martedì 29 settembre 2015

Contracuerpo

Primo cortometraggio della trilogia A contraluz comprendente Alumbramiento (2007) e The End (2008), Contracuerpo (2005) dell’ispano-americano Eduardo Chapero-Jackson è un film a cui bisogna riconoscere una discreta dose di intelligenza, questo perché l’avvicinamento alla tematica centrale non è di quelli propriamente incanalati barra concisi, il che non può che giocare a suo favore. L’interesse di Chapero-Jackson si posa su una piaga umano-sociale frutto bacato dell’epoca moderna: l’anoressia, tuttavia il suo approccio (privo di dialoghi) insabbia il tema della malattia concentrandosi sulla stranezza della situazione e su flashback ospedalieri (non il massimo dell’originalità) e fotografici (molto belli questi invece).

Certo è che sia la condizione presente all’interno della vetrina che quella riguardante il prima (o magari anche il dopo, c’è una certa sovrapposizione temporale che scompagina l’ordine cronologico, notare il neo della bimba che è lo stesso della protagonista), richiamano senza particolari forzature la condizione psico-fisica della donna, e indubbiamente l’idea del manichino, applicata una buona dose di sospensione dell’incredulità, è… un’Idea maiuscola visti i significati ad essa sottesi, tutte robe che si sentono e risentono tipo “siamo in una società dell’immagine”, “l’importante è apparire”, “ciò che conta è come sei fuori non come sei dentro”, che il regista ben utilizza evitando di moralizzare il contenuto, anzi sotto questo punto di vista il finale è una zampata parecchio riuscita che inscena sarcasticamente il declino del corpo-icona: dalla violazione irridente del ragazzino che lo utilizza come oggetto sessuale, all’immondezzaio dove su un nastro trasportatore viene scartato dal purgatorio del riciclabile per precipitare in un enorme tritatutto. La parabola annichilente si compie, eliminato l’involucro non resta più niente, quel letto che avrebbe dovuto ospitare il corpo di una Persona adesso è malinconicamente vuoto.

venerdì 25 settembre 2015

To Die Like a Man

Con Morrer Como Um Homem (2009) João Pedro Rodrigues inizia davvero a fare sul serio; se vediamo il film diviso in due unità separate ma reciprocamente dipendenti, nella prima è possibile rintracciare i tipici “segni particolari” dell’autore portoghese: la corrente sentimentale fra Tonia e Rosário si genera dal precedente Odete (2005) riacciuffandone le sfumature avariate, d’amore sporco, tangenti la disperazione (ad esclusione del finale in ospedale non verrà mai schiacciato a fondo il pedale del dramma nonostante gli argomenti narrati navighino tra povertà, droga, vecchiaia, morte, eccetera), in aggiunta Rodrigues si concentra nuovamente sull’identità dei suoi personaggi e chiaramente mescola il tutto, rende plurale il singolare, sdoppia i ruoli, li accoppia in un procedimento spurio: non solo il genere di Tonia è ibrido per via della sua transessualità (il grande passo identificativo sarebbe la conversione sessuale in sala operatoria), ma anche nella sfera familiare ricopre due posizioni diverse senza effettivamente ricoprirne nessuna, è padre biologico (ma non per Zé Maria che nell’incipit dice “mio padre è morto!) e madre travestita (quindi aspramente rifiutata); dalla non-accettazione del figlio di avere un trans come genitore nasce probabilmente l’amore verso il giovane Rosário (Tonia stessa dirà che quando girano insieme vengono scambiati per parenti stretti) a sottolineare gli intrecci impuri che danno luogo ad una ragnatela di perdizione personale e sociale dove paradossalmente Tonia si pone come ultimo baluardo di una morale intima finanche religiosa.

La seconda parte cambia marcia rispetto alla prima. Le tematiche sopraelencate restano brace che silenziosamente continua ad ardere, però Rodrigues decide di (s)vari(on)are, non più l’aderenza al reale, non più Lisbona ma una magione isolata nella campagna. La gita fuori porta della coppia si trasforma in viaggio interiore dove il bosco diviene paesaggio dell’anima e la bizzarra proprietaria di casa, anch’essa transessuale e presente nell’enigmatico prologo dove (forse) assume i tratti di una simbolica sineddoche dell’alterità che l’etero Zé Maria non vuole eliminare perché riporta alla mente un’epifania paterna, un Cicerone che (ri)conduce l’io di Tonia nella sua custodia. L’importanza di questo segmento, così scollato e stonato in confronto a quanto veduto fino a poco prima, si riverbera in ciò che accade dopo, infatti il regista non farà proseguire il tragitto di Tonia e Rosário verso la meta iniziale, ovvero il fratello di quest’ultimo, ma li riporterà a casa e subito la drag queen in via di pensionamento giungerà alla chiusura del cerchio, letteralmente dissotterrerà i propri ricordi in un’emersione dolorosa e denudante: tolti gli abiti femminili, i boccoli alla Shirley Temple e i seni che erano stati i primi a dare segnali di cedimento, resta l’Uomo, e attenzione non l’uomo, al cospetto dell’improrogabile Fine.

In questa vicenda che finisce per intristire anche il più ottimista degli spettatori, Rodrigues ci mette lo stile di chi il cinema lo sa fare, e bene. Il sottoscritto apprezza sempre quando la razionalità è arieggiata da spiragli d’inventiva anche slegati al contesto, e qui c’è di che gioire: il regista piazza di sovente delle finestre musicali cantate direttamente dagli attori in scena, le troviamo in un cimitero, dal parrucchiere, su un automobile, sono schegge autonome perfette per ossigenare il rigore tecnico e rendere palpabile l’estro che si mette a disposizione del cinema; non solo il grande e splendidamente grottesco finale la cui canzone intonata da Tonia è sintesi precisa di quanto si è visto, ma anche e soprattutto l’intermezzo nella radura con tanto di crepuscolare alterazione cromatica, quando si dice che una singola scena vale il prezzo del biglietto.

mercoledì 23 settembre 2015

Weekend

C’è una scrittura forte dietro a Weekend (2011), prodotto semplice (ma anche raffinato) il cui movimento è trasportato nel continuo confronto fra due uomini, ovviamente diversi, che incontrandosi in un lembo temporale brevissimo partoriscono l’albeggiare una relazione fatta di titubanze e indecisioni ma inverata da una partenza imminente che dilata il tempo e accelera i sentimenti: due giorni come due anni o due secoli, Glen e Russell sulla soglia del turbine, vederli lì – davvero – venirsi incontro, incastrare i caratteri, provare a smussare gli spigoli. E poi, appunto, la scrittura. Perché ammettiamolo, il film di Andrew Haigh, emergente regista britannico che vanta collaborazioni prestigiose in passato (Ridley Scott!), ha uno scheletro omologo al 90% delle pellicole sentimentali; la conoscenza, prima fisica e poi intima, l’innamoramento e la conseguente nonché inevitabile rottura sono i capisaldi del genere e Haigh non si preoccupa di apportare alcuna modifica alla struttura, ciò che invece appare chiaramente come il suo obiettivo da raggiungere (che, per chi scrive, viene raggiunto) è il pronunciarsi sull’omosessualità da dentro l’omosessualità senza far uso di cliché stantii e senza naufragare in una apologia magniloquente del tema, bensì ancorandosi alla vita che nasce di una coppia gay, raccontandoli, l’uno e l’altro, così come sono in maniera accattivante, con anche (evviva) un po’ di autoironia e di ironia tout court che di certo non guastano, infiltrandosi nei loro passati e nei loro presenti, un po’ nostalgici per entrambi con il tic che li accomuna di annotare le avventure amorose vissute e poi, inevitabilmente, svanite.

C’è la parola come assunto in Weekend. Ci sono parole, tante, che modellano due sfere concentriche come l’amore omosessuale in privato e il suddetto calato nella realtà sociale. Ci sono, è il caso di dirlo, due interpreti eccellenti (Tom Cullen e Chris New) che incarnano due modi di vivere il proprio orientamento sessuale in maniera inversa, e dalle frequenti conversazioni fra Russell e Glen emergono punti di vista che creano un dialogo capace di superare il mondo-intimità appena generato, gli alterchi, le carezze, le diatribe, le tenerezze, per giungere ad una interrogazione leale sull’identità omo nella contemporaneità; tale ricerca nel suo svolgersi assume connotati divergenti come lo sono le personalità dei protagonisti (uno pacato, l’altro risoluto, uno mimetizzato, l’altro scoperto, uno è conforme l’altro è rivoluzione) la cui fusione di appena quarantotto ore secerne una chiosa che ha nell’uguaglianza il suo contenuto, perché il tramonto su una città, le luci spente di un palazzo, e un bacio tra due persone vicino alla finestra non cambiano: non esistono crepuscoli etero e crepuscoli gay, le differenze stanno nella cultura e non nella natura.

venerdì 18 settembre 2015

Two Birds

Due giovanissime coppie, una di fatto l’altra in fieri, si recano ad una festicciola. Assumono della droga. Finisce male.

Abbandonati i magnifici scenari di Síðasti bærinn (2004), e infatti l’unico scorcio pseudo-naturalistico che verrà mostrato è il graffito di una montagna accarezzato dal protagonista, Rúnar Rúnarsson opta per un più visivamente prosaico appartamento urbano dove si appiccica stringendo più che può il quadro ai visi dei due uccellini. Niente respiro onnisciente di Madre Natura a rifinire ed ingemmare il film ma nuovamente l’illustrazione di una tragedia che, seppur non irreversibile come la morte, in quanto ad indelebilità è facile ritenere che non abbia pari. La questione fondamentale è che Smáfuglar nella sua prima parte, dove con poche battute ed un altrettanto esiguo numero di azioni è capace di tratteggiare una convincente timidezza/goffaggine situata nel ragazzino, non lascia intendere di come le cose possano tragicamente precipitare in un buco nero laddove è l’impotenza il sentimento che annichilisce e annichilerà presumibilmente a lungo la coscienza di un candido testimone, ma quando appunto le cose precipitano i primi ad essere impreparati di fronte ad un’ennesima violazione del Corpo e della Persona siamo noi, noi che in quattro e quattr’otto diventiamo complici di un segreto il cui odore posticcio sarà per sempre quello della vaselina, e nell’intimità senza ossigeno che si crea col finale, l’ultimo sguardo, quello rivolto direttamente in camera, implora con tutta la forza che ha un silenzio, il nostro, mentre le languide parole di Lei si propagano e riecheggiano nel vuoto umano che invisibilmente sta inghiottendo il loro abbraccio. E non solo quello.

(“sono orgogliosa che sia stato con te”)

(“sono orgogliosa che sia stato con te”)
  
(“sono orgogliosa che sia stato con te”)

giovedì 17 settembre 2015

Per ballare lo so c'è l'elettroshock

Perché non ascoltate Flavio Giurato? Sul serio: fatelo! Da non-musicista e da non-cantante mi sono sempre concentrato sulla componente testuale dei brani ed in quelli di Flavio Giurato ecco cosa ho riscontrato: trovo assolutamente dissestante, ma in senso positivo, il suo strutturarsi per lacerti, cosa sono questi strappi così eterogenei ed inconciliabili? C’è smarrimento nell’ascoltare Giurato, ed è quello che voglio più d’ogni altra cosa quando mi rapporto con un manufatto artistico. Io direi di lasciare alla gente ammucchiata sul tappeto rosso dei reazionari la cartapecora degli schemi strofa-ritornello-strofa, leitmotiv dell’omino biascicante che idolatrano, io, di contro, scelgo la scossa: tanto è sregolata e lirica la scrittura giuratiana, tanto mi feconda e mi slancia verso congetture trasversali. Ma una tale frammentarietà, narrazione per separazioni, che però si riunisce, con magia, in un Senso interiore che è sempre stato lì dentro e che Giurato uncina, non potrà voler dire qualcosa Signor Salvini? Lei e il Suo limite di stranieri nelle classi? Non sarà mai che la molteplicità è la strada unica e contemporanea per una società moderna? Non sarà mai che la molteplicità è la strada unica e contemporanea per una letteratura moderna? Come Alberto Grifi, come la sua protesi televisiva Blob, come il Pálfi di Final Cut (non visto, ma immagino sia così), la poesia di Giurato è una manifestazione artistica fondata sul frammento, un mosaico folle la cui ricostruzione è dentro di noi, dove già c’era ma senza che venisse mai interpellata. E questo mi fa dire che: state attenti all’Arte amici, l’Arte ci risveglia. 


mercoledì 16 settembre 2015

My Reincarnation

Progetto che merita questo My Reincarnation (2011), non foss’altro, prima di tutto, per la lungimiranza della sua regista, nonché produttrice e camera(wo)man Jennifer Fox che già nel lontano 1989 si era incuneata nella famiglia di Chögyal Namkhai Norbu, aka Rinpoche, maestro buddista – esule – che dopo essere fuggito dal Tibet trovò asilo nel nostro paese, e poi un lavoro (docente, non poteva essere altrimenti, all’Università Orientale di Napoli) e una moglie italiana che gli diede due figli, una femmina, e un maschio: Yeshi. Quindi, la documentarista Fox già vent’anni fa e probabilmente con ancora un’idea non completa dell’insieme, aveva deciso di filmare la vita, anche e soprattutto quotidiana, del maestro il quale si rivela, sotto la sua lente, persona umile e con un acuto senso dell’ironia. Ma qui, nel focolare domestico, coglie dei segnali di matrice sanguinea più attraenti di qualunque biografia religiosa, e allora la filmmaker, in particolare nella parte iniziale, diventa confessore di Yeshi che da ragazzino imberbe manifesta timori relativi ad un legame, quello con il padre, che chiaramente non è uguale a quello che “allaccia” milioni di altri genitori e corrispondenti figli italiani. È diverso, e dalle parole del giovane Yeshi velate da una palpabile sofferenza, si intende la sua voglia di essere figlio “normale” per scollarsi di dosso l’etichetta “figlio di Rinpoche”, o, in aggiunta, “figlio di Rinpoche finanche reincarnazione di uno zio sconosciuto – sempre di Rinpoche”.

Yeshi è e diventa a conti fatti il protagonista latente del documentario (dimenticavo: alla narrazione si alternano lui e il padre) che costituendosi in una successione di balzi temporali, e qui i complimenti vanno alla Fox per il suo perseverare, certifica l’invecchiamento di Rinpoche e la parallela maturazione di Yeshi, una crescita situata nell’età anagrafica, perché il ragazzo diventa a sua volta genitore e uomo trovando un buon lavoro, ma anche una crescita che si potrebbe definire spirituale in cui la sua posizione giovanile che prendeva le distanze dal buddismo si ammorbidisce, lentamente. Osservando la salute cagionevole di Rinpoche, Yeshi accetta la propria condizione tradotta inconsciamente (o forse no) in sogni e visioni che gli parlano del tempo, più che del passato del futuro: un tempio, delle colline, un villaggio straniero: il Tibet.
Agganciato all’evoluzione di Yeshi in delfino, My Reincarnation tratta indirettamente l’incontro tra due sfere culturali molto lontane, una fusione che si rivela palcoscenico nonché substrato: la differenza che intercorre tra padre e figlio si deve alla propria appartenenza culturale, un padre e un figlio contrapposti da radici geografiche altresì divergenti, l’Italia cattolica e la sua idea di famiglia influiscono molto sullo Yeshi adolescente, eppure connessi da un filo tenace che, c’è da starne certi, non si spezzerà mai.

lunedì 14 settembre 2015

Underwater Love

Pinku eiga con discreto grado di consapevolezza, lignaggio medio-alto: non solo il regista Shinji Imaoka è, a quanto si legge in Rete, un profondo conoscitore del genere avendo basato la sua carriera su questa versione giapponese del softcore, ma c’è soprattutto un ordito professionale più elaborato rispetto a normali pink-movie: a monte ci sono gli euro della tedesca Rapid Eye Movies, compagnia dedita alla distribuzione con parentesi produttive (uno dei peggiori film di Sono, The Land of Hope [2012], annovera anche un loro finanziamento), e inoltre non si può non citare la presenza di Christopher Doyle, direttore della fotografia che nella sua lunga carriera ha lavorato fianco a fianco con alcuni dei registi più importanti della nostra epoca, orientali e non.
Con delle premesse così è logico che Onna no kappa (2011) abbia poco da spartire nella categoria in cui si tenta di incastrarlo, quel poco è dato da inserti sessuali (rigorosamente privi di nudi frontali, la legislatura in merito lo vieta) comunque poveri di malizia e di contro, come già appurato in molte altre opere nipponiche, ricchi di singolarità che rendono il sesso un atto bislacco, quasi infantile, al massimo adolescenziale, qui incrementato da tonnellate di weird con membri rettili (sì, l’assenza di una “e” lì davanti è assolutamente voluta) e “perle anali” (una dicitura che non ha bisogno di ulteriori approfondimenti) dal potere taumaturgico.

Perché Underwater Love (e per una volta non crocifiggiamo solo i titolisti italiani, anche questo di titolo lascia parecchio a desiderare) è un film dannatamente bislacco in cui le stramberie erotiche, ad ogni modo brevi e, come detto, molto caste, cedono il passo ad un soggetto folle che ha uno sviluppo sulla medesima falsariga; la proliferazione di “cose” stravaganti va necessariamente citata: alla base di tutto c’è la presenza di un Kappa, figura del folklore giapponese che ama l’acqua e i cetrioli (un gradimento che nel contesto filmico non stupisce affatto), qui nelle vesti post mortem di un vecchio compagno di scuola della protagonista; l’aspetto di questo Kappa è un incrocio tra un umano e una sorta di tartaruga, infatti l’essere ha l’anatomia di un uomo con in più uno scudo sulla schiena, pseudo-becco-muso, mani e pene squamosi, calotta cranica in vista. Oltre a tale creatura, assolutamente parodizzata a partire dal trucco amatoriale (plausibile omaggio ai monster –movie d’epoca o altrettanto possibile effetto di un budget limitato), la pellicola in tutta la sua interezza non ha la benché minima voglia di scendere a patti con la realtà e quindi si impegna costantemente a deragliare nell’assurdo, ad esacerbare la componente sentimentale fino a renderla ridicola (le due storie d’amore parallele sono talmente insulse e sciocche, talmente portate all’eccesso, che risultano più veritiere di qualunque rom-com), innaffiando periodicamente la storia con improbabili stacchetti musicali. E tutto svolto con quella consapevolezza più o meno accentuata, dote fondamentale citata all’inizio.

La pochezza contenutistica (anche se le tematiche nel finale aprono spiragli di profondità) similare ad un’esiguità espositiva (probabilmente digitale, probabilmente non per vezzo ma per esigenza) lasciano pochi residui degni di nota, ciononostante il film di Imaoka rivela a modo suo la capacità di sottolineatura mitopoietica del cinema, laddove il mito è doppio: il primo è la leggenda del Kappa, punto irremovibile della vicenda che tra l’altro, con i ravvicinati rapporti sessuali del finale, spezza un sortilegio come nelle migliori tradizioni fiabesche, mentre il secondo mito, che potrebbe essere virgolettato, è il remix del genere pink: riadattazione, rivisitazione, esplorazione, rianimazione.
Il sesso è periferia, il centro un prisma anarchico.

venerdì 11 settembre 2015

Kitchen Sink

Dal buco del lavello una donna tira via un innocuo capello…

Non vogliamo sapere né come né perché la mano che sta dietro a Kitchen Sink (1989), corticino fieramente periferico, sia poi andata in futuro ad immischiarsi in prodotti sfacciatissimi (televisivi, avete pensato bene) quali sono serial del calibro di Sex and the City o The L Word, preferiamo immaginarci soltanto una Alison Maclean, canadese figlia di neozelandesi, che a trentuno anni se ne va timidamente a Cannes con sotto il braccio una pizza contenente quello che era a tutti gli effetti il secondo lavoro della sua carriera. I giurati di quell’edizione non riconobbero alcun merito al film della Maclean ma, come si suol dire, non è mai troppo tardi e oggidì a premiare Kitchen Sink potete pensarci tranquillamente voi perché è una robetta che vale e a cui non chiederete indietro i tredici minuti che vi sono serviti per vederla.

Da un soggetto che avrebbe potuto far scivolare tutto nel caciaresco bidone dei b-movie 80’s, ne esce invece fuori un agglomerato di psico-suggestioni con annessa mostro-manifestazione che attinge, rispettivamente, all’atmosfera malata dei primi cortometraggi di Lynch e a un body horror meets Tsukamoto; tali modelli (alti) restano ovviamente lontani, tuttavia la cosa non inficia il “piacere” che si prova durante la visione, un piacere sottilmente scomodo che ha nella non-letteralità il punto di forza: la possibilità di significare l’essere venuto dal lavandino è hip hip urrà per nulla monointerpretativa e ad anche quella più pensabile, ovvero che la creatura sia una specie di versione reincarnata o resuscitata di un eventuale marito/amato passato a miglior vita (d’altronde il dettaglio della fotografia che ritrae la donna insieme ad un altro uomo deve avere un senso. O forse no?), non appare il fine che la regista voleva raggiungere ad ogni costo; tutt’altro: è un film come questo, decisamente imperfetto e poverello, che strisciando sotto l’epidermide ha l’abilità di operare nell’ordine delle impressioni e di colonizzare felpatamente il nostro immaginario, tanto che d’ora in poi guarderemo con un certo sospetto i peli che orbitano attorno il foro del lavabo.
Bello il tema musicale.

mercoledì 9 settembre 2015

Odete

Il fantasma (2000), primo lungometraggio di João Pedro Rodrigues che al tempo giudicai con quella superficialità tipica dell’ignoranza, possedeva una precisa coerenza d’intenti: voleva essere un film morboso e tramite un racconto maculato di morbosità riusciva costitutivamente ad esserlo. Cinque anni più tardi il regista lusitano si ripropone con Odete, opera che vive della spinta del film precedente (anche qui la dimensione sessuale è un lato importante di ogni personaggio) ma che sa protendersi oltre, tangendo i litorali di un romanticismo funebre, analizzando con un distacco non privo di accenti surreali la doppia faccia dell’Ossessione affidandosi alla geometria nel disegnare triangoli amorosi i cui vertici finiscono per interscambiarsi gli uni con gli altri.
Ad esclusione di due momenti all’interno della storia privi di solidità (mi riferisco al modo frettoloso e immotivato con cui Odete caccia via Alberto e a come faccia la protagonista ad intrufolarsi in casa di Rui), il film di Rodrigues è cinema dalla forza sotterranea apparentemente anestetizzato in un’andatura felpata; quando però emerge (questa forza) coglie piena realizzazione negli studi estetici del regista che ricerca in più occasioni l’effetto inaspettato: movimenti ascendenti o restringenti, scene gemelle (i baci), paesaggi (cimiteriali) di grande pulizia e profondità ottica, e poi di nuovo (in riferimento al film precedente) una visione del sesso laterale, forse meno votata all’appagamento del piacere perverso e più orientata alla soddisfazione di un bisogno primario come la maternità (a tal proposito la scena in cui Odete copula col tumulo di Pedro è l’istantanea che ti si fissa lì).

Snobbando le linee guida della psicologia preconfezionata, Rodrigues rende Odete una donna credibilmente in balia della propria follia, e se inizialmente la fuoriuscita del compagno poteva legittimare la costruzione immaginaria di un rapporto con Pedro in modo da modificare la realtà secondo il proprio intimo volere, con la progressiva intromissione nella vita del ragazzo defunto (Odete che va a dormire nella stessa camera) questa chiave di lettura viene sbriciolata dal processo di autodisidentificazione che si trasforma in riconfigurazione di sé, in modo molto anarchico, svincolato dai meccanismi narrativi, e ipoteticamente legato ad un filo sentimentale reciso e subitaneamente riallacciato con un nuovo partner (Rui), il quale a sua volta mosso dal devastante dolore della perdita tenta di mitigare l’amore svanito con insoddisfacenti incontri effimeri, per poi venire risucchiato anche lui nel vortice irrazionale della spersonificazione, puzzle identitario non ricomponibile divorato dai suoi istinti: la donna diventa uomo, l’uomo diventa donna, e intanto l(‘)a mor(t)e, immobile, osserva.

lunedì 7 settembre 2015

Samson & Delilah

Dei vari scorci – non troppissimi – che permettono di osservare il film vincitore della Camera d’Or a Cannes 2009, ce n’è uno particolarmente esplicativo; non va sottovalutato l’utilizzo che il regista Warwick Thornton fa della musica, fin dalle prime battute essa diventa un metodo di esposizione efficacemente descrittivo in una pellicola dove il carico verbale è parecchio prosciugato, nemmeno centociquanta linee di dialogo in tutto. La musica è un accessorio efficace per far arrivare la routine del villaggio di nativi australiani (la band fuori dalla veranda suona continuamente la stessa melodia), ma lo è anche per tracciare le personalità sia di Sansone che di Dalila: dove lui esprime il suo animo ribelle appropriandosi con forza di una chitarra elettrica, mentre lei rivela un lato romantico “regalandosi” ogni sera un momento di serenità con una audiocassetta spagnola. Il quadro personale dei due ragazzi risulta basico ma ispessito da un afflato utopico che si sfracella con la dura realtà rappresentata, delineando un cinema ficcante non tanto nelle cadute (ogni forma di dipendenza è stata ormai ampiamente illustrata dalla settima arte), quanto nell’ostilità ambientale, nel degrado civile e igienico che si riflette in un paesaggio desertizzato dove per trovare dell’acqua (fangosa) bisogna scavare a mani nude nella sabbia.

L’accelerazione drammatica della seconda parte, non priva di qualche limitazione che vedremo tra poco, inscena l’impossibilità della fuga con un’escalation inumanizzante che non lascia apatici (probabilmente il momento in cui anche Dalila inizia a sniffare benzina assume i contorni del punto di non ritorno), ma tra le righe adopera sempre coordinate musicali per definire stati emotivi nonché per sciogliere nodi narrativi, e durante la deriva urbana Thornton non può fare altro che deprezzare la loro spinta vitale riducendo la musica a sgangherate cantilene proferite da un barbone.
Esulando da questo discorso comunque validante che riguarda il sonoro (tra l’altro oggetto di manipolazioni tecniche, vedasi Sansone che si tappa le orecchie o la scena del ballo notturno), il film ha almeno un’altra freccia al suo arco, ovvero la costruzione di un rapporto (...sentimentale) che prescinde dalla parola e si costruisce nel singolo gesto (la mano che scansa la bottiglia per incontrare l’altra mano), ma, nell’insistere sulla tragedia nel contesto urbano pecca un minimo col voler ribadire tale dimensione proponendo per due volte consecutive un medesimo scenario che se da una parte tende a sottolineare l’alienazione di Sansone, riuscendoci, per carità!, dall’altra si ripete e forse esagera un poco accanendosi sulla povera Dalila (passi il repentino incidente, ma l’altrettanto rapido adescamento non ha motivazioni se non quelle di imbrunire la sceneggiatura).

Ad ogni modo si tratta dell’unico appunto che il sottoscritto si sente di segnare sul taccuino, Samson & Delilah (2009) è cinema il cui nucleo pur essendo già stato raccontato in passato, e in egual modo verrà raccontato anche in futuro, possiede quel briciolo di dignità per appartenere alla categoria.

domenica 6 settembre 2015

Come Gagarin

Il punto è questo: nel casino della vita vera mi sono accorto di avere ottantotto file word in una cartella del pc. Questi ottantotto file corrispondono ad ottantotto commenti di film, sono cose viste anche tre se non quasi quattro anni fa, ci sono scarti, avanzi, rimasugli, pezzi improponibili che ho deciso di proporre comunque. Mi sembra giusto dissotterrare questa roba, più che altro nei confronti del me stesso che, come ben sapete voi dotti bloggers, cimentandosi con l’esercizio della scrittura ha sempre deambulato su un crinale che da una parte riempiva e dall’altra “affaticava”. Non è una riapertura, sia chiaro. È lo sbarazzo del magazzino. Sarà bello, una volta arrivato davvero in fondo, vedere tutta questa maratona durata quasi dieci anni. Mi sentirò come Gagarin affacciato all’oblò della sua navicella, ma molto più lontano. Mi sentirò così.