Due giovanissime coppie,
una di fatto l’altra in fieri, si recano ad una festicciola.
Assumono della droga. Finisce male.
Abbandonati i magnifici
scenari di Síðasti bærinn (2004), e infatti l’unico
scorcio pseudo-naturalistico che verrà mostrato è il
graffito di una montagna accarezzato dal protagonista, Rúnar
Rúnarsson opta per un più visivamente prosaico
appartamento urbano dove si appiccica stringendo più che può
il quadro ai visi dei due uccellini. Niente respiro
onnisciente di Madre Natura a rifinire ed ingemmare il film ma
nuovamente l’illustrazione di una tragedia che, seppur non
irreversibile come la morte, in quanto ad indelebilità è
facile ritenere che non abbia pari. La questione fondamentale è
che Smáfuglar nella sua prima parte, dove con poche
battute ed un altrettanto esiguo numero di azioni è capace di
tratteggiare una convincente timidezza/goffaggine situata nel
ragazzino, non lascia intendere di come le cose possano tragicamente
precipitare in un buco nero laddove è l’impotenza il
sentimento che annichilisce e annichilerà presumibilmente a
lungo la coscienza di un candido testimone, ma quando appunto le cose
precipitano i primi ad essere impreparati di fronte ad un’ennesima
violazione del Corpo e della Persona siamo noi, noi che in quattro e
quattr’otto diventiamo complici di un segreto il cui odore
posticcio sarà per sempre quello della vaselina, e
nell’intimità senza ossigeno che si crea col finale, l’ultimo
sguardo, quello rivolto direttamente in camera, implora con tutta la
forza che ha un silenzio, il nostro, mentre le languide parole di Lei
si propagano e riecheggiano nel vuoto umano che invisibilmente sta
inghiottendo il loro abbraccio. E non solo quello.
(“sono orgogliosa che sia stato con
te”)
(“sono
orgogliosa che sia stato con te”)
(“sono orgogliosa che sia stato con
te”)
Visibile ma incomprensibile qui
RispondiEliminaLa suggestione sonora: ‘