu, occidentale, figlio di una formazione e di una educazione differente, tu che ti domandi per quale motivo nei film porno giapponesi le donne sembrano sofferenti mentre fanno sesso e allora ti sorge una domanda la quale parte dal presupposto che esse, come le loro colleghe europee/americane, fingono per dare piacere a chi guarda, e quindi ne deduci che il dolore fa rima con piacere per chi ha gli occhi a mandorla, tu, se credi in questo fragile sillogismo allora non hai capito che dietro ad un incesto, che dopo la necrofilia, che al di là di due capezzoli strizzati, che oltre a questi simboli (e già in Dolls 2002, ne avevo parlato di quanto la semiotica sia profondamente incisiva nel cinema orientale) grezzi, scurrili, blasfemi e immorali, c’è un significato.
L’interpretazione è compito di chi guarda. Tradurre le immagini in senso è compito arduo ma alquanto affascinante, e oserei dire formativo per una persona perché aiuta a sostare nel film senza lasciarlo scivolare via. E questo può accadere soltanto se ci si pone una domanda, la più semplice, la più radicale: perché?

Perché Miike si sofferma così tanto sul latte che schizza dai capezzoli di Keiko?
Ma perché è un punto nodale. In qualche modo la famiglia ritrova una sua dimensione da quel momento in avanti, e la ritrova grazie alla presa di coscienza della madre che con il latte materno re-incolla i rapporti con suo figlio, che sguazzerà nel suo latte come in una placenta e rinascerà promettendosi dinanzi al visitatore di studiare in futuro, e con il marito. A suggello della nuova unione col partner si pone l’affettamento della giovane donna, un atto vissuto con estrema gioia e partecipazione dalla coppia. La scena finale è per così dire “un nuovo inizio”. Un principio che si fonda su una figura materna nuova, ripulita, rinata. Pur restando una tossica e una puttana. E su questo paradosso che il regista preme l’acceleratore: si può essere felici per dei deviati mentali? Si può provare pietà per un necrofilo incestuoso? Si può sentirsi sollevati nel vedere una famiglia pazzoide riunita? Beh, se le risposte sono affermative significa che il film ha colpito nel segno. Io pensandoci bene dico: “Sì.”
Ma chi è questo misterioso visitatore? Non lo so. Non ci è dato saperlo. Si può interpretare. Per me è la proiezione di Miike impressa su pellicola, un regista che con Audition (1999) mi ha sbigottito e con Ichi the Killer (2001) mi ha steso, per la forza delle immagini ma ancor più per quello che c’era dietro; è stato un po’ come se mi avesse dato una secca pietrata sulla nuca.

È eccessivo? Sì, lo è. Ma è anche intelligente, e spesso queste due categorie non vanno mai a braccetto.

domenica 9 novembre 2008

Il giorno in cui Paul divenne uomo

L’avrebbe uccisa, sì, se ne fosse stato in grado l’avrebbe fatta fuori: puff, sparita, eliminata, cancellata, annientata. Paul odiava la ragazza di suo fratello maggiore con tutto sé stesso. Fin dal primo giorno aveva pensato: “Questa qui mi sta sui coglioni.” E col passare del tempo le cose non erano migliorate.
Ogni volta che veniva a cena da loro si sedeva sempre al suo fianco, e mentre discutevano o si guardava la tv, lei rideva, ma la sua risata era simile al verso di una foca, Paul andava in bestia. “Adessosoffocaadessosoffoca”, ma subito dopo riprendeva quel ghigno compulsivamente malefico.
La cosa che più gli dava fastidio era quando s’intrometteva nei fatti suoi, lo faceva sempre mentre aspettava che suo fratello tornasse dal lavoro; si piazzava in camera sua e guardandosi intorno cercava un argomento su cui ciarlare.
“Hai visto Paul come pioveva oggi?”
“- crede che sono cieco questa deficiente? - Già ho visto…”
“Cosa leggi?” Quando sorrideva le sue labbra si allargavano così tanto che ci sarebbero passate tre banane contemporaneamente.
“- Saranno fatti miei - Un libro...”
“Che libro è?” Quando s’incuriosiva piegava la testa da un lato aggrottando le sopracciglia.
“- Ma fatti i cazzi tuoi! - "L’amore ai tempi del colera"…
“Non l’ ho mai letto, di che parla?” Adesso la sua espressione era un misto delle due precedenti, Paul l’avrebbe ammazzata seduta stante.
“- Ci credo te al massimo leggi Vanity Fair - è una storia d’amore.”
“Davvero? E tu ce l’ hai la fidanzatina Paul?” Inarcò un po’ la schiena in avanti appoggiando i palmi delle mani sul letto.
“- ma cosa vuole sta qui? - No non ce l’ho.”
“L’ hai mai vista una ragazza nuda?” In un attimo si sfilò la maglietta di cotone restando con i capezzoli induriti semicoperti dai lunghi capelli lisci.
“- Cazzo -Cazzo!”
“Avanti tocca, non avere paura…” La sua mano era tesa in direzione di Paul che timidamente si avvicinò alla ragazza accarezzandole con la mano tremante la rotondità del seno, lei lo strinse e gli sussurrò all’orecchio:”Baciami…”
Con il cuore che batteva come mai in quindici anni di vita rispose: "Sì".
Quella sera a tavola le sue risate non gli diedero fastidio, i suoi sorrisi non lo fecero infuriare, anzi, ne sentiva come il bisogno, e quando suo fratello l’abbracciò davanti a lui gli si chiuse lo stomaco e fu assalito da un senso di nausea.
Aspettò lei per molti giorni a venire nella sua cameretta, stringendo tra le braccia il libro di Garcia Marquez e ripensando al giorno in cui divenne un uomo.
Ma non tornò più, lasciò suo fratello per un’ istruttore di body building, e così due uomini cominciarono a piangere per la stessa donna. Ma questa, come si dice, è un’altra storia…

giovedì 6 novembre 2008

Storie di vita e malavita

“Carlo Lizzani, autore estremamente produttivo,ha vissuto tutte le stagioni del cinema nazionale, dal neorealismo ai giorni nostri,attraversando tutti i generi cinematografici senza mai perdere il suo stile misurato,realistico ed elegante. Sceneggiatore, regista, produttore, intellettuale lucido con il gusto per la letteratura e per la storia, è stato anche critico e storico del cinema, ricoprendo di volta in volta tutti i ruoli che competono a un cineasta. Testimone del “secolo breve” e dell’evoluzione della sua società, non ha mai perso, pur nella sua lunga carriera, la carica ideale ed umana degli esordi.”
Così recita una breve biografia di Carlo Lizzani presente nella guida della mia facoltà. Qui sul blog mi sono occupato di lui con La casa del tappeto giallo (1983) che insieme a Storie di vita e malavita (1975) non risultano come due dei suoi film più famosi, e oso dire (perché non ne ho visti altri) neanche i più riusciti. Però i temi che – e come li – affronta Lizzani sono “degni” della mia attenzione. D’altronde questo è Oltre il fondo, se no si sarebbe chiamato Settimo cielo.

Questo è un film che avrebbe dovuto durare solo mezz’ora, la prima. Oppure mantenere la sua lunghezza occupandosi esclusivamente dell’episodio numero uno. La storia di Rosina, la prima appunto, è a mio parere l’unica decente. Si riscontra un minimo di spessore nei personaggi e una trama “congegnata” nell’ottica di interessare lo spettatore, riuscendoci anche, ma senza grossi sussulti. Il problema di fondo è che tutte le vicende successive sono una copia sbiadita di questa, già pallida e apatica di per sé. I personaggi che si susseguono, dai “protettori” alle giovani prostitute, sono gli uni le riproduzioni praticamente identiche degli altri: cambia soltanto l’estrazione sociale di alcune delle ragazze, a volte borghese altre volte proletaria. Ma il disagio personale che vivono è lo stesso. Ovvio che sentir dire da una delle giovani che “fa la vita” per avere delle esperienze… beh mi cadono un po’ le braccia e non solo quelle. Per di più le varie situazioni che portano le ragazze sulla strada sono estremamente romanzate tanto da travisare la ricerca sociale da cui il film prende spunto, ed a inficiare tale questione ci pensano quelle allusioni erotiche inclinate al lesbicismo tanto anni '70 quanto fuori luogo.

È buffo sentire negli attori (credo non professionisti) una forte inflessione dialettale a cui noi non siamo più avvezzi, è un po’ meno buffo perdere due ore di vita per questo film, ma sono convinto del fatto che avventurandosi nel labirinto dell’adolescenza c'è chi ha fatto molto di peggio: Maladolescenza (1977).

mercoledì 5 novembre 2008

L'Uno per l'Altra - Reset? (prima parte)

Riassunto: Ormai le vite di Uno e di Altra sono separate, da questo momento in poi ognuno sembra prendere una propria strada.

La vita può ricominciare da un’insegna al neon verde fluorescente.
“La K si è staccata.” Disse quello che probabilmente era il proprietario della bettola appoggiato all’uscio.
“Mc Kittrick…” Scandì Uno con ancora la valigia in mano.
“Non chiedermi che cazzo voglia dire, questo cesso l’ho ereditato da mio padre, se vuoi una camera vedi di deciderti presto perché tra poco inizia Happy Days e non ci sono più per nessuno.” Tirò un rutto e proseguì: ”Qui non ci sono regole, se vuoi sbatterti qualche puttanella puoi farlo, se spacci o fai uso di droghe puoi farlo, se sei ricercato dalla polizia io posso coprirti, ovviamente solo se sganci qualche verdone, se...”
“Va bene ho capito, prendo una camera singola.” Fece Uno avanzando di due passi in direzione dell’entrata.
“ALT!” Il palmo calloso del proprietario gli sfiorò la faccia: ”Non farai mica lo sbirro te?” Uno stuzzicadenti apparve all’angolo destro delle sue labbra circondate da una barba vecchia di qualche giorno.
“No, sono una persona normale.”
“Bene bene, prego entra pure!” Alzò il braccio per accompagnarlo dentro, rivelando un buco nella maglia di cotone in corrispondenza dell’ascella.
La hall era costituita da due poltrone verdi impolverate, un bancone giallognolo e una vecchia tv portatile a pile.
Il proprietario con uno slancio inaspettato si posizionò dietro al bancone e gettandosi alle spalle un giornaletto porno schiaffò sopra di esso il registro delle firme: “Firma dove cazzo vuoi”.
Intanto la tv sputacchiava una canzoncina: ”Sunday, monday happy days…”
“Uuuuh inizia inizia, Maddy inizia! Vieni presto!”
Da una porticina apparve una chiattona imponente, una bomboniera di ciccia e lardo che impiegò tre minuti a percorrere neanche due metri, Uno notò lo strato di glassa che le circondava la bocca, quando gli passò affianco sentì lo stesso odore di piscio che emanava il barbone la notte appena passata.
“Fratellino fammi spazio.” Nell'istante in cui si sedette i vasi impolverati sulle mensole smossi da un invisibile forza sismica vacillarono per un secondo.
“Ecco guarda c’è Fonzie! Ahahaha, guarda Maddy!”
“Che fico!” E una brioche intera svanì nella sua bocca.
Uno si allontanò silenziosamente da quel grottesco quadretto, fece per salire le scale quando una vocina lo chiamò: ”Signore…signore! La valigia, la dia a me!” Un bimbetto tutto rugoso vestito come un nordista gli sorrideva davanti. “Anche se sono un nanetto ho molta forza sa?”
“Ehm…ma questa valigia è molto pesante…”
“Avanti non si faccia pregare, faccio questo lavoro da cinquanta anni!”
“C-cinquanta?”Ma il nano era già svanito su per le scale.

martedì 4 novembre 2008

...e tu vivrai nel terrore! L'aldilà

Schegge.
Di classe pura, visionaria, sanguinolenta, cattiva.
Ma anche cadute sintomatiche del cinema bis italiano.
Sarò cattivo: non è un capolavoro per me. Poi forse è definibile come capolavoro di Fulci, ma non avendo visto tutti i suoi film come posso affermarlo?
Gli stilemi del cinema horrorifico ci sono tutti: un pittore dannato, una casa infestata, un libro maledetto, voci echeggianti, rumori sinistri, morti che risorgono, vivi che muoiono. E poi, in mezzo a questi elementi abusati, dei lampi accecanti. Il primo: vedo un ponte lunghissimo che quasi sembra finire nell’orizzonte, pare un quadro, credo fermamente che lo sia. Poi sbuca un puntino che venendomi incontro si palesa come una macchina. Fulci mi ha fregato. Qui si incontrano Emily e Liza, senza spiegazioni, ma in fondo non ce n’è bisogno, va bene così.
Altro flash. Ancora Emily. La vedo inquieta, sente qualcosa. Si abbassa e dietro di lei appare uno zombi. Poi un altro e un altro ancora, la ragazza cieca è circondata. Urla, grida, sbraita, strilla, ma le parole non fermano gli zombi caracollanti, il suo cane sì, apparentemente. Il buio non mi fa capire, sembra che il pastore tedesco abbia difeso la sua padrona, poi una lama di luce illumina il pelo del cane squarciato da una ferita. Fulci mi ha fregato di nuovo. Poco dopo le sue zanne affondano nella carne di Emily.
Terzo lampo. Sono con Liza e McCabe nell’ospedale. Uomini morti che si alzano dai loro letti, ci circondano, sentono il nostro odore, l’odore della vita. Riusciamo a fuggire mentre le pallottole di McCabe rimbombano nei corridoi della struttura. Ma dopo una scala a chiocciola ci ritroviamo nel seminterrato dell’hotel (Fulci mi ha fregato per la terza volta), con passo lento avanziamo e tra le nebbie che si alzano dalla terra arida scorgiamo corpi di essere umani distesi nella polvere. Ho già visto quell’immagine, in un quadro forse. Non ho il tempo per pensarci, mentre sento il mio nome sibilare nell’oscurità mi accorgo che il buio è entrato dentro di me, e una voce dichiara: “E ora affronterai il mare delle tenebre, e ciò che in esso vi è di esplorabile.”

Se fosse un capolavoro quello che ho scritto sarebbe vero. Mi spiego meglio: è tautologico il fatto che Liza incontri Emily su un ponte deserto, è impensabile affermare che il cane di Emily non ha ucciso la sua padrona, è comprovato che Liza e il dottore finiscono nell’aldilà. Tutto questo è vero. Solo che io non c’ero.
Ho visto L’aldilà con distacco, senza essere trasportato nella storia, cosa che un capolavoro cinematografico solitamente mi fa. Fulci mi ha fregato in più occasioni, sì, ma non mi sento abbindolato, e io adoro farmi abbindolare dai registi! Mi sono sentito uno stupido quando la mdp di Lynch allarga l’inquadratura nel dialogo tra Laura Dern e la barbona in INLAND EMPIRE (2006). La mia bocca ha assunto la forma ad O quando Woo-Jin fa partire la registrazione con Dae-su ai suoi piedi in Oldboy (2003). Questi due esempi per dimostrare che ero coinvolto, che anche io, seppur seduto sul mio lettino nella tranquillità della mia casetta, ero dentro alla pellicola, e lei dentro di me.
Beh, con L’aldilà non è successo, e credo che la “colpa” possa essere ricondotta alla mancanza di ritmo nelle scene di raccordo, alla presenza di dialoghi poco incisivi e alla latitanza in alcuni frangenti di essi, a qualche sfx un po’ datato (vedi i ragni ed il dottore ucciso dalle schegge di una finestra), alla scarsa caratterizzazione dei personaggi (ma questo è un difetto di molti horror anche odierni), e ad alcune facilonerie (come mai una pistola in un ospedale? E soprattutto quanti colpi ha?).

Però che lampi, che schegge impazzite, che flash accecanti di classe! Dal prologo virato seppia all’inferno finale tutto d’un fiato. Ma sì, da vedere.

domenica 2 novembre 2008

Gummo

In un paese di nome Xenia, in Ohio, “un tornado si è abbattuto sul villaggio. In tanti sono rimasti uccisi, qui sono morti cani, sono morti gatti, case spaccate a metà, collane e braccialetti sopra gli alberi. I morti avevano le ossa che gli uscivano dalla testa, Oliver ha trovato una gamba sul letto. Molti padri di famiglia sono morti durante il grande tornado, io ho visto una ragazza volare per aria, e gli ho guardato sotto la gonna.

È questo l’incipit di Gummo, che poi sarebbe il nome dell’uragano, raccontato con voce sofferente da Solomon, il ragazzino smagrito protagonista insieme a Tummler, orfano del padre e cacciatore di gatti.

In breve il film, che non ha una sua logica sequenzialità, è un susseguirsi di scenette immorali attuate da personaggi ancora più immorali, che hanno come filo conduttore l’aver qualcosa in comune con Solomon e Tummler.
Così si viene a scoprire che a Xenia un ricettatore compra gatti per un ristorante cinese in cambio di colla da sniffare, oppure che una ragazza ritardata si prostituisce per volere del padre (o fratello?). Mentre un bambino con le orecchie da coniglio vaga per il paese come un’anima in pena.

La prima pellicola di Hrmony Korine ha l’intento di non lasciare indifferenti. Questo proposito è però rimasto tale nei miei confronti, tanto che a poche ore di distanza ho un ricordo sbiadito della vicenda e probabilmente tra un paio di settimane l’avrò scordata dal tutto. Con tutta sincerità trovo poco intriganti le turpi storie raccontate perché troppo slegate dal contesto e tra di loro, ma soprattutto non sono “brucianti”, non graffiano. Di prostituzione minorile ne ha parlato Lizzani in Storie di vita e malavita nel 1975, di gratuita violenza sugli animali ne abbiamo fin sopra i capelli con i cannibal anni '70 (e loro non scherzavano affatto), sul rapporto adolescenti-droga nel '97 si era già detto qualcosa con Ritorno dal nulla, sulla provincia americana media Todd Solondz aveva detto la sua con l’amaro Fuga dalla scuola media (1995).
Le riprese di Korine sono insolitamente originali, sporche e nevrotiche, ed anche la fotografia contribuisce a trasmettere un senso di degrado che non è di certo ai livelli di Totò che visse due volte (1998), ma che rende l’idea di uno sterramento delle coscienze, come se l’uragano insieme agli alberi e alle case si fosse portato via anche il senso morale degli abitanti di Xenia, o forse tornado o non tornado loro saranno sempre così.

Gummo non aggiunge niente di nuovo. Nessun pugno nello stomaco, ma quasi una ricerca ostinata nel volere stupire laddove altri lo avevano già fatto in passato.